LA RISCOPERTA DI ARISTOTELE NEL XIII SECOLO E TOMMASO D’AQUINO (II)
Di Antonio Livi Tratto da “Dal senso comune alla dialettica. Una storia della filosofia”, Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2004-2005. CAPITOLO
NONO. LA RISCOPERTA DI ARISTOTELE NEL XIII SECOLO E TOMMASO D’AQUINO.
2. La filosofia francescana: Bonaventura da Bagnoregio. 3. La visione francescana della scienza: Ruggero Bacone. 4. La visione domenicana della
scienza: Alberto di Colonia
2. La filosofia francescana: Bonaventura da Bagnoregio
Il più grande teologo del Duecento, assieme a Tommaso d’Aquino, fu Giovanni Fidanza, il quale nacque a Civita di Bagnoregio presso Viterbo il 1218, o, come altri vogliono, il 1217. Narra egli stesso come da bambino, caduto vittima di un morbo mortale, sia stato guarito istantaneamente da Francesco d’Assisi, il quale con un segno di croce gli avrebbe augurato ogni bene con le parole latine: «Bona ventura», sicché il ragazzo da allora fu chiamato Bonaventura. Entrato nell’ordine del Poverello d’Assisi compì gli studi a Parigi, ove in seguito svolse il magistero di Teologia, ostacolato dai maestri secolari, che non ammettevano il pubblico insegnamento da parte dei frati, ritenendo incompatibile con i fini ascetici professati da francescani e domenicani. Dopo lunghe lotte la controversia fu risolta in favore dei religiosi, per l’energica difesa, oltre che di Bonaventura da Bagnoregio, anche di un altro giovane frate italiano dell’ordine dei Domenicani, Tommaso d’Aquino. Bonaventura, fedelissimo allo spirito del fondatore san Francesco, visse però una vita intellettuale ed ebbe cariche ecclesiastiche che il Poverello non aveva mai voluto per sé. Fu eletto generale del suo ordine e poi scelto da papa Gregorio X come cardinale e vescovo di Ostia e Anzio (1273); partecipò ai lavori del Concilio di Lione e lì morì nel 1274, lo stesso anno in cui morì l’amico Tommaso d’Aquino, ma qualche mese dopo di lui (che, proprio per l’improvvisa e misteriosa morte, non era potuto giungere a Lione). Tra le sue opere ricordiamo: i Commentarii in quattuor libros Sententiarum Petri Lombardi, ove sviluppa il pensiero del suo maestro Alessandro di Hales; il Breviloquium (“Discorso breve”), che è una piccola somma teologica; il trattato De reductione artium ad theologiam (“Riconduzione di tutte le discipline scientifiche alla teologia”), sulla teologia come causa e fine ultimo dell’unità delle scienze; l’ltinerarium mentis in Deum (“Itinerario dell’anima fino a Dio”) e altre opere che sviluppano il contenuto di quelle citate. L’orientamento di Bonaventura, basato su una visione metafisico-teologica della realtà, è nel Duecento l’espressione migliore dell’agostinismo anti-aristotelico; infatti, la sua ultima opera, le Collationes in Hexaemeron (“Conferenze sui giorni della creazione”), pubblicata nel 1273, contine un’appasionata critica delle tesi di Aristotele sul mondo e sull’uomo.
