LA RISCOPERTA DI ARISTOTELE NEL XIII SECOLO E TOMMASO D’AQUINO (III)
Di Antonio Livi Tratto da “Dal senso comune alla dialettica. Una storia della filosofia”, Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2004-2005. CAPITOLO NONO. LA RISCOPERTA DI ARISTOTELE NEL XIII SECOLO E TOMMASO D’AQUINO. 5. Tommaso d’Aquino. Vita e opere.
5. Tommaso d’Aquino
Tommaso è, per gli storici della filosofia e per i cultori della filosofia teoretica, una figura con cui occorre assolutamente confrontarsi. Se Heidegger lo avesse conosciuto, se si fosse confrontato con lui, ben diverso sarebbe stato il suo giudizio sulla storia del pensiero occidentale e ben diverse sarebbero state le sue proposte teoretiche. Se Edmund Husserl avesse seguito la strada del collega Franz Brentano (buon conoscitore di Tommaso), la scuola fenomenologica non avrebbe avuto la sola eccezione di Edith Stein nella via del recupero di un vero realismo metafisico. Se i fautori del “pensiero debole” o “post-metafisico” si confrontassero con la metafisica non razionalistica di Tommaso, non avrebbero come unica alternativa il sistema idealistico con la sua innegabile vocazione alla violenza totalitaria.
Vita e opere
Tommaso era di famiglia germanico-normanna, residente da due secoli nel regno di Sicilia, e precisamente nella parte più settentrionale del regno, la “Terra di lavoro”, tra Napoli e Terracina, confinante con lo Stato della Chiesa. Regno di Sicilia e regno di Aragona (o di Castiglia, o di Navarra, o di Francia, o di Inghilterra) erano sotto l’egida comune dell’Impero. Il padre di Tommaso, conte Landolfo, feudatario di Federico II di Hohenstaufen (il principe svevo incoronato nel 1220 imperatore del Sacro Romano Impero), era di stirpe longobarda, mentre la madre, Teodora di Napoli, era di discendenza normanna. I conti d’Aquino erano una famiglia ricca e potente: l’imperatore Federico II nel 1220 aveva nominato il conte Landolfo “giustiziere” (cioè governatore) della “Terra di lavoro”, corrispondente all’attuale Campania tra Napoli e Terracina. A Roccasecca, nei pressi di Aquino, nacque Tommaso tra il 1224 e il 1225 (la data è incerta). Conosciamo i nomi dei fratelli di Tommaso: Aimone, Rinaldo, Marotta, Teodora (che poi fu contessa della Marsica), Maria e Adelasia. Per la prima formazione intellettuale i genitori inviarono il piccolo Tommaso alla vicina abbazia di Montecassino dove era abate un suo zio; l’apparente intenzione era di avviare il figlio cadetto alla vita monastica, ma realmente la famiglia nutriva la segreta speranza che Tommaso potesse arrivare un giorno alla suprema carica di abate e accrescere così la potenza della casata (il territorio dell’abbazia confinava con la proprietà dei conti di Aquino). Tommaso, invece, dopo qualche anno tornò in famiglia e proseguì gli studi all’Università di Napoli, fondata proprio da Federico II, e a Napoli ebbe la prima diretta iniziazione alla filosofia aristotelica, sotto Martino di Dacia per la logica e Pietro d’Irlanda per la filosofia della natura[9]. All’Università di Napoli nacque anche la sua vocazione domenicana, per opera del predicatore Giovanni di San Giuliano. Quando però Tommaso manifestò la sua decisione ai familiari, incontrò un’ostinata resistenza soprattutto da parte del fratello Rainaldo, celebre poeta di corte, il quale giunse a rinchiuderlo in casa.Nella biografia di Tommaso sono riunite quasi tutte le caratteristiche del secolo; già nella sua “fuga” da Montecassino a Napoli se ne possono trovare molte: in primo luogo la lotta tra l’Imperatore e il Papa, che avrebbe scosso tutta la cristianità costringendola a darsi una nuova struttura; in secondo luogo, la decadenza politica del monastero benedettino che, concepito ancora feudalmente (con le caratteristiche dell’Alto Medioevo), non conservava più, per i tempi nuovi, la tradizionale potenzialità rappresentativa; in terzo luogo, la presenza delle nuove forme di vita religiosa comunitaria non solo nella città, ma anche nella prima università non pontificia ma “imperiale” (considerando il significato che l’Occidente dava a questo termine), quella appunto di Napoli, appena fondata da Federico II (1224); in quarto luogo, l’incontro con Aristotele, che in questa