Perchè si studia la storia della filosofia – PLOTINO E IL NEOPLATONISMO (II)

Di Antonio Livi  Tratto da “Dal senso comune alla dialettica. Una storia della filosofia”, Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2004-2005. CAPITOLO QUINTO. PLOTINO E IL NEOPLATONISMO (II). L’anima del mondo. L’ascesi filosofica. Contraddizioni nella metafisica di Plotino. 3. I discepoli di Plotino. Amelio e Porfirio. Giamblico. 4. La scuola di Atene e Proclo. 5. Importanza storica del neoplatonismo.

L’anima del mondo
L’Anima è l’ultima ipostasi nel processo della generazione divina: è generata dall’intelletto, al quale è necessariamente rivolta e per il quale acquista una capacità d’intendere, ed è insieme principio di vita nel mondo sensibile, come «natura», cioè come potenza produttiva inconsapevole. E poiché l’Anima esplica la sua attività in una successione di atti e di momenti, il tempo sorge insieme con l’anima; e il mondo si muove nel tempo, perché è nell’anima.
L’Anima in quanto partecipe dell’Uno, è universale; ma essa include una molteplicità di anime individuali, ciascuna delle quali può estraniarsi da quella e iniziare, pur senza consumare un assoluto distacco, l’inconfondibile ciclo della sua esistenza.
Come principio produttivo e vivificatore, cioè come Natura, l’Anima trasmette alla materia i riflessi delle Idee che la sua parte superiore incessantemente contempla: le «ragioni seminali» sono così il principio della vita differenziata dei singoli individui: il loro complesso costituisce la «Ragione universale» (Logos), che non è un’ipostasi nuova, ma l’effetto della immanenza dell’Intelletto nell’Anima. Come abbiamo già detto, infatti, per Plotino l’anima del mondo è il pensiero dello Spirito o intelletto: «L’Anima è un’immagine dell’Intelletto; come la parola espressa è immagine del verbo interiore all’anima, così anche l’anima è il verbo dell’Intelletto e l’attività della quale l’Intelletto diffonde la vita per far sussistere tutti gli altri esseri… Bisogna concepire l’Anima non come estraniantesi o staccata da esso, ma come immanente in esso» (Enneadi, V, 1,3).
Ma la posizione intermedia tra intelligibile e sensibile è pure determinante in Plotino per intendere il problema del male, considerato in un orizzonte non soltanto umano, ma cosmico, essendo il male precisamente un principio di dispersione volto a infrangere l’armonia e l’unità del tutto. L’anima si trova di fronte, dunque, a due vie, a seconda che accentui l’interesse per il sensibile, se ne appesantisca, vi rimanga impastoiata, oppure imbocchi la strada dell’unificazione e del ritorno verso l’intellegibile. In questa seconda via occupa una funzione determinante l’amore per la bellezza, quale manifestazione sensibile dell’intelligibile e dell’Uno nell’armonia delle cose; nella bellezza, cioè, si manifesta e si potenzia un eros platonicamente inteso, che ci porta a scorgere nella corporeità l’intelligibile, capace di attrarci verso il mondo delle idee. Questa fase più alta di purificazione e «ritorno» corrisponde alla dialettica, riproposta da Plotino nel senso platonico di sapere intellettivo supremo, di contro alla sua riduzione aristotelica a forma inferiore di sapere e alla concezione stoica che ne accentuava l’aspetto metodologico. Tuttavia neanche la dialettica può essere per Plotino la forma ultima del processo di purificazione, poiché non è ancora una riconquista piena dell’unità, esattamente come l’intelletto è un gradino inferiore all’Uno in quanto correlativo alla molteplicità degli intelligibili. Per la riconquista dell’unità è necessario un atto che vada al di là dell’intelligibile e che può essere descritto come un’«estasi», ossia un uscire da sé per identificarsi nell’Uno, immergendovisi come in una luce dove scompaiono tutti i contorni. Anche quest’aspetto del pensiero plotiniano non mancherà di avere notevole fortuna dal Rinascimento al Romanticismo, in tutte quelle forme di filosofia che in qualche modo ritengono che la vera e profonda realtà non sia attingibile con il pensiero discorsivo, ma soltanto con una forma di sapere intuitivo nel quale il pensiero discorsivo venga al tempo stesso integrato e superato.
