Di Antonio Livi. Tratto da “Dal senso comune alla dialettica. Una storia della filosofia”, Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2004-2005. CAPITOLO QUINTO. PLOTINO E IL NEOPLATONISMO (I) PREMESSE 1. Neoaristotelici e neoplatonici. Alessandro di Afrodisia. Plutarco di Cheronea. I neopitagorici. 2. Plotino. Vita e opere. La metafisica dell’Uno. Dio e mondo.
PREMESSE
Parallelamente alla nascita della filosofia cristiana, soprattuto con san Giustino Martire e Clemente Alessandrino, si sviluppa nell’ambiente ellenistico, nei secoli II e III dell’èra cristiana, una tendenza culturale che mira a rivalutare il pensiero pre-cristiano, cioè la filosofia greca non ancora influenzata dalle categorie metafisiche della rivelazione biblica (Dio come l’essere trascendente, la creazione, il tempo come valore soteriologico, la persona come immagine di Dio, la libertà delle coscienze). Tale rivalutazione, da parte di pensatori che conoscono direttamente o indirettamente il cristianesimo, ha chiaramente una valenza polemica e si inserisce nell’àmbito delle reazioni negative di fronte alle idee cristiane; anche se non si tratta delle persecuzioni culturali e legali che abbiamo avuto occasione di ricordare nel precedente capitolo (e che hanno motivato, tra l’altro, le opere letterarie degli “apologisti”), si tratta pur sempre di una proposta alternativa, nel senso che ciò che si afferma vuole indurre ad abbandonare o a non abbracciare determinate altre posizioni che (a torto o a ragione) sono considerate proprie del cristianesimo.
In realtà, in questa reazione intellettuale al cristianesimo viene preso di mira non tanto il messaggio evangelico e la cultura filosofica dei Padri, quanto piuttosto l’ideologia gnostica; d’altra parte, il cristianesimo ortodosso e le eresie che ne derivano sono anche fonte di ispirazione (involontaria, certamente, ma inevitabile) per alcuni temi caratteristici della filosofia “pagana” di questi due secoli: e ciò spiega il fatto che la filosofia cristiana abbia reagito al pensiero ad essa contrario respingendone gli aspetti chiaramente incompatibili con la fede rivelata ma accogliendone anche altri che potevano essere assimilati o che addirittura nascevano dalla medesima matrice dottrinale.
1. Neoaristotelici e neoplatonici.
La pubblicazione delle opere di Aristotele e la loro classificazione a cura di Andronico di Rodi alla fine del I sec. av. Cr. diede l’avvio a una rinascita della scuola peripatetica e agli studi aristotelici, che però non poterono evitare un certo sincretismo con i temi caratteristici dello stoicismo e, più tardi, con quelli della filosofia cristiana.
Alessandro di Afrodisia
Ad Atene insegnò tra il 198 e il 211 dopo Cr. Alessandro di Afrodisia, certamente il più grande commentatore di Aristotele in tutta la storia della filosofia. Di lui si sono conservati i commenti agli Analitici primi (limitatamente al libro I) ai Topici, alla Metafisica (i primi cinque libri) e ad alcune opere di filosofia della natura, ma pare che avesse scritto anche dei commentari ai libri della Fisica, a quelli Sull’anima e ad altri libri dell’Organon. Di suo scrisse un trattato Sull’anima e un altro Sul fato.
Nell’interpretare Aristotele con categorie desunte dalla filosofia stoica, Alessandro concepisce la natura come forza spirituale immanente in tutte le cose del mondo (come la cosiddetta “anima del mondo” che ritroveremo in Plotino) e procedente da Dio stesso, che mediante essa governa l’universo e si manifesta come Provvidenza .
Anche l’intelletto agente di Aristotele è interpretato in modo originale da questo suo commentatore, il quale ritiene che l’intelletto agente sia unico per tutti gli uomini e che addirittura si identifichi con l’intelletto divino; talché l’anima dell’uomo è attiva e capace di raggiungere la verità solo finché è illuminata da Dio; poi essa muore con la morte corporale dell’uomo; egli nega dunque l’immortalità umana, come aveva fatto quasi certamente Aristotele stesso, mentre ribadisce l’eternità di Dio . Tale dottrina verrà ripresa dopo molti secoli dalla filosofia cristiana, in una scuola minore che si rifarà ad Aristotele.