Università, proprio perché non ecclesiastica, non poteva essere assolutamente evitato e che in nessun’altra università sarebbe stato possibile in un modo così profondo; in quinto luogo, il confronto con il dinamismo del “movimento di povertà”, ossia con le prime generazioni degli ordini mendicanti, incontro che poteva aver luogo soltanto in una città. Dei punti citati, soprattutto degli ultimi tre — le università, Aristotele, il movimento degli ordini mendicanti — è necessario tener conto per capire le posizioni d’avanguardia assunte nel suo tempo da Tommaso.All’incirca all’età di diciannove anni, Tommaso entra in uno dei due nuovi ordini mendicanti, l’ordine dei Predicatori, fondato dallo spagnolo Domingo de Guzmán; la sua fu una decisione improvvisa — anche se poi mantenuta sempre molto fermamente — della quale con tutta probabilità non aveva fatto parola nemmeno con la famiglia. Più tardi, Tommaso, in uno scritto polemico a difesa dello stato religioso, discute l’obiezione che la scelta della propria vocazione debba essere pensata lungamente e debba essere presa dopo aver chiesto consigli; e risponde con una frase severa: da tale deliberazione bisogna tenere lontani per primi i famigliari, che a questo riguardo sono nemici e non amici[10]. Proprio nel suo caso personale, come abbiamo già detto, ci furono conflitti abbastanza considerevoli. Infatti, i suoi confratelli di Napoli cercarono di allontanare quanto prima il novizio dalla sfera di influenza della sua famiglia e dell’Imperatore (poiché gli ordini mendicanti furono subito sospettati di stare con il Papa contro l’Imperatore) inviandolo a Parigi; a tale scopo Tommaso si mette subito in viaggio, ma la madre Teodora lo segue fino a Roma, tentando inutilmente di dissuaderlo; qualche giorno dopo viene catturato dai suoi fratelli, probabilmente aiutati dall’Imperatore, e, come abbiamo già detto, rinchiuso per lungo tempo, forse un anno, in un castello del padre. Ecco come l’episodio viene narrato da Tolomeo da Lucca: «Siamo ai primi di maggio del 1244 […] Fra’ Giovanni il teutonico, superiore dei Predicatori [ossia i domenicani] e uomo altamente stimato nel mondo di allora, accompagnava da Napoli, dov’era appena entrato nell’Ordine, fra’ Tommaso d’Aquino in viaggio alla volta di Parigi. La comitiva giunse in Toscana, nei pressi di Acquapendente, roccaforte imperiale ove risiedeva allora l’imperatore Federico. Un fratello di Tommaso, messer Rainaldo, uomo di non comune onestà, in grande favore presso il sovrano (anche se un giorno sarebbe stato da lui condannato a morte), si trovava precisamente alla corte dell’Imperatore. Appena seppe del passaggio del suo giovane fratello, Rainaldo, all’insaputa di Federico (almeno apparentemente) e con l’aiuto di Pier delle Vigne, strappò suo fratello a fra’ Giovanni; poi lo costrinse a montare a cavallo e lo spedì sotto buona scorta in Campania, in uno dei castelli della famiglia, chiamato San Giovanni»[11]. Il giovane filosofo però restò fermo nel suo proposito, e respinse risolutamente ogni tipo di lusinga materiale con cui si cercava di distoglierlo dal suo proposito spirituale di rinuncia agli agi e al potere della vita nobiliare per seguire un cammino di povertà volontaria e di predicazione del Vangelo. Finalmente, nel 1245, ormai maggiorenne, fu rilasciato, libero di seguire la sua vera vocazione. Allora, d’accordo con i superiori dell’ordine, si trasferì in Francia per entrare nel convento domenicano di Parigi, dove studiò sotto la guida di Alberto di Colonia, del quale abbiamo parlato prima. Nel 1248 seguì Alberto a Colonia, quando questi vi si recò per fondarvi uno “Studio generale” dei Domenicani. A Colonia Tommaso frequentò i corsi di Teologia per la preparazione immediata al sacerdozio. Alla scuola del suo dottissimo maestro Tommaso prese contatto non solo con tutto il corpus Aristotelicum ma anche con i commentari arabi e greci fino allora tradotti e specialmente con il corpus Dionysianum[12], e poté così affrontare fin da giovane il problema cruciale del suo tempo, ossia come conciliare la tradizione patristica (sostanzialmente neoplatonica, proprio per il prestigio dello pseudo-Dionigi) con l’utilizzo della metafisica di Aristotele.