Il pensatore del Medioevo, in quanto medioevale cristiano, è stato sempre convinto di pensare con Agostino; e con Agostino egli incentra la propria problematica sul binomio «Deus et anima». Ma, come abbiamo visto, dagli inizi del Duecento è entrato nell’Occidente cristiano Aristotele con la sua metafisica precristiana, rigorosamente razionale, anzi addirittura razionalistica nella versione pervenuta in Occidente tramite Averroè; il pensatore medioevale sa di dover fare i conti con Aristotele, che sarebbe appunto “il Filosofo”, di fronte al “Teologo” (Agostino). Aristotele è il filosofo di un filosofare precristiano ed extracristiano, adoperabile anche come anticristiano; il pensatore medioevale può essere perplesso di fronte all’aristotelismo, ma non può non riconoscerne il valore, così come riconosce valore a un platonismo vagamente conosciuto attraverso testi neoplatonici e agostiniani. Tommaso crederà di potere e di dover assumere elementi e strutture dal filosofare di Aristotele; invece Bonaventura crede di potere e di dovere rimanere nell’universo di discorso di Agostino, pur valorizzando nella propria teoresi elementi metafisici e logici del filosofare aristotelico: «Bonaventura è un pensatore francescano, e lo è non solo e non tanto per la sua appartenenza all’ordine di frate Francesco, di cui egli è stato generale per diciassette anni, ma per la peculiarità del suo spirito e del suo modo di pensare. Bonaventura non disdegna l’astratto, ma all’astratto preferisce il concreto; non ignora e non mortifica il concetto, la precisazione razionale, ma dà la maggiore importanza all’afflato volontaristico, allo slancio affettivo, alla portata pratico-vitale di ogni posizione ideale; non condanna e non svaluta la ricerca e lo studio del reale, ma predilige il divenire nella storia e della storia; di qui la sua poca tenerezza per una pura elaborazione concettuale, in forma di scolasticismo asettico e agnostico; in lui Parigi non uccide certo Assisi, sibbene, se da una parte Assisi è integrata da Parigi per essere più autenticamente e fecondamente sé stessa, Parigi viene redenta dalla mera accademicità e dalla astratta razionalità sistemante»[4]. Tra il Duecento e il Trecento, la scuola francescana proseguirà con Giovanni Duns Scoto su questa linea volontaristica e di predilezione per il concreto.Bonaventura delinea una metafisica nella quale domina la distinzione tra l’uno, cioè Dio, e il molteplice, inteso come complesso di creature individue e distinte ma contingenti e limitate, nelle quali si manifesta la vita, la sapienza, la bontà e l’amore di Dio, come luce che Dio stesso vi imprime creandole (le rationes seminales di Agostino, che a sua volta aveva derivato questa nozione dagli Stoici, attraverso i neoplatonici). L’attività di questa luce costituisce la forma, o meglio l’individuazione degli enti, ciascuno dei quali tende ad attuare la massima perfezione di cui la sua essenza è capace, secondo la triplice attività divina nel creato: l’actus essendi, l’actus appetendi, l’actus efficiendi.
Da buon francescano, Bonaventura ha un particolare amore per la natura, anche nella dimensione più materiale, poiché tutto l’universo è manifestazione evidente dell’esistenza di Dio; ma, oltre a questa evidenza di carattere estrinseco, Bonaventura da Bagnoregio, analogamente ad Agostino e ad Anselmo, insegna che Dio è presente in ciascun essere, specialmente nell’anima umana, secondo quella luce di cui si è parlato: «Grazie a questo lume, Dio è vivamente presente all’anima, e pertanto l’anima lo conosce attraverso di esso: l’anima quindi ha in sé stessa la conoscenza del suo Dio». Bonaventura da Bagnoregio concorda dunque con Anselmo nel rilevare la certezza che di Dio si ha mediante il senso comune (con un’inferenza spontanea e necessaria), specialmente quando insegna: «Come i princìpi si conoscono in quanto i termini sono noti, essendo la ragione del predicato inclusa nel soggetto, essi [i princìpi] devono essere evidenti per sé stessi. E così è a proposito [della esistenza di Dio], in quanto Dio, somma verità, è l’essere stesso, di cui non si può pensare nulla di meglio [quo nihil melius cogitari potest]». Poi Bonaventura precisa quale carattere hanno le prove dell’esistenza di Dio: essendo la certezza di Dio intuitiva e universale, patrimonio di ogni mente, provarne l’esistenza con argomenti metafisici è utile ma non indispensabile, ed è comunque solo una esplicitazione, una precisazione concettuale e dialettica; questa e le altre certezze del senso comune possono essere arricchite — ma non fondate — dal rigore delle dimostrazioni filosofiche: «Questi argomenti — egli scrive — sono piuttosto esercitazioni dell’intelletto che non ragioni che diano evidenza e manifestino la verità dimostrandola»[5]. Così