Plutarco di Cheronea
Anche il platonismo ebbe una forte ripresa nei primi secoli dell’èra cristiana. Uno dei più importanti rappresentanti di questa corrente è Plutarco di Cheronea, vissuto tra il 46 e il 126 dopo Cr. e autore delle famosissime Vite parallele di illustri uomini greci e romani; egli scrisse anche alcune opere filosofiche che poi vennero raccolte con il titolo di Opere morali.
Per Plutarco, come per altri neoplatonici dell’epoca, Platone è letto soprattutto alla luce della tradizione pitagorica, dalla quale Platone stesso derivava e alla quale si ricollegano soprattutto le “dottrine non scritte”, con l’insistenza sui numeri (l’Uno e la Diade indefinita). Plutarco polemizza con la religione popolare politeistica e anche con l’ateismo pratico degli epicurei; egli difende l’idea di Dio come l’Uno e come il Bene; a Dio egli però contrappone un principio negativo, che sarebbe quella “anima del mondo” di cui parla Platone nel Timeo e che talvolta si identifica con il “demiurgo”, cioè con l’artefice della condizione attuale del mondo; questi motivi dottrinali fanno pensare a un collegamento almeno indiretto di Plutarco con il dualismo dei manichei e con lo gnosticismo.
I neopitagorici
Nel II sec. dopo Cr. fiorisce la scuola neopitagorica, soprattutto a opera di Nicomaco di Gerasa, autore della Introduzione alla metafisica, e di Numenio di Apamea; quest’ultimo riprende la tesi di Filone d’Alessandria secondo la quale i filosofi greci (e in particolare Platone, che tra quelli è il più autorevole) hanno ricevuto la sublime dottrina di Dio dal contatto con i libri biblici dell’Antico Testamento, riuscendo a esprimere l’essenza di Dio con la categoria dell’essere ; al di sotto di Dio, che è l’Essere, ci sarebbero però anche altri princìpi: il Demiurgo (come viene descritto da Platone nel Timeo) e l’anima del mondo. Anche per Numenio, quindi, l’influsso della filosofia ebraica e cristiana (quest’ultima attraverso l’eresia gnostica) è evidente. In questo clima appare un’opera singolare, detta Corpus hermeticum e che consta di vari libri attribuiti al dio egiziano Toth, che i Greci identificavano con Ermete, detto “Trismegisto” (= tre volte grande). In questi libri si parla di unione mistica con Dio, alla quale si perviene attraverso la gnosis o conoscenza perfetta delle cose divine, garantita dalla setta . Il messaggio di quest’opera è volutamente misterico e allusivo, tanto che da lì deriva l’aggettivo moderno “ermetico” per designare messaggi incomprensibili o indecifrabili. Nel Rinascimento alcuni filosofi si rifaranno proprio a questa scuola.
2. Plotino.
Le linee principali del pensiero di Filone Alessandrino (la trascendenza di Dio e il primato dei valori religiosi) contribuiscono a un rinascimento platonico negli ambienti culturali di Alessandria d’Egitto; da questo centro della cultura ellenistica, il platonismo nuovo si propaga ad Atene e a Roma. Nel III secolo dopo Cristo fiorisce ad Alessandria la scuola filosofica di Ammonio Sacca (del quale ci restano scarsissime notizie) e uno dei suoi discepoli fu Plotino, il quale ebbe modo di manifestare a più riprese la sua ammirazione e la sua riconoscenza verso il maestro (ne abbiamo testimonianza soprattutto nella Vita di Plotino, scritta dal discepolo Porfirio; successivamente, nel V secolo dopo Cristo, ne parlano Erocle di Alessandria e Nemesio di Emesa).