Per l’insistenza di Alberto, nel 1252 Tommaso tornò all’Università di Parigi, dove poté completare gli studi superiori e prendere il posto vacante di maestro di Teologia nella scuola domenicana di Saint-Jacques. A Parigi, come ben presto vedremo, iniziò quasi subito la sua lunga e prolifica produzione letteraria, con alcuni brevi saggi filosofici (De ente et essentia, De principiis naturae) e con il commento alla monumentale opera di Pietro Lombardo, i Quattuor libri Sententiarum. Nel 1255 fu coinvolto nella lotta fra i docenti del clero diocesano parigino e quelli appartenenti agli ordini religiosi per il possesso delle cattedre di Filosofia e di Teologia. All’età di ventisette anni, dunque, Tommaso si trova a essere professore di Teologia nell’Università dove anni prima aveva studiato, nonostante la vivace opposizione diretta non contro la sua persona, ma contro l’influenza sempre crescente degli ordini mendicanti nell’Università. Tommaso è afflitto pesantemente da queste dispute. Si renderà necessario l’intervento del Papa stesso per obbligare l’Università a togliere il boicottaggio nei suoi confronti. Con quella pressione muta l’atteggiamento, oltre che verso di lui, anche verso Bonaventura: entrambi — Tommaso e Bonaventura — sono infatti nominati nello scritto del Papa. A difesa del diritto alla docenza universitaria l’Aquinate aveva scrito l’opuscolo Contra impugnantes Dei cultum et religionem (“Contro quanti criticano il culto di Dio e la vita religiosa”). Dopo la vittoria degli ordini religiosi, Tommaso fu nominato magister regens dell’Università parigina (1257).
Durante la sua permanenza a Parigi, Tommaso poté seguire da vicino gli avvenimenti della facoltà delle Arti e meditare sul significato del decreto del 1255 riguardo ad Aristotele. Su invito del maestro generale dei Domenicani, Umberto de Romanis, si recò a Valenza in Spagna per discutere insieme con Alberto Magno, Pietro di Tarantasia e altri celebri maestri domenicani un programma di studi per i frati. La parte più importante di questo programma, ispirata e propugnata con fermezza da Alberto, fu quella che indicava la necessità della cultura filosofica. Certamente nella discussione o magari privatamente Alberto e Tommaso parlarono a lungo del problema della filosofia pagana; certamente ricordarono il lavoro di Alberto per realizzare la sua grande parafrasi di Aristotele. E Tommaso fu d’accordo con Alberto nel voler utilizzare il pensiero pagano, che andava talvolta corretto ma mai respinto. La prima opera filosofica di Tommaso è con tutta probabilità lo Scriptum super Sententiis, opera assai importante perché già in essa appare con forza e con chiarezza il caposaldo della metafisica tomista, ossia la distinzione tra essenza ed “esse”[13]; tale dottrina è presente anche nell’opuscolo De ente et essentia, scritto nel medesimo anno o l’anno successivo. L’influsso della filosofia di Avicenna è evidente, a cominciare proprio dalle esplicite citazioni che Tommaso fa del filosofo arabo[14], mentre non è così marcata la presenza dei concetti aristotelici. Nel 1259 Tommaso fu richiamato a Roma per assumere l’incarico di teologo della corte papale. Per dieci anni (dal 1259 al 1269) seguì il papa Urbano IV da Roma a Orvieto e a Viterbo. A questo periodo, che è il più tranquillo della sua vita, appartengono le sue opere maggiori: la Summa contra gentiles, alcune Quaestiones disputatae (sulla verità e sulla potenza di Dio) e la prima parte della Summa theologiae (iniziata nel 1267). Nel 1259, in realtà, Tommaso lascia la cattedra universitaria di Parigi per vivere un’esistenza di continui spostamenti che, fino alla morte, non gli permetterà più di restare per più di tre anni nello stesso luogo e con il medesimo incarico. Ma portò sempre con sé la sua identità spirituale, ossia la missione di predicatore, attraverso l’insegnamento e gli scritti, la concezione cristiana nella sua totalità. Appena lasciata la cattedra parigina, l’Ordine lo richiama in Italia per affidargli un incarico interno, relativo soprattutto all’organizzazione