si capisce la sua piena concordanza con Anselmo; ambedue ritengono comune a tutti la nozione di Dio, e polemizzano con coloro che negano la sua esistenza dimostrando loro che tale negazione è logicamente impossibile, una volta ammessa la nozione di Dio: «Come dice lo stesso Aristotele — argomenta il teologo francescano —, nessuna proposizione è più vera di quella che ha come predicato lo stesso soggetto; ora, quando si dice “Dio è”, l’essere che si predica di Dio è in realtà identico a Dio stesso, poiché Dio è il suo stesso essere. Di conseguenza, nessuna proposizione è più vera ed evidente di quella in cui si afferma che Dio è, e nessuno può realmente pensare che tale proposizione sia falsa, anzi nemmeno può dubitare che sia vera»[6]. Possono negare tale asserzione — spiega Bonaventura da Bagnoregio — solo coloro che, nel discorso (non certo nell’intimo della loro mente), partono da una nozione falsa di Dio: ad esempio, definendolo come un ente tra gli altri, sia pure superiore a tutti, e non come veramente è, ossia l’Essere sussistente.L’uomo per Bonaventura è composto di due sostanze incomplete: l’anima e il corpo, l’una spirituale, l’altra materiale; l’anima, oltre a essere la forma del corpo, è dotata di intelletto e volontà e quindi capace, per sua natura, di sapienza e d’amore: «L’intelletto è per sua natura destinato a comprendere tutto», come la volontà è destinata a protendersi verso ogni oggetto di desiderio; e così l’anima vive e attua la sua sostanziale autonomia, quale immagine di Dio (Agostino), quindi della stessa sostanza divina, la cui consapevolezza chiara e fruizione piena le vengono comunicate dalla grazia, con la quale viene deificata. Sicché l’anima umana è immortale non solo per la sua incorruttibilità di natura, ma anche per grazia, cioè per la redenzione con cui Dio le dona il «lumen fidei», che è il preludio, nella vita terrena, del «lumen gloriae» di cui si godrà nella vita eterna, cioè la “visione beatifica” di Dio.Bonaventura, a differenza di Tommaso, sviluppa il tema della conoscenza in modo da collegare la gnoseologia empirica di Aristotele all’idea agostiniana dell’lluminazione; la verità di cui l’uomo va continuamente in cerca, è presente nell’anima come una luce inestinguibile; essa è la luce della verità di Dio. Perché questa verità diventi indubitabile possesso dell’intelletto è necessario, per Bonaventura da Bagnoregio, tener presente un triplice criterio: 1) è verità indubitabile quella che è impressa in tutte le menti; 2) è verità indubitabile quella che deve essere ammessa da ogni persona; 3) è indubitabile ogni verità certissima ed evidentissima in sé stessa. Tale indubitabilità si deve appunto alla verità divina presente a ogni retto giudizio umano; conoscere significa appunto divenire certi della presenza della luce divina nella propria anima e nell’oggetto della conoscenza. Questa conoscenza però riguarda solo il campo dello spirito, cioè l’anima e Dio; e così per la conoscenza degli oggetti materiali Bonaventura da Bagnoregio ammette il processo conoscitivo aristotelico. La facoltà intellettiva è una (non si tratta di due intelletti, uno “ricettivo” e uno “attivo”), ed è passiva quando riceve le immagini degli oggetti sensibili, mentre è attiva quando vi reagisce, spogliando dette immagini dalla materialità, e possedendole come nozioni adeguate alla sua capacità comprensiva.
Bonaventura, insomma, non potendosi sottrarre nemmeno lui al prestigio dell’Aristotele “riscoperto”, cerca di conciliare l’illuminazione agostiniana con una psicologia di stampo aristotelico, considerando questa come premessa e quella come sviluppo e sublimazione della conoscenza. Per Bonaventura da Bagnoregio dunque l’intelletto non può conoscere il mondo della materia se non per mezzo dei sensi, essendo stato creato privo delle idee del mondo sensibile: «Intellectus humanus quando creatur est sicut tabula rasa [ = Nel momento in cui è creato l’intelletto umano come una tavoletta su cui nulla è scritto]». Il dato dei sensi, però, non resta nel soggetto così come vi giunge; esso viene elaborato dalla potenza intellettiva che ne astrae l’universale, trasforma l’apparenza mutevole nell’immutabilità del vero, purifica la realtà imperfetta coll’intuizione dell’essere scevro da ogni imperfezione e applica al reale instabile e cangiante la stabilità metafisica di una legge inderogabile. Tutto questo ulteriore lavoro non deriva dai sensi, ma da un potere dell’anima, consustanziale all’anima (ratio creata) o partecipatole da Dio nell’atto del conoscere (ratio motiva). Il dato dei sensi è lo stimolo primo, ma la mente prende poi sùbito sopravvento e, librandosi sovrana sulla base strumentale della sensibilità, risplende per virtù del raggio proiettato in lei dalla luce divina.