Vita e opere
Plotino nacque verso l’anno 200 d.Cr. in Egitto, a Licopoli, e nel 232 si recò ad Alessandria d’Egitto dove si dedicò interamente alla filosofia. Pare che abbia partecipato alla spedizione militare dell’imperatore Gordiano contro i Persiani e che in quell’occasione abbia studiato da vicino la cultura orientale. Successivamente si trasferì a Roma, dove nel 244 aprì una scuola che ebbe grande prestigio (anche presso il nuovo imperatore Gallieno e la moglie Solomina) e notevole irradiazione culturale. Come racconta il suo biografo Porfirio, prima dell’anno 254 Plotino non aveva scritto ancora alcunché; da allora in poi si mise a scrivere di getto, senza poter rivedere il manoscritto a causa dei difetti della vista di cui soffriva. Le sue opere furono sistemate in seguito dallo stesso Porfirio, il quale le strutturò in cinquantaquattro trattati, composti di sei gruppi di nove libri, da cui il nome di Enneadi (“Novene”). Plotino morì nel 270 dopo una lunga malattia.
Nel pensiero di Plotino sono evidenti gli influssi di molti filosofi nell’antichità greca, da Parmenide a Platone, oltre alla forte influenza che ebbe su di lui Filone d’Alessandria. Esplicitamente egli si rifà a Platone (cfr Enneadi, V, 1, 8), ma con una originalità innegabile, sia nel pensiero che nella proiezione vitale di esso attraverso la scuola; infatti, mentre l’Accademia platonica mirava alla formazione di uomini politici capaci del governo della cosa pubblica, la scuola plotiniana mirava esclusivamente ad avviare i discepoli alla contemplazione di Dio e all’unione mistica: «Per lui [Plotino], il fine e lo scopo esclusivo era avvicinarsi a Dio, che è al di sopra di tutto, e unirsi a Lui», scrive Porfirio (Vita di Plotino, 23). Malgrado questa impostazione decisamente religiosa, il pensiero di Plotino non è un vago misticismo come avviene sovente nelle religioni orientali classiche: la religiosità plotiniana è tutta sostanziata di filosofia e deriva da una interpretazione razionale della realtà cosmica e umana.
Punti essenziali della filosofia di Plotino sono la separazione assoluta tra ciò che è sensibile e ciò che è intelligibile, e inoltre l’assoluta trascendenza del Principio primo.
La metafisica dell’Uno
Accantonando il mondo sensibile, Plotino distingue nel mondo intelligibile tre elementi, che chiama «hipostáseis»: l’Uno, lo Spirito (o Intelletto) e l’Anima; ognuno di questi elementi procede dall’anteriore, e in definitiva tutto procede dall’Uno, e tutto deve tornare all’Uno. Per l’uomo ciò comporta l’impegno contemplativo di ricongiungersi all’Uno distaccandosi dalla molteplicità degli interessi mondani e dalla sfera del sensibile.
Secondo Plotino, l’Uno è al di sopra di tutti gli enti e di tutte le forme o determinazioni. A sua volta, ogni ente è tale in virtù della sua unità, che è partecipazione all’essenza dell’Uno. Qualunque cosa ha tanto più essere quanta più unità ha; in tal senso, Plotino arriva ad affermare che l’Uno trascende addirittura l’essere. Così, il primato che Parmenide aveva attribuito all’essere si trasforma in Plotino – grazie alla mediazione di Platone e della sua idea dell’Uno – nel primato dell’unità. Solo alcuni secoli dopo, con Avicenna, Averroè e san Tommaso d’Aquino, l’essere ritornerà ad avere il primato metafisico e l’Uno tornerà ad essere, come il Bene, una delle proprietà trascendentali dell’essere.
Ecco come si esprime lo stesso Plotino a proposito dell’unità: «Tutti gli enti (non solo quelli che così si chiamano in senso primario, ma anche quelli che sono loro attribuiti) sono tali in virtù dell’Uno.. Che cosa infatti potrebbe esistere che non fosse un’unità?…Solo degli enti dei quali diciamo che sono un’unità possiamo parlare come di una realtà concreta» (Enneadi, VI, 9,1). Le caratteristiche che Plotino attribuisce all’Uno sono la sua assoluta semplicità (che impedisce di confonderlo con lo Spirito o con l’Anima) e la sua necessità . L’Uno è un principio senza principio, ed è infinito nel senso della perfezione piena di potenza o di energia: «Esso non è finito: che cosa infatti potrebbe limitarlo? Nemmeno però è infinito nel senso della grandezza: verso dove, infatti, dovrebbe progredire? E che cosa dovrebbe risultare da questo progresso, se non ha bisogno di alcunché? Tuttavia, la sua potenza possiede l’infinitudine, perché non può aver bisogno di alcunché e tutte le cose che esistono debbono a Lui la loro esistenza» (Enneadi, V, 5,10).