degli studi. In seguito, papa Urbano IV lo chiama per tre anni presso la sua corte di Orvieto, dove — proprio quando le opere di Aristotele erano ufficialmente vietate — un domenicano fiammingo che aveva appreso la lingua di Aristotele in Grecia si dedicava anima e corpo alla traduzione del filosofo proibito. Lo stesso Tommaso incoraggia il suo confratello, che si chiamava Guglielmo di Moerbecke, in questo lavoro. Ma il Papa ha bisogno della collaborazione di Tommaso per un compito di valore universale. Si sta delineando la possibilità che l’Oriente cristiano si possa riunire alla cristianità occidentale. Ed è proprio Tommaso l’intellettuale che viene incaricato di preparare il cammino teologico. Tre anni dopo riceve un nuovo incarico dai domenicani: la direzione della scuola dell’Ordine nel convento Santa Sabina sull’Aventino, a Roma, dove rimane per due anni. Gli restano soltanto dieci anni di vita e non ha scritto nemmeno uno dei dodici commentari agli scritti di Aristotele che lo renderanno famoso, e nemmeno una riga della Summa theologiae. In questi due anni romani darà però inizio agli uni e all’altra. Inoltre è chiamato a corte dal nuovo papa, Clemente IV, a Viterbo. Questo papa fu ritenuto responsabile della morte dell’ultimo Hohenstaufen, il giovane Corradino di Svevia, il cui destino si concluse sul patibolo in quegli anni a Tagliacozzo. Proprio allora Tommaso scrive, tra le altre cose, il libro sul potere politico, che comprende quel formidabile capitolo sulla ricompensa spettante al re giusto[15].
A Orvieto, come abbiamo detto, Tommaso aveva avuto la fortuna di incontrare il confratello Wilhelm van Moerbeke, eccellente grecista, al quale Tommaso chiese di apprestare una nuova traduzione latina delle opere di Aristotele, sulla quale egli avrebbe poi steso i suoi famosi commentari, come di fatto avvenne per la Fisica, la Metafisica, il trattato Sull’anima, l’Etica nicomachea, la Politica e quasi tutti gli altri libri dello Stagirita. Allo stesso Moerbeke e ad altri confratelli Tommaso chiese di realizzare la traduzione di alcune importanti opere dei Padri greci che non erano ancora mai state tradotte in latino, arricchendo così notevolmente le fonti patristiche accessibili ai teologi latini, fonti di cui lo stesso Tommaso fece largo uso nella stesura della sua Summa theologiae.
Nel 1269 il maestro fu richiamato a Parigi per un secondo ciclo di insegnamento. Là ebbe a lottare su due fronti in difesa di Aristotele (e di sé stesso, essendo ormai di Aristotele il più convinto e fermo sostenitore): da una parte, contro gli scolastici agostiniani che lo accusavano di paganesimo, dall’altra, contro gli averroisti che davano del suo pensiero una interpretazione incompatibile con la fede cristiana; in polemica con questi ultimi, Tommaso scrisse — come già aveva fatto il suo maestro Alberto — un trattato di antropologia fortemente polemico (vedi più avanti : par. 4). Tommaso in questo momento della vita si trova completamente solo. Il fatto straordinario è che questo maestro così attraente, sia per nascita che per inclinazione e gentilezza, non ha nessun discepolo che sappia collocarsi a un così alto livello; e nemmeno dopo la sua morte è possibile trovare qualcuno capace di custodire e difendere la sua eredità con adeguato convincimento. Comunque, a Parigi Tommaso, proprio poiché si ritrova solo, si mette a lavorare con rinnovato slancio. A malapena si riesce a credere che in questi ultimi anni parigini — forse soltanto tre — egli abbia scritto i suoi dottissimi e puntigliosi commentari a quasi tutte le opere di Aristotele e inoltre un commentario al libro di Giobbe, al Vangelo di san Giovanni e alle lettere di san Paolo, le Quaestiones disputatae sul male e sulle virtù e la seconda parte della Summa theologiae. Ma pur così occupato a scrivere, Tommaso non si estrania dalla discussione, anzi le sue opere ne costituiscono un valido apporto, anche se i suoi scritti non si possono considerare propriamente polemici. La discussione arriva a un punto di criticità tale che la