Se dunque molti e diversi sono i motivi di “modernità” di Plotino, non si deve però dimenticare ciò che lo estrania profondamente dal cristianesimo e da molta parte del pensiero moderno: un sostanziale disinteresse per il tempo e la storia e anzi il rifiuto di attribuire loro un senso che ne consenta in qualche modo un giudizio dal punto di vista dell’uomo e del suo destino; per Plotino, invece, si può riconoscere un senso soltanto alla profonda consonanza dell’uomo e dell’universo con l’unità che insieme li stringe e li ordina.

L’ascesi filosofica
Come si è visto, la concezione plotiniana della realtà e della coscienza che l’uomo può avere di essa coincide con l’ascesi  e con la religione , il che rappresenta allo stesso tempo un punto di contatto e una profonda differenza con il cristianesimo. Il punto di contatto sta evidentemente nell’indicare all’uomo il cammino di una progressiva elevazione spirituale, che richiede il distacco (effettivo o almeno affettivo) da tutto ciò che non porta a Dio e non permane nell’eternità dell’unione con Dio; la differenza sta nel considerare questa ascesi come l’opera esclusiva dell’uomo, e in particolare del saggio, del filosofo; perché il cristianesimo, a differenza di Plotino e di tutto il pensiero pagano antico e moderno, attribuisce all’intervento di Dio stesso il primato effettivo nell’opera di spiritualizzazione e santificazione dell’uomo, come già si enuncia con la “gnosi” cristiana di Clemente Alessandrino e di Origene, e come meglio dirà sant’Agostino parlando della “grazia” divina; inoltre, per il cristianesimo il distacco che si richiede per l’unione con Dio non è tanto dalla materia o dalle cose contingenti quanto piuttosto dal peccato, dall’egoismo, dalla superbia e insomma da tutte le forme, anche “spirituali”, di opposizione all’amore di Dio.
Chiarito questo importante aspetto, vediamo come Plotino descrive il cammino dell’uomo che vuole “tornare” all’unità dalla quale si trova (senza sua colpa) lontano. Egli utilizza il mito greco di Ulisse, trasmesso letterariamente dall’Odissea di Omero, e scrive: «Imitiamo Ulisse, il quale seppe sfuggire alla maga Circe e anche a Calipso. Penso che Omero, con questa storia, ha voluto farci capire che l’eroe seppe rinunciare a fermarsi durante il viaggio, pur avendo davanti a sé tante cose belle da ammirare e tante cose gradevoli ai sensi. Perché la nostra patria non è qui ma lassù, nel luogo da dove siam venuti e dove è il Padre (Enneadi, I, 6,8)»; e così il viaggio verso Itaca – l’isola da dove era partito e dove lo attendono i famigliari – è per Plotino una metafora della vita umana, che deve tendere al “ritorno” nella vera patria. L’espressione plotiniana può essere stata ispirata da questo celebre testo del Nuovo Testamento: «Non abbiamo qui una città permanente, ma andiamo in cerca di quella futura» (Lettera agli Ebrei, 13, 14); in altri passi del medesimo libro ricorre addirittura la medesima espressione che Plotino usa, quella di “patria”: cfr Lettera agli Ebrei, 11, 13-16: «Nella fede morirono tutti costoro [i giusti dell’Antico testamento], pur non avendo conseguito i beni promessi, ma avendoli solo veduti e salutati da lontano, dichiarando di essere stranieri e pellegrini sulla terra. Chi dice così, evidentemente, dimostra di essere alla ricerca di una patria. Se avessero pensato a quella dalla quale erano appena usciti [la Mesopotamia], avrebbero avuto possibilità di ritornarvi; essi invece aspirano a una patria migliore, quella del cielo; per questo Dio non disdegna di chiamarsi il loro Dio: ha infatti preparato loro una città». Ancora più esplicito – e più diverso dall’impostazione naturalistica di Plotino – è l’insegnamento di san Paolo, che stigmatizza l’attaccamento alle cose della terra da parte dei cattivi cristiani, e conclude: «Essi, che hanno come dio il loro ventre, si vantano di ciò di cui dovrebbero vergognarsi, tutti intenti alle cose della terra. La nostra patria invece è nei cieli, e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso» (Lettera ai Filippesi, 3, 19-21).