Riprendendo chiaramente uno dei temi caratteristici delle “dottrine non scritte” di Platone, Plotino identifica spesso l’Uno con il Bene , ma precisando sempre che in realtà l’Uno trascende anche la nozione di bene: «È evidente che ciò che ha dato origine a tutte le cose non può essere una di queste cose. Non dobbiamo dunque dire che l’Uno è il Bene, perché il bene deriva proprio da lui; diciamo piuttosto che Egli è il Bene al di sopra di tutti i beni» (Enneadi, VI, 9,6).
Proprio per questa sua assoluta trascendenza, l’Uno non è concettualizzabile in alcun modo. Non lo si può intendere in termini di “essere”, come abbiamo detto, perché trascende anche l’essere stesso, come trascende il Bene: nessuna parola è dunque capace di esprimere la sua essenza, egli è l’Ineffabile, e il nostro linguaggio è sempre troppo povero riguardo a Lui: «Quando parliamo di Lui – scrive Plotino –, non riusciamo che a balbettare qualche frase sconnessa. […] Dobbiamo, certamente parlare di Lui, ma non possiamo esprimere quello che Egli è. In realtà, noi diciamo quello che non è, perché quello che è non siamo capaci di dirlo» (Enneadi, V, 3, 14). Questa ineffabilità di Dio giustifica gli apparenti paradossi e le reali contraddizioni linguistiche in cui incorre Plotino nel parlare dell’Uno; egli dice infatti che l’Uno non è in sé ma non è nemmeno fuori di sé; non è identico a sé, ma nemmeno diverso da sé; non è immobile ma nemmeno si muove; conosce tutto ma non ha intelligenza (intendendo l’intelligenza come la ragione umana discorsiva, che presupponga il tempo e l’imperfezione)… Insomma, il linguaggio umano, conscio della propria inadeguatezza quando si tratta di parlare di Dio, ricorre apposta alla negazione di tutto ciò che è finito e molteplice e imperfetto, come anche alla volontaria giustapposizione di proposizioni contraddittorie tra loro, per suggerire una verità che sta al di sopra di tali contrapposizioni. La filosofia cristiana medioevale accetterà in gran parte questa impostazione dialettica, ma sempre nel quadro di una più ricca nozione di “essere” che permette di parlare di Dio non solo per viam negationis ma anche per viam eminentiae, cioè attribuendo a Dio i trascendentali dell’essere, che di per sé non implicano imperfezione e che in Dio si ritrovano in sommo grado e identici alla sua essenza (bontà, sapienza, potere, bellezza).
Dio e mondo
Per Plotino l’Uno ha un’attività incessante di produzione dell’essere. Egli è causa nel senso metafisico del termine: non solo perché da Lui procedono tutti gli enti, ma anche perché Egli causa il suo proprio essere. Plotino, dunque, riprende la nozione aristotelica di Dio come “motore immobile” e “causa prima” incausata, ma vi aggiunge una nozione nuova e originale, che poi verrà ripresa dalla filosofia moderna: la nozione di Dio come “causa di sé stesso” (“causa sui”, come dirà nel Seicento René Descartes parlando di Dio). Scrive infatti Plotino: «Se riconosciamo che il Principio agisce e che i suoi atti sono opera della sua volontà (perché certamente non agirebbe senza volerlo), allora dobbiamo ammettere che i suoi atti costituiscono la sua essenza e che la sua volontà si identifica con la sua essenza. Egli sarà sempre come vuole essere; di Lui non si può dire che ha una volontà e un’azione che si conformano alla sua natura, perché invece bisogna dire che ha la natura che vuole avere e che ha con le sue azioni. Egli, insomma, è totalmente padrone di sé, perché il suo essere dipende da Lui» (Enneadi, VI, 8,13).