curia generale dell’Ordine, per smorzare il fuoco delle passioni, decide inopinatamente che Tommaso debba lasciare Parigi: siamo nel 1272. Difatti il suo successore dei frati predicatori sulla cattedra parigina sceglie una linea tradizionale e conservatrice. Tommaso si ritrovò dunque a Napoli, proprio là dove aveva iniziato i suoi studi di filosofia ed era entrato nell’ordine di San Domenico, e ricevette dai suoi superiori l’incarico di riordinare l’insegnamento di Teologia nell’Università del regno di Sicilia e di tenervi egli stesso alcuni corsi, cosa che fece fino al gennaio del 1274. In questo periodo, come quando si trovava a Viterbo, oltre che allo studio e all’insegnamento si dedicò con zelo anche alla predicazione al popolo, il quale andava ad ascoltarlo con grande entusiasmo, apprezzando la semplicità della sua parola congiunta alla chiarezza e profondità del suo pensiero. Alcuni stenografi presero nota di questi sermoni di Tommaso in napoletano ma, data l’importanza dell’autore, essi furono subito tradotti in latino (costituiscono i cosiddetti “Opuscoli di catechesi”) e così purtroppo l’originale andò perduto. Un giorno del dicembre 1273, dopo la celebrazione della Messa, Tommaso chiamò il suo fedelissimo segretario fra’ Reginaldo da Piperno e gli comunicò la decisione di non continuare a scrivere, perché quella mattina durante la Messa aveva capito che quanto aveva scritto nei suoi libri era «tota palea [un mucchio di paglia]». Così rimasero interrotte due delle sue opere più importanti: la Summa theologiae, che rimase ferma alla questione 90 della terza parte, e il Compendium theologiae, che restò sospeso al capitolo 10 del Secondo Libro. La decisione di interrompere la produzione delle opere filosofiche e teologiche mostra quanto fosse sincera la disposizione di Tommaso a servire Dio con la sua intelligenza, senza secondi fini di ambizione personale o di vanità.Nel gennaio del 1274, su invito del nuovo papa Gregorio X, Tommaso, poco meno o poco più che cinquantenne, partì alla volta di Lione, dove il Papa aveva convocato un concilio ecumenico. Giunto nei pressi di Fossanova, fu colto da grave malore e fu ricoverato sollecitamente nella celebre abbazia cistercense di quella città. Tutte le cure risultarono vane, e dopo qualche settimana (il 7 marzo 1274) morì, senza che si fosse saputa comprendere la natura del male che l’aveva colpito. Si è parlato persino di una congiura contro di lui e di un avvelenamento, e questa tesi è stata recentemente riproposta in modo alquanto sensazionalistico. Fu sepolto proprio nella abbazia di Fossanova. Nel 1325 le sue ossa furono traslate a Tolosa per ordine del papa.
Nei suoi contemporanei Tommaso lasciò un ricordo indelebile per la finezza e acutezza della sua intelligenza, per la santità della sua vita. L’ordine dei domenicani prese fin dall’inizio le sue difese contro le critiche, talora violente, proveniente soprattutto dai Francescani (come il già citato Guillaume de la Mare). Nel 1279 l’Ordine proibì agli stressi Domenicani di criticarlo. Guglielmo di Tocco, il suo primo biografo, sottolinea la straordinaria originalità di Tommaso in tutto ciò che faceva: «Fra’ Tommaso proponeva nelle sue lezioni problemi nuovi, scopriva nuovi metodi, impiegava nuove concatenazioni di prove, e nell’udirlo spiegare, poiché proponeva una nuova dottrina con nuovi argomenti, non si poteva dubitare che Dio, attraverso l’irradiarsi di questa nuova luce e la novità di questa ispirazione, gli avesse fatto dono dell’insegnamento, in parole e scritti, di una nuova dottrina»[16]. Tommaso d’Aquino fu dichiarato santo da Giovanni XXII il 18 luglio 1323. Ben presto gli fu dato il titolo di «dottore angelico» e recentemente anche quello di «doctor communis» (cioè di dottore universale della Chiesa, non soltanto di una scuola particolare). Il Concilio Vaticano II (1965) lo ha espressamente segnalato due volte come punto di riferimento per la dottrina cattolica[17]; e si noti che mai prima un Concilio ecumenico aveva nominato e tanto meno raccomandato un teologo.