Ciò si deve alla diversità di natura che intercorre tra l’intelletto e il mondo materiale; l’intelletto dai sensi riceve le impressioni, e da queste astrae le nozioni razionali per mezzo della sua funzione attiva. Ma la scienza delle cose sensibili non è la sapienza; per Bonaventura da Bagnoregio la vera sapienza ha inizio con l’autoconoscenza, cioè con la comprensione della propria anima (quale sostanza e natura spirituale) e di Dio come causa eterna e infinita di essa; ciò si raggiunge con la luce divina, di cui l’anima è sostanziata
Per Bonaventura da Bagnoregio l’idea di Dio — come Essere necessario — è presente al pensiero umano in ogni giudizio sulla realtà conosciuta; modernamente questa concezione della conoscenza umana è stata riproposta da Antonio Rosmini (seconda metà dell’Ottocento) e prende il nome di “ontologismo”, ma non è assolutamente il caso di considerare Bonaventura da Bagnoregio un sostenitore della tesi (che nella sua radicalità sarebbe eterodossa) della conoscenza immediata di Dio come tale. Molti anni or sono, Luigi Stefanini chiariva così questo punto: «Dio è, dunque, il primum cognitum: tale è il pensiero di Bonaventura da Bagnoregio. Da ciò non bisogna dedurre ch’egli sia stato un precursore dell’ontologismo, nella sua forma esagerata. Per il nostro autore, infatti, l’idea di Dio è implicita in ogni nostro atto mentale, per quanto elementare, ma non sempre è esplicita, per cui non sempre si ravvisa l’idea di Dio ch’è alla base di ogni nostro atto conoscitivo. E per giungere a tale idea bisogna sempre partite dalla conoscenza sensibile, per astrarne poi il principio universale ch’essa contiene. Quello di Bonaventura è, per così dire, un ontologismo finale, non iniziale, quindi non è affatto visione immediata della Divinità. Lo dice chiaramente nell’Itinerarium: “Prius est ascendere quam descendere in scala Iacob, primum gradum ascensionis collocemus in imo[ = Nella scala di Giacobbe prima bisogna salire e poi si può scendere; collochiamo dunque in basso il primo gradino della salita]”. E altrove dichiara la sua adesione alla tesi tipicamente aristotelica secondo la quale “cognitionem generari in nobis via sensuum, memoriae et experientiae, ex quibus colligitur universale in nobis [ = la conoscenza si genera in noi attraverso la sensibilità, la memoria e l’esperienza, e da questri dati noi astraiamo l’universale]”»[7].
Dunque l’uomo, per Bonaventura da Bagnoregio, raggiunge e possiede con l’attività teoretica la verità dello spirito (anima e Dio) o conoscenza «sapienziale».Connessa e parallela a questa si ha l’attività pratica, nella quale consiste l’agire umano; l’uomo infatti tende, con la sua libera volontà, al possesso e al godimento del bene conosciuto teoricamente. Perciò la vita morale si risolve in un viaggio dell’anima — «itinerarium mentis in Deum» — cioè in una graduale ascesa, culminante nella fruizione di Dio, massimo e sommo Bene. L’anima attua questo itinerario attraverso sei gradi, che Bonaventura fa corrispondere a sei facoltà dell’anima, da quella infima a quella più alta, cioè da quella più lontana a Dio a quella che la congiunge a Lui: 1) per mezzo dei sensi esterni l’anima apprende la bellezza del creato e tende al creatore; 2) con i sensi interni l’anima apprende il valore del suo intelletto giudicante e si eleva verso la sua causa; 3) con la ragione l’anima si intuisce sostanziata di memoria, intelletto e volontà e quindi immagine della Trinità divina (come aveva insegnato già Agostino); 4) con la potenza intellettiva l’anima riceve la luce divina della grazia, trascende il mondo della contingenza e vive la pienezza della fede, della speranza e dell’amore di Dio; 5) con l’intelligenza l’anima