A proposito di questa causalità propria dell’Uno si deve osservare che Plotino accentua fino all’estremo limite la trascendenza di Dio, sulla quale avevano già insistito i filosofi greci neopitagorici e l’ebreo Filone di Alessandria. Ma, mentre Filone ancora identifica Dio con l’essere, Plotino afferma che Dio è «al di là dell’essere» (Enneadi, V, 5,6), «al di là della sostanza» (Enneadi, VI, 8,19), «al di là della mente» (Enneadi, III, 8,9), in modo che è trascendente rispetto a tutte le cose, pur producendole e tenendole in essere lui stesso. Così la causa dell’essere viene in qualche modo staccata dall’essere, come ciò che è inafferrabile e inesprimibile da parte dell’uomo. Con queste considerazioni, Plotino inizia quello che si chiamò in seguito la «teologia negativa», cioè il discorso razinale su Dio che si basa sul riconoscimento dell’impossibilità di attribuire a Lui le determinazioni proprie degli enti finiti. In questo senso, come si è già potuto vedere, la filosofia di Plotino è molto vicina alla filosofia cristiana dei suoi contemporanei e a quella dei secoli successivi, sempre preoccupati di garantire razionalmente la trascendenza di Dio e la sua ineffabilità. Dove però la filosofia cristiana si differenzia radicalmente da quella neoplatonica è nella concezione dei rapporti tra mondo e Dio: mentre infatti la filosofia cristiana fa perno sulla libertà di Dio creatore (che dà l’essere alle creature per un gratuito atto d’amore), Plotino concepisce l’origine del mondo da Dio come un processo involontario e necessario, coeterno a Dio stesso. Infatti, nella concezione di Plotino Dio agisce volontariamente solo per causare sé stesso; ora, per un Dio concepito in questo modo la creazione non può essere un atto di volontà, che implicherebbe un mutamento nell’essenza divina: la creazione viene interpretata come se Dio rimanesse immobile al centro di essa, senza volerla e senza nemmeno consentirvi. Il mondo allora deriva da Dio per “emanazione necessaria”, analogamente a come la luce emana da un corpo luminoso o il calore da un corpo ad alta temperatura o il profumo da un fiore.
Tutto comunque procede dall’Uno. Questa “processione” è detta da Plotino “discendente” perché è una degradazione: dall’Uno, che è la perfezione, discendono gli enti molteplici, che sono un grado inferiore e imperfetto dell’essere. Ricordiamo allora quanto abbiamo già detto: dall’Uno deriva innanzitutto il «nous [= spirito o mente]» e da quest’ultimo la « psyché [= anima]»; dall’Anima infine procedono le cose materiali (cfr Enneadi, VI, 3,17). In questa concezione plotiniana della derivazione di tutto dall’Uno c’è traccia, oltre che della “partecipazione” platonica, anche della nozione aristotelica di Dio come «pensiero di pensiero». Infatti, lo Spirito deriva dall’Uno, in quanto questi pensa sé stesso e produce la sua immagine perfetta; anche l’Anima deriva a sua volta dallo Spirito quando questi pensa sé stesso e produce la sua immagine. La logica di queste derivazioni sta nel fatto che, come spiega Plotino, «pensare vuol dire muoversi verso il Bene e desiderarlo. Il desiderio genera il pensiero e lo fa esistere insieme; il desiderio di vedere genera la visione. Dunque il Bene stesso non deve pensare nulla, poiché non c’è altra cosa che sia il suo bene. Ed anche il pensiero di sé stesso non esiste che in un essere diverso da Bene: e questo essere pensa perché è simile al Bene ed ha una immagine del Bene, perché il Bene è diventato l’oggetto del suo desiderio e perché si rappresenta il Bene. E se avviene sempre così, sempre esso pensa. Pensando il Bene esso pensa sé stesso per accidente; guardando al Bene esso pensa sé stesso: nel suo atto esso si pensa poiché ogni atto è diretto verso il Bene» (Enneadi, V,6,5).