Secondo una consuetudine molto diffusa nell’antichità e nel Medioevo, per cui al fine di dar maggior credito a certi scritti li si attribuiva ad autori famosi, anche a Tommaso sono state ascritte opere che al vaglio della critica moderna sono poi risultate di dubbia autenticità o addirittura spurie. Ancor oggi il problema del catalogo delle opere autentiche non è stato completamente risolto; lo storico Pierre Mandonnet ha creduto di trovare la soluzione apodittica del problema nel catalogo di Bartolomeo da Capua, perché a suo giudizio esso sarebbe un catalogo ufficiale e pertanto le opere ivi contenute sarebbero autentiche, mentre le opere che non vi sono comprese sarebbero apocrife; ma più tardi Pelster e Grabmann hanno mostrato l’infondatezza di questa tesi, facendo vedere che non esiste nessun catalogo ufficiale e dimostrando che alcune opere sicuramente autentiche non sono incluse nel catalogo di Bartolomeo da Capua. Ad ogni modo si deve dire che le opere maggiori attribuite a Tommaso sono tutte riconosciute come frutto del suo ingegno e pertanto sono sicuramente autentiche. Gli scritti di Tommaso si sogliono dividere in cinque gruppi: a) opere sistematiche; b) commenti alla Sacra Scrittura; c) commenti ad Aristotele e ad altri autori antichi e medioevali.A parte i commenti alla Sacra Scrittura, le opere che più interessano la filosofia sono, per quanto riguarda il primo gruppo, le Quaestiones disputatae (De veritate, De potentia, De malo, De spiritualibus creaturis, De anima, De virtutibus) e le Quaestiones quodlibetales; sia le une che le altre sono redazioni sintetiche di argomenti svolti nell’insegnamento e nelle dispute. Per quanto riguarda il terzo gruppo, sono da segnalare il commento ai quattro libri delle Sentenze di Pietro Lombardo e i commenti critici a tutte le opere di Aristotele, di Boezio, dello Pseudo-Dionigi e all’opera anonima chiamata Liber de causis (che nel Medioevo era attribuita ad Aristotele, mentre si tratta di uno scritto neoplatonico ispirato alle opere di Proclo); infine, altre opere di grande importanza, riguardanti di nuovo il primo gruppo, sono i due opuscoli De principiis naturae e De ente et essentia, e inoltre il Liber de veritate catholicae fidei (detto poi Summa contra gentiles) il De aeternitate mundi, il Tractatus de unitate intellectus, il De substantiis separatis, il De regimine principum e il Compendium theologiae.
L’opera di Tommaso che riassume tutta la sua produzione in una sintesi di insuperabile organicità è la Summa theologiae. Si tenga presente che le “summae” erano un genere letterario molto praticato ai tempi di Tommaso: si conoscono, tra le altre, la Summa theologica di Alessandro di Hales, la Summa aurea di Guglielmo d’Auxerre, a parte la notissima Summa Sententiarum di Pietro Lombardo. Quella di Tommaso d’Aquino fu scritta – scrive l’Aquinate – «ad eruditionem incipientium [= per l’insegnamento della teologia ai principianti]», cioè con uno scopo eminentemente didattico, come un manuale scolastico: in realtà l’opera è da allora la fonte principale della ricerca scientifica in campo teologico e anche per molti argomenti schiettamente filosofici; essa, come abbiamo detto, fu iniziata in Italia verso il 1266 e l’autore vi attese a intervalli, fino alla morte; non poté essere portata a termine, poiché negli ultimi mesi della sua vita, come già abbiamo raccontato, decise di rinunciare all’impresa. L’opera consta di 38 trattati, svolti in 631 questioni, 3122 articoli, 10000 obiezioni; è divisa in tre parti; la prima parte espone la sintesi teoretica dei tre massimi problemi della filosofia (Dio, mondo e uomo); la seconda parte costituisce la sintesi pratica degli stessi problemi ed è, quindi, sostanziata di filosofia morale; questa parte è suddivisa in altre due parti: «Prima secundae» (I-II) e «Secunda secundae» (II-II); nella I-II Tommaso espone la scienza etica in generale, nella II-II tratta delle virtù; nella terza parte si apre la visione teologica del Verbo incarnato, anello di congiunzione tra l’uomo e Dio.Gli opuscoli dei grandi scrittori vengono di solito considerati come una produzione minore rispetto alle opere che li hanno resi celebri nella storia della civiltà: una tale qualifica riguarda più la mole che non la qualità degli scritti stessi. Non di rado infatti questi scritti minori affiancano quelli maggiori, ne colgono i momenti essenziali, approfondiscono quelli più controversi e rivelano la medesima impronta del genio, alle volte con chiarezza maggiore nella disposizione ed esposizione della materia. E mentre in Tommaso le grandi opere — come il giovanile Commento alle “Sentenze” e la matura Summa theologiae assieme alle Quaestiones disputatae e quodlibetales — sono destinate ai corsi ufficiali, gli opuscoli sono invece provocati da cause occasionali e hanno i destinatari più disparati, che possono essere nobili blasonati e altri dignitari — lo stesso papa Urbano IV, l’arcivescovo di Palermo, il re di Cipro, la duchessa di Brabante, il maestro generale dell’Ordine —, come anche umili ammiratori e perfino un soldato, ma primo fra tutti Reginaldo da Piperno, il suo affezionato segretario, titolare per ben tre volte di tre opuscoli della piena maturità. Tommaso può essere riconosciuto il classico della letteratura opuscolare, praticata già da Aristotele e da Boezio, che l’Aquinate aveva ben presenti per averli commentati. Tre dei suoi opuscoli sono di argomento filosofico e furono tutti e tre scritti con lo stesso proposito di svolgere un servizio alla teologia. Il primo, De ente et essentia, fu scritto per i confratelli e compagni di studio, il secondo, De unitate intellectus, per confutare con la ragione un grave errore antropologico incompatibile con la fede cristiana, il terzo, De spiritualibus creaturis, per chiarire con le riflessioni dell’umana ragione le verità che la fede cristiana propone sugli angeli.