Il primo passo di questo viaggio è la “gnosi”, ossia la conoscenza del valore (relativo e transitorio) di questo mondo e dell’esistenza di un mondo di valori eterni e assoluti; con accenti e modi letterari che saranno poi ripresi dalla letteratura cristiana del Siglo de oro spagnolo (si pensi a La vida es sueño di Calderón de la Barca), Plotino scrive che la consapevolezza del filosofo è questa: «La vera vita è solo lassù: la vita di adesso, in quanto vita senza Dio, non è che un’ombra di vita» (Enneadi, VI, 9,9). Ma gli aspetti negativi della vita presente sono, per lui come per Platone, identificati con la condizione carnale, con l’esistenza corporale, e il corpo  viene descritto come il carcere dell’anima ; il corpo, scrive infatti Plotino, «è la nostra catena» (Enneadi, II, 9,7); esso «rende l’anima impura, ne fa un impasto confuso di mali […] la travolge incessantemente portandola fuori di sé, in basso nelle tenebre […] appesantita da tutta quella massa corporea, da quei condizionamenti della materia» (Enneadi, I, 6,5); in definitiva, «finché dimora nel corpo, l’anima dorme un sonno profondo» (Enneadi, III, 6,6).
Lo spiritualismo  di Plotino accentua poi la sua derivazione da Platone allorché indica, come mezzo supremo della progressiva «kàtharsis [ = purificazione]» dell’anima la contemplazione della bellezza: non quella però della natura ma quella dell’arte, frutto dell’Intelletto. Dall’arte l’anima è condotta alla pratica della sapienza (vita etica, saggezza del filosofo), che culmina nella contemplazione e nell’estasi .
È bene osservare che la contemplazione e l’unione mistica con l’Uno, tipiche della concezione plotiniana, sono assai differenti dalle corrispondenti categorie cristiane. Plotino, infatti, concepisce l’estasi come perdita della propria identità: l’uomo si spoglia di ogni determinatezza e finitudine, e così si “perde” letteralmente in un ritorno all’Uno da cui proveniva; il cristianesimo, invece, intende la “visione beatifica” del Paradiso e l’unione mistica della vita presente come un vero e proprio rapporto personale, un rapporto cioè che non annulla la persona umana, ma anzi fa sì che essa conosca e ami la persona di Dio, “perdendosi” in Lui solo metaforicamente. Altro aspetto caratteristico di questa spiritualità plotiniana – anch’esso assai distante dalla concezione cristiana – è che l’ascesi  e la morale  non sono per Plotino, come per il cristianesimo, una purificazione interiore dal peccato , cioè dal male morale che si trova nella coscienza : sono piuttosto un processo mentale che elimina degli elementi estranei alla visione del bene intellettuale. Plotino, a proposito del male, scrive infatti: «Si deve affermare che noi non siamo il principio dei mali; noi non siamo cattivi in noi stessi, perché il male esiste prima di noi. Il male è fuori dell’uomo, e se invade l’uomo, lo invade contro la sua volontà. Ora, c’è un mezzo per sfuggire al male che invade l’anima: ma è un mezzo riservato a coloro che possono, e non tutti hanno questa possibilità» (Enneadi, I, 8,5). Ecco l’espressione più chiara della concezione aristocratica e intellettualistica della morale: il mezzo che Plotino suggerisce per evitare il male non è, come per il cristianesimo, la conversione del cuore, ma la conoscenza del cammino di ricongiunzione con l’Uno e di abbandono della materia, secondo una sapienza riservata a pochi eletti.

Contraddizioni nella metafisica di Plotino.