contempla l’Essere infinito di Dio; 6) la “sinderesi”, ossia l’ intuizione dei primi princìpi della legge morale, è l’apice della mente, con cui l’anima trascende sé stessa e s’immerge nella contemplazione di Dio, pur conservando la sua individualità.La trattazione dell’esperienza morale in Bonaventura da Bagnoregio non è diversa da quella di Tommaso: in entrambi lo studio della coscienza confluisce nella illustrazione delle più ardue verità della metafisica e della teologia. Nell’azione libera l’uomo ha coscienza di un’obbligazione, sente cioè di essere subordinato a una legge, che può ma non deve trasgredire. Questa legge che è in noi (ma anche sopra di noi, perché ci costringe a lottare contro di noi stessi) non si potrebbe spiegare se non si riconoscesse un supremo Legislatore dal quale essa fu impressa nell’anima nostra. La volontà che delibera, decide e ama ci porta al sommo Bene: «Nessuno si deciderebbe con sicurezza ad agire secondo una legge se non fosse sicuro che quella legge è giusta e che egli non deve affatto decidere sulla legge stessa. Ma la coscienza decide su sé stessa e nello stesso tempo non elabora a proprio arbitrio la legge secondo la quale decide: quindi la legge è superiore alla coscienza nostra […] e il nostro potere deliberativo, quando è pienamente conscio di sé, non fa che applicare le leggi stesse di Dio».Nella costante aspirazione dell’uomo alla felicità Bonaventura trova — sulla scia di Agostino — un’altra testimonianza in favore dell’esistenza di Dio: «La felicità è l’oggetto che più intensamente si ama. E la felicità non si possiede se non si raggiunge il massimo bene che è il fine ultimo. Dunque, l’umano desiderio tende al sommo Bene, oppure a ciò che è messo in relazione con questo o che è immagine di questo. Tanta è la forza d’attrazione del sommo Bene, che nulla amerebbe la creatura se non fosse sospinta da quel supremo desiderio. L’errore e l’inganno del desiderio poi sta nel riporre ogni sua compiacenza nell’oggetto, che dovrebbe essere soltanto immagine del Bene supremo».
Secondo Bonaventura, il più grave errore di Aristotele e dei suoi commentatori arabi (Avicenna e Averroè) è stato di aver eliminato dalla nozione di Dio creatore la dottrina platonica delle Idee come archetipo della realtà creata, cosicché il Dio aristotelico risulta inaccettabile per una mente cristiana: sarebbe infatti un Dio che non conosce le cose del mondo e che le muove solo come causa finale di esse. Ed effettivamente, il “primo motore immobile” di Aristotele non è un vero creatore né pensa al mondo, che pur tende a Lui; il Dio aristotelico è incompatibile con la nozione di Provvidenza che già gli Stoici avevano elaborato e che poi la filosofia cristiana aveva fatto sua in modo irreversibile. Se in filosofia si segue Aristotele, osserva giustamente Bonaventura da Bagnoregio, si è indotti a pensare erroneamente che «tutto ciò che avviene è meramente casuale oppure del tutto necessario; ora, siccome è impossibile che tutto sia casuale, gli Arabi si sono visti obbligati a introdurre nel mondo una necessità fatale, dicendo che tutti gli avvenimenti terreni dipendono dall’influsso degli astri»[8]; ma — conclude logicamente Bonaventura — la filosofia cristiana deve mantenere il principio della libertà che l’uomo ha per scegliere tra il bene e il male, e pertanto quel determinismo del pensiero arabo-aristotelico è del tutto inaccettabile, come è inaccettabile la teoria averroista dell’intelletto possibile che sarebbe il medesimo per tutti gli uomini. La dottrina bonaventuriana delle idee “esemplari” è appunto un recupero di Platone, attraverso Agostino, per giustificare filosoficamente la Provvidenza di Dio e la libertà dell’uomo.