La trattazione del De ente et essentia non riguarda tanto la problematica dell’ente (che è appena nominato nel capitolo primo) quanto quella dell’essenza, come l’autore stesso riconosce nella conclusione, in completa fedeltà alla linea aristotelica. Il trattato costituisce una novità non soltanto perché è una delle prime opere di Tommaso, ma anche perché è una delle prime sintesi di filosofia cristiana. Tommaso fa un discorso filosofico sul fondamento del nostro sapere, ossia sui princìpi dai quali la ragione umana deve procedere. Tutto il sapere umano dipende da ciò che si sa intorno all’ente. Di ogni ente conosciuto la mente individua l’essenza, significata nel linguaggio con i concetti. Nell’ente finito (cioè, limitato) i modi di essere sono due, la sostanza e l’accidente, e la maggior parte del trattato studia l’essenza dell’ente visto nella sua dimensione sostanziale. Partendo dalle sostanze composte di materia e forma, Tommaso giunge alle sostanze semplici, quali sono l’anima umana, gli angeli (o “sostanze separate”) e Dio. L’ascesa intellettuale verso la realtà trascendente di Dio partendo dai dati dell’esperienza costituisce il nucleo del trattato. Da questo vertice raggiunto con la sola ragione Tommaso discende attraverso i diversi gradi dell’essere, fondando la molteplicità degli enti sostanziali. Il concetto di ente si risolve nel concetto di “atto”; soltanto l’essere assoluto (Dio) è atto puro, mentre gli enti partecipano dell’atto e hanno una certa composizione con la potenza, e alcuni anche con la materia, che è una specie determinata di potenza. L’uomo viene visto da Tommaso come l’ente che sta al centro di questo grande orizzonte dell’essere, tra il vertice dell’essere puro che è Dio, e la base della “materia prima”, che è pura potenza. L’uomo partecipa dello spirito per l’anima, e della materia per il corpo. Tommaso cita i testi della tradizione filosofica, cominciando da Platone e da Aristotele, ma interviene anche con le sue proprie intuizioni metafisiche. Il pensiero di Aristotele è come la base della tradizione, ma il discorso si snoda in un riferimento costante ai filosofi arabi, tra i quali soprattutto Avicenna e Averroè. Le fonti neoplatoniche sono rappresentate dal Liber de causis. L’opuscolo giovanile prende già posizione nelle questioni radicali della filosofia. Nel corso della sua vita Tommaso svilupperà in modo più preciso queste sue prime intuizioni, restando però fedele a questi punti di partenza: composizione di materia e forma nell’ente cosmico e quindi nell’uomo, unicità della forma sostanziale nel composto, composizione di atto e potenza in tutte le creature, semplicità entitativa in Dio come Essere assoluto e puro atto, partecipazione graduale di questo principio nella scala ordinata degli enti, analogia dell’ente, linguaggio umano come segno dell’ente nella misura in cui lo si conosce. E mentre presenta questo sviluppo della verità, Tommaso si preoccupa di denunciare gli errori che la deformano: la concezione averroista dell’intelletto separato e unico e l’ilemorfismo[18] universale insegnato da Avicebron. Per quanto riguarda l’opuscolo De unitate intellectus sembra accertato che Tommaso lo abbia scritto a Parigi nell’anno 1270, prima del 10 dicembre, data della condanna di tredici proposizioni da parte del vescovo Étienne Tempier, le cui prime due sono materia di questo opuscolo. Che Tommaso non faccia menzione di un tale documento è prova della sua anteriorità. Egli si trovava per la terza volta a Parigi dove aveva fatto ritorno nel 1269. Al suo arrivo, l’Università si trova in una crisi profonda. La crisi procede dalla facoltà delle Arti. Questa facoltà si è sviluppata in modo sorprendente a partire dal 1250. La crescita è qualitativa. Il fattore decisivo è stato l’introduzione dei