Come giustamente osservava Vittorio Mathieu, «Plotino è ingegnosissimo nel cercare di spiegare, con puri concetti, l’esistenza di livelli via via degradanti, senza mai far intervenire un’intenzione diretta ad essi, da parte di ciò che è più in alto. Tuttavia un’assurdità fondamentale rimane, assumendo questo punto di vista: perché dall’Uno non si dovrebbe poter uscire, neppure per scendere più in basso. Invano Plotino ci dice che l’Uno è così pieno che “trabocca”: poiché ciò implicherebbe un’incapacità dell’Uno a contenere sé stesso. Invano ci dice che “irradia” o “emana” l’intelligenza: perché, per emanare, dovrebbe avere un “fuori” che non ha. Tanto che Plotino, più sinceramente, è costretto a dire che l’Intelletto “ha l’ardimento” di staccarsi, non so come, dall’Uno” [VI, 6,5;34]» (Storia della filosofia, vol. I: Antichità e Medioevo, La Scuola Editrice, Brescia 1966, p. 195). Analoghe osservazioni critiche si leggono in un testo di Enrico Zoffoli, il quale evidenzia le risposte incomplete o contraddittorie che Plotino dà ai problemi da lui stesso posti circa il rapporto tra l’Uno e la realtà molteplice dell’esperienza: «Con l’ultima sintesi del pensiero greco la filosofia non ha potuto pronunziare la parola definitiva neppure come “arte di viver bene”: la sublime sapienza pratica di Plotino s’innalza nel vuoto di una metafisica errata. Al vertice del reale non emerge il vero Assoluto, Principio e Fine di ogni cosa e processo. L’Uno, se fosse realmente Assoluto, dovrebbe essere Onnipotente, mentre è impersonale, cioè privo di vita, di pensiero, di amore. La sua unità è solo l’indistinzione di qualcosa di essenzialmente vago, astratto, inesistente; non quindi attributo positivo dell’Essere o Atto puro, unica possibile Origine di tutti gli enti. È per questo che, se si prescinde dall’Essere: – la realtà non ha più senso, si dilegua, appunto secondo il nichilismo; – se tutto scaturisce dall’Incoscienza, l’ordine cosmico resta inesplicabile, donde l’inevitabilità dell’ipotesi del caso; – se tutto procede dalla necessità cieca, la comparsa della persona umana (quindi del pensiero, della libertà, dei valori morali) è priva di una sufficiente giustificazione. […] E così: supposta la visione plotiniana – monistica ed emanatistica – del reale, resta impossibile qualsiasi spiegazione razionale della materia e del male, emersi dal seno stesso dell’Uno. Il medesimo si può osservare a proposito dell’origine dell’uomo con la sua libertà e responsabilità, annullate nel contesto dell’universale determinismo di Plotino. E certamente non ha senso un’ascesi praticata come volontaria purificazione interiore, capace di disporre ad una beatitudine intesa come suprema ed eterna espansione della personalità umana nel consapevole e amoroso incontro con Dio: incontro impossibile, se Dio non è persona, né è desiderabile – per l’uomo – una felicità che gli costasse il peggiore dei naufragi nell’estinzione dell’autocoscienza. Dunque, metafisica negativa, che non salva neppure i valori più cari a Plotino: etica e religione, ascesi e misticismo, ecc., anche se di essi è un sincero e appassionato cantore. Forse, la sua sintesi è la dimostrazione dell’ultimo fallimento della ragione che, estranea alla Rivelazione giudaico-cristiana del Dio Vivente come l’Essere, si è pietosamente alienata da sé, restando ad annaspare tra i fantasmi di pure idee e di sogni assurdi» (Enrico Zoffoli, Princìpi di filosofia, Ed. “Fonti vive”, Roma 1988, pp. 157-158).

3. I discepoli di Plotino.

Amelio e Porfirio
Si conosce il nome di due scolari di Plotino, Amelio e Porfirio. Del primo non ci sono scritti, mentre il secondo (nato a Tiro nel 233 dopo Cr. e morto a Roma nel 305) scrisse la celebre Vita di Plotino, che abbiamo più volte citato, e una Eisagoghé (“Introduzione”) alle Categorie di Aristotele; è sua anche l’opera esplicitamente polemica contro la filosofia cristiana, con argomenti neoplatonici, intitolata Contro i cristiani, in quindici libri.