3. La visione francescana della scienza: Ruggero Bacone
Roger Bacon, italianizzato come Ruggero Bacone (1215-1293), nacque a Ilchester (Inghilterra) e compì gli studi a Parigi ove fu anche professore; tornato in Inghilterra, entrò nell’ordine dei Francescani e fu maestro nell’Università di Oxford. Scrisse molte opere intorno alle scienze naturali, matematiche, astronomiche, filosofiche e teologiche, tra le quali ricordiamo: l’Opus maius, vasto disegno enciclopedico del sapere; l’Opus minus, che ne è una sintesi; l’Opus tertium è il rifacimento dei primi due; il Compendium philosophiae, visione critica della genesi e dello sviluppo del pensiero filosofico; il Compendium theologiae, ove espone la necessità metodologica della teologia come complemento e culmine della scienza e della filosofia; infine, un trattato di fisica (Communia naturalia).
Contrariamente al suo confratello Bonaventura, Bacone è nettamente favorevole all’uso della logica, della filosofia naturale e della metafisica di Aristotele; oltre alle opere originali che prima abbiamo elencato, egli ha infatti scritto numerosi commenti ai libri “naturali” di Aristotele e alla Metafisica.
L’opera di Bacone è tutta volta a condannare i metodi dei suoi contemporanei; egli respinge l’eccessiva importanza che si attribuisce all’autorità; proclama la libertà incondizionata degli studi; richiama gli studiosi all’osservanza della metodologia scientifica, esalta la matematica e l’esperienza della natura, che definisce «porta e chiave del sapere».Queste sue ardite innovazioni, specialmente l’esaltazione delle scienze fisiche e astronomiche e le simpatie per l’astrologia (che già preludono l’umanesimo rinascimentale italiano) gli procurano sospetti, cui seguono purtroppo ripetute condanne, nonostante la protezione che godeva presso il pontefice Clemente IV; morto questo papa, Bacone fu condannato al carcere a vita.
Con Bacone la Scolastica dilata gli angusti confini nei quali era fino ad allora limitata, e sente l’esigenza di approfondire la conoscenza delle lingue: non solo la latina e la greca, ma anche l’ebraico e l’arabo. Tale conoscenza è necessaria per apprendere il pensiero dei grandi filosofi pagani, i quali, per Bacone, sono simili ai grandi profeti, poiché Dio ha loro ispirato la sua sapienza, il suo Verbo, che essi espressero nelle loro opere. Secondo Bacone, si avversava Aristotele proprio perché non lo si conosceva esattamente. L’ideale baconiano è l’elevazione universale dell’umanità per mezzo del sapere; l’ignoranza infatti è causa di tutte le calamità sociali e di tutte le discordie tra gli studiosi. Da qui Bacone delinea un piano unitario di tutto il sapere che deve essere fondato, oltre che sulle lingue per raggiungere un linguaggio unico e universale, sullo studio critico della natura (scienze biologiche, fisiche, matematiche, chimiche e astronomiche), della realtà metafisica (scienze filosofiche come sintesi della natura), e delle Sacre Scritture (scienza teologica). Natura, uomo e Dio costituiscono il triplice oggetto dello scibile umano, che deve diventare comune, privo di errori, perché pronto a fuggire ogni forma di ignoranza; sapere che deve servire di alimento all’umanità intera, perché l’universale convivenza, fatta di sapienza, sostanziata e illuminata di divinità, cresca «usque ad finem mundi».
4. La visione domenicana della scienza: Alberto di Colonia
Alberto di Colonia, detto “il Grande” per distinguerlo da Alberto di Sassonia, è una mente enciclopedica che per certi versi ricorda la personalità di Boezio, di cui rinnova e sviluppa l’opera, dando al pensiero scolastico un decisivo orientamento per il quale la filosofia acquista maggiore autonomia nel campo della ragione, ispirandosi al pensiero aristotelico come al prodotto migliore dell’umano intelletto. Sicché il genio di Stagira, a lungo osteggiato e proibito per le contaminazioni islamiche e giudaiche, con Alberto penetra finalmente nella Scolastica per poi diventare lo strumento privilegiato del pensiero filosofico di Tommaso.
Alberto nacque a Laningen (Svevia), dalla nobile famiglia dei Conti di Böllstadt, nel 1193 o, secondo altri nel 1207; giovanissimo studiò all’Università di Padova e forse anche in quella di Bologna. A Padova ebbe come maestro, tra gli altri, Giordano di Sassonia, il quale, entrato nell’ordine dei Domenicani, ne era stato eletto superiore, divenendo il primo successore di Domingo de Guzmán. Alberto di Colonia seguì l’esempio del maestro, entrò nell’ordine domenicano e si recò in vari paesi della Germania, quindi fu nominato professore all’Università di Parigi. Successivamente, fu mandato a Colonia per dirigervi lo studium generale del suo ordine; da Parigi — come vedremo — portò con sé il suo allievo prediletto, Tommaso d’Aquino. Oltre a insegnare nell’Università di Colonia si occupò del governo dell’Ordine nella provincia germanica. Chiamato a Roma come teologo della curia pontificia, nel 1256 si trovò in Anagni e lì, davanti al tribunale pontificio, difese il diritto e la libertà d’insegnamento degli ordini mendicanti, osteggiati a Parigi (mentre vi si affermava Tommaso) dai maestri secolari, come abbiamo già detto narrando la vita di Bonaventura da Bagnoregio; in tale occasione la Chiesa si pronunciò per la libertà degli ordini e per la condanna di Guillaume de Saint-Amour, esponente principale della fazione contraria ai “mendicanti”. Sempre ad Anagni, davanti alla corte papale, pronunciò una dissertazione filosofica contro l’averroismo; nel 1260 venne consacrato vescovo di Ratisbona; fu predicatore delle province germaniche, arbitro nelle controversie religiose e civili, teologo nel concilio di Lione (1274) insieme a Bonaventura e infine strenuo difensore a Parigi delle dottrine del suo discepolo Tommaso d’Aquino (1277); morì a Colonia l’anno 1280. Alberto Magno lasciò circa centoquaranta opere che trattano di tutto lo scibile, tra le quali ricordiamo la Summa de creaturis, il De unitate intellectus contra Averroen (opera simile, anche nel titolo, a quella di Tommaso che poi analizzerò), la Summa theologiae, la Philosophia rationalis, la Philosophia realis, la Philosophia moralis, e parecchi trattati scientifici.La metafisica di Alberto Magno rispecchia il sistema aristotelico, ma non senza eterogenei influssi neoplatonici e islamici. Combatte la tesi tipicamente greca dell’eternità della materia contrapponendovi il creazionismo cristiano, e dichiara la creazione del mondo razionalmente inspiegabile, così come ne definisce assurda l’eternità, affermata da Platone e da Aristotele. L’importanza di Alberto di Colonia, peraltro, non consiste tanto nella sua genialità creativa quanto nella divulgazione del pensiero aristotelico con la parafrasi, il commento e le frequenti descrizioni di tutte le opere di Aristotele e dei suoi precedenti commentatori. In tal modo Alberto di Colonia recupera per la cultura di lingua latina il primato fino ad allora detenuto dal mondo islamico nell’interpretazione e nell’utilizzo teologico della filosofia aristotelica, ampliando e approfondendo l’opera che Boezio aveva lasciato in eredità all’Occidente romano.Circa la questione degli universali, Albert — come poi farà Tommaso — sostiene un realismo moderato, secondo cui l’universale esiste prima della cosa particolare (ante rem); è nella cosa (in re); è fuori e dopo la cosa (post rem): ossia, esiste prima della cosa perché è nella mente divina; è nella cosa come potenza attuabile; esiste fuori e dopo l’individuo come potenza attuata con l’astrazione dalla mente umana.
Contrariamente all’agostinismo mistico, Alberto rivendica alla ragione la capacità di conoscere Dio, anche indipendentemente dalla Rivelazione; ossia, viene riconosciuto esplictamente che la ragione gode di una sua autonomia, con la quale può giustificare e difendere tutte le verità accessibili alla sua natura. Tra queste verità primeggia appunto quella dell’esistenza di Dio, essere sommo, infinito e perfettissimo; l’uomo dunque, può acquistare la coscienza dell’esistenza di Dio non tanto per illuminazione divina, quanto con argomenti induttivi con i quali, dalla constatazione del molteplice e del particolare, raggiunge la comprensione logica della causa unica, universale ed eterna. Anche per quanto concerne il problema antropologico, Alberto prende posizione contro le tendenze fideistiche, dimostrando che l’anima umana è creata da Dio, è sostanza spirituale, è individuale, è forma del corpo, e per sua natura è immortale; e tale immortalità non è solo una certezza di fede ma anche una certezza del senso comune, che poi può avvalersi della elaborazione razionale, come è avvenuto attraverso il pensiero dei grandi filosofi: Platone, Aristotele Plotino e Agostino.