testi di Aristotele come base dell’insegnamento. La condanna che pesava su questi libri dal lontano 1215, anche se in parte rinnovata da Urbano IV nel 1263 con la proibizione di insegnare la dottrina dei «libri naturales», non aveva sortito alcun effetto pratico. Sui libri di Aristotele si era formata una nuova generazione di giovani maestri. Dal 1265 comincia a spiccare tra questi Sigieri di Brabante, e attorno a lui ci sono Boezio di Dacia e Berniero di Nevilles. Bonaventura da Bagnoregio ha lasciato l’insegnamento nel 1257. La crisi è arrivata alle soglie della facoltà di Teologia, perché si diffondono dottrine che a volte sono in contrasto con la fede: sostenere che esiste un solo intelletto come unico soggetto spirituale di tutta l’umanità implica negare la spiritualità (e quindi la libertà e l’immortalità) dell’anima dei soggetti singoli, per i quali tutto finirebbe con la morte del corpo, il che comporta abolizione dell’intero ordine morale, come osserva espressamente l’Aquinate nel proemio richiamandosi ai suoi scritti precedenti sullo stesso argomento. Si tratta di un errore «davvero indecente» contro il quale intende riprendere in mano la penna per tacitare una buona volta i sostenitori di questo errore filosofico, mostrando che essi oltretutto deviano apertamente dalla posizione di Aristotele che pur pretendono d’interpretare: si sbagliano perché leggono i testi del Filosofo con gli occhiali di Averroè, e Averroè «non fu un vero aristotelico ma piuttosto un corruttore della filosofia di Aristotele»[19]. Un’altra tesi averroistica, connessa alla precedente (anzi posta a suo fondamento per scansare le censure ecclesiastiche) era la teoria della “doppia verità”, ossia che qualche cosa può esser vero in filosofia e condannato invece dalla fede e dalla teologia: una teoria che dilagò nella cristianità medioevale (Marsilio di Padova) e giunse fino al Rinascimento (Pietro Pomponazzi) e fu espressamente condannata dal Concilio ecumenico Lateranense V sotto Leone X, nel 1513. Tommaso nei primi tre capitoli contesta l’interpretazione soprattutto dei libri secondo e terzo del trattato aristotelico Sull’anima. Il primo passo è l’integrazione della prima definizione dell’anima («atto primo del corpo organico») con la seconda («principio con il quale vegetiamo, sentiamo, intendiamo e ci muoviamo localmente»), per poi concludere che anche l’intendere (e il volere, di conseguenza) è per Aristotele operazione dell’unica identica anima dell’uomo. Ma, a differenza dei sensi, che operano mediante l’organo, l’intelletto non ha organo: Aristotele lo dice «separato», che vuol dire “indipendente dalla materia” (e non sostanza al di fuori del corpo, come pretendevano gli averroisti); di conseguenza, pur essendo forma sostanziale del corpo, l’anima intellettiva non proviene dal corpo ma «dal di fuori», ossia è creata. Sul piano strettamente filosofico dei testi e dei contesti si può certamente convenire con questa esegesi di Aristotele da parte di Tommaso (salvo la conclusione “creazionistica”, che non è di Aristotele ma della filosofia cristiana). La dimostrazione sul piano metafisico si trova nel capitolo III, dedicato all’intelletto possibile, che Averroè vede protagonista solitario dell’intendere e che funzionerebbe mediante i dati sensibili propri di ciascuno; ma a questo modo il soggetto del pensare svanisce, ed evidentemente un “soggetto impersonale” è una contraddizione, è la negazione della stessa coscienza umana, e l’Aquinate ha buon gioco ricordando ad Averroè e ai suoi seguaci che è il “singolo” (per usare il termine kierkegaardiano) che pensa. Inoltre la forma sostanziale, essendo principio dell’essere, lo è anche dell’agire, e così l’anima deve essere principio anche dell’intendere che è l’operazione propria dell’uomo. L