Nelle opere di Porfirio (il cui pensiero non si distacca da quello del maestro) viene sistematizzata la prassi ascetica del sapiente neoplatonico, caratterizzata – come abbiamo visto – da un esasperato spiritualismo: astinenza dalle carni nell’alimentazione, rinuncia al matrimonio, esclusione dei divertimenti pubblici e privati. Egli inoltre sviluppa una formale apologia della religione pagana, esaltandone la mitologia, i riti e quelle pratiche divinatorie che gli Ebrei e il cristianesimo tanto osteggiavano, vedendovi l’essenza della superstizione . Porfirio difende anche il politeismo , in nome della dottrina neoplatonica della molteplicità che emana per gradi dall’Uno nella natura; gli dèi rappresenterebbero quindi una prima manifestazione del divino, che consente all’uomo religioso (il filosofo) di intuire Dio nella sua trascendenza  e unità.


Giamblico
Scolaro di Porfirio fu Giamblico (nato a Calcide nel 250 dopo Cr. e morto in Siria, dove aveva fondato una scuola, nel 330). Egli è autore di una Raccolta delle dottrine dei Pitagorici e di un libro Sui misteri. Secondo Giamblico, le “ipostasi” di Plotino non rimangono indivise, ma si sdoppiano, e così avviene per le parti successivamente originantesi; ne deriva una complessità di enti intermedi: alcuni sono ricondotti alle idee-numeri della tradizione pitagorica e platonica, altre alle divinità del pantheon ellenistico (ed è questo un nuovo tentativo filosofico di giustificare il politeismo pagano contro il cristianesimo).
Alla scuola di Giamblico si ricollega l’imperatore Giuliano l’Apostata, che regnò dal 361 al 363 e tentò di restaurare il culto ufficiale pagano, già ridimensionato dall’imperatore Costantino dopo il 313.

4. La scuola di Atene e Proclo.
La più significativa ripresa della filosofia platonica si verificò due secoli dopo Plotino e proprio ad Atene, dove era nato e dove aveva insegnato Platone. La scuola neoplatonica di Atene ebbe come iniziatore Plutarco di Atene (morto nel 432 dopo Cr.). Il successore fu Siriano, autore di un commento alla Metafisica di Aristotele, al quale succedette Proclo, l’esponente più notevole della scuola.
Nato a Costantinopoli nel 410, Proclo morì ad Atene nel 485. Scrisse la Teologia di Platone, gli Elementi di teologia, vari commenti ai dialoghi di Platone (alla Repubblica, al Parmenide, al Timeo) e agli Elementi di Euclide. Il suo interesse precipuo è la dottrina filosofica su Dio, che egli chiama, come Aristotele, «teologia». Proclo riprese la filosofia di Plotino, precisando la legge generale della realtà come ritmo ternario (costituito di tre momenti, da intendersi però in senso ontologico, non cronologico): ogni principio anzitutto rimane in sé stesso come «monè  [ = permanenza]», indi procede da sé, nel senso che genera il suo effetto, detto «pròodos [ = processo]», infine ritorna a sé, nel senso che l’effetto da esso generato ritorna al suo principio: è la  «epistrophè [ = ritorno]». Inoltre Proclo afferma che tutto ciò che è, è un misto di Limite e Illimitato, riprendendo in tal modo la dottrina esposta da Platone nel Filebo. Come Porfirio, anch’egli ammette una molteplicità di dèi e di demòni.
Successori di Proclo nella direzione della scuola di Atene furono Marino, suo biografo, e Damascio, autore di un’opera Sui princìpi, in cui rinuncia ad ammettere la generazione di tutte le cose dall’Uno e sostiene l’unità del tutto in un unico Essere, privo di distinzioni. In tal modo il neoplatonismo approda coerentemente, al monismo , che per uno spirito religioso è panteismo. Durante lo scolarcato di Damascio, nell’anno 529 d. Cr., l’imperatore Giustiniano, il promotore del famoso Corpus iuris civilis (ultimo grande monumento trasmesso dalla romanità ai posteri), decretò la chiusura della scuola di Atene, evidentemente perché vi si insegnavano dottrine contrarie al cristianesimo.
Ebbe fine, così, ufficialmente la reazione della filosofia pagana al cristianesimo: i suoi ultimi esponenti, cioè Damascio stesso e il suo scolaro Simplicio, si rifugiarono in Persia. Essi tuttavia non cessarono di operare, specialmente Simplicio, che, tornato ad Atene nel 533, commentò numerose opere di Aristotele (Le Categorie, Fisica, Sul cielo, Sull’anima) ed ebbe una famosa disputa col cristiano Filopono (di cui era stato condiscepolo ad Alessandria, alla scuola di Ammonio, prima di andare ad Atene alla scuola di Damascio) a proposito dell’eternità del mondo: Filipono, infatti, la negava in base alla dottrina della creazione, mentre Simplicio la sostenne con argomenti tratti da Proclo, cioè in forza del carattere necessario dell’emanazione. È significativo che gli ultimi bagliori della filosofia greca si accendano sull’interpretazione di Aristotele (sua era infatti la dottrina dell’eternità del mondo), la cui eredità filosofica è contesa fra neoplatonici pagani e neoplatonici cristiani, come Agostino e Boezio.
Da questo momento in poi il neoplatonismo cessa come filosofia pagana (gli ultimi suoi esponenti pagani a Roma, cioè nella parte occidentale dell’Impero, di lingua latina, erano stati Marziano Capella, vissuto nella seconda metà del IV secolo, Macrobio, vissuto tra il IV e il V secolo, e Calcidio, vissuto nel V secolo) e passa invece a esercitare un’influenza determinante sui filosofi cristiani. A Proclo, in particolare, si ricollega lo Pseudo-Dionigi, un autore cristiano di incerta identità che tuttavia ebbe un’importanza enorme nella filosofia patristica e scolastica.

5. Importanza storica del neoplatonismo.
Mettendo da parte la polemica anticristiana tipica del neoplatonismo i filosofi cristiani  – a cominciare da sant’Agostino e dallo Pseudo-Dionigi – ricavarono da questa corrente filosofica molteplici ispirazioni teoretiche, respingendo allo stesso tempo le tesi contrarie alla rivelazione di Dio creatore e Padre. Inoltre, di deve riconoscere che l’importanza della filosofia di Plotino e degli altri neoplatonici nella storia del pensiero è notevolissima, malgrado la scarsa conoscenza che il mondo occidentale moderno ha di queste sue radici. Dal neoplatonismo derivano alcuni concetti fondamentali e alcune categorie metafisiche essenziali della filosofia cristiana medioevale e della filosofia moderna. È neoplatonica, anzitutto, l’idea che tutte le cose (compresi gli uomini) “provengano” da Dio e a Lui debbano “ritornare”; è parimenti neoplatonica la concezione dell’universo come un tutto ordinato gerarchicamente, con a capo l’assoluto; infine, è neoplatonica l’idea di Dio come ineffabile e inesprimibile, ossia la teologia  negativa, quale si ritrova anche ai nostri giorni nella concezione di Dio come “il totalmente Altro”. Questo per quanto riguarda le idee; per quanto riguarda invece i filosofi, dobbiamo accennare alla derivazione fortemente neoplatonica della filosofia di sant’Agostino e di Boezio; alla continua ripresa di temi neoplatonici da parte dello pseudo-Dionigi Aeropagita e dei filosofi scolastici, soprattutto Scoto Eriugena; alla rinascita del neoplatonismo nel Quattrocento  e soprattutto con Spinoza, per poi arrivare all’idealismo di Fichte, di Schelling e di Hegel, con le sue propaggini in Schopenhauer; alla riapparizione dello spirito neoplatonico persino in due grandi metafisici del nostro secolo, Henri Bergson e Giovanni Gentile.