Conoscere, per Albert, significa cercare e possedere la verità delle cose, considerate anzitutto nel loro divenire empirico; nel sapere filosofico perciò è necessario, come base, il sapere scientifico ottenuto mediante l’indagine sperimentale, con la quale l’intelletto entra in possesso delle leggi che regolano la natura cosmica. Così si spiega l’opera intensa, originale e nuova che Albert svolge in astronomia, in matematica, in fisica, in biologia. La scienza della natura, dunque, è premessa necessaria della conoscenza filosofica; questa infatti si attua attraverso un processo induttivo di tipo aristotelico, che parte dai sensi e chiama in causa l’intelletto possibile, illuminato e attuato da quello agente. Ne consegue la lotta che Albert conduce contro l’unità dell’intelletto possibile di Averroè e dell’averroismo latino (cfr più indietro, par. 3 di questo capitolo) poiché l’intelletto possibile è funzione distinta e autonoma di ciascun individuo razionale, capace di conoscenza nella misura e nel grado con cui Dio lo ha creato.Sulle orme di Aristotele, Albert delinea una scienza morale i cui princìpi sono la razionalità (le «virtù dianoetiche» di Aristotele) e la prassi equilibrata che da essa deriva, ossia la virtù dell’agire; questa però, è, prima di tutto, effetto della libertà. Si tratta di una libertà intesa come principio e facoltà dell’anima, consistente nell’atto della volontà per cui essa può abbracciare o respingere indifferentemente il bene dell’oggetto che la ragione teoretica le offre.
Per Alberto di Colonia la conoscenza filosofica (naturale) di Dio si distingue da quella teologica (soprannaturale), e questa distinzione (che riguarda la nozione di Dio, cioè l’argomento più importante per entrambe le discipline) esige una metodologia scientifica diversa per ciascuna di esse. Anzitutto, la filosofia parte da princìpi che sono “veritates per se notae”, cioè evidenze naturali di cui tutti possono prendere coscienza, mentre la teologia ha come princìpi i dogmi rivelati da Dio e proposti dalla Chiesa, e pertanto è una scienza riservata a coloro che hanno la fede. Inoltre, la filosofia si nutre di esperienza, mentre la teologia si nutre di contemplazione mistica. Infine, la filosofia conferma la certezza spontanea circa l’esistenza di Dio, senza però poter dire alcunché sulla sua essenza, mentre la teologia può parlare di che cosa sia Dio in sé, proprio perché Egli stesso ci si è rivelato. In definitiva, secondo il teologo tedesco, il metodo teologico si distingue da quello filosofico proprio per il punto di partenza e il criterio della ricerca. Richiamandosi ad Agostino, Alberto riconosce il grande valore della razionalità filosofica (anche quella dei pagani come Aristotele), ma precisando che in filosofia vige la “ratio inferior”, mentre la teologia si avvale della “ratio superior”, quella parte superiore dell’anima che è illuminata dalla Rivelazione e dà luogo alla sapientia, superiore alla mera scientia; tale superiorità, comunque, non è conflitto né esclusione, perché la ratio inferior ha un suo insostituibile ruolo nelle conoscenze umane: «In caso di discordanza di opinioni — dice Alberto —, c’è da preferire quella di Agostino se si tratta di teologia, mentre sono più autorevoli Galeno e Ippocrate in materia di medicina, e Aristotele nella filosofia della natura». Tommaso, come dirò tra breve, fece un passo avanti, assumendo di Aristotele il linguaggio e il metodo anche per la metafisica.
NOTE
[4] Giovanni Di Napoli, La visione dell’uomo in Bonaventura da Bagnoregio, in “Doctor Seraphicus”, n. 23 (1976), p. 13.
[5] Bonaventura da Bagnoregio, De mysterio sanctissimae Trinitatis, 1, 2, 3.
[6] Ibidem.
[7] Luigi Stefanini, Sommario storico della filosofia, SEI, Torino 1928, p. 109.
[8] Bonaventura da Bagnoregio, Collationes in Hexaemeron, 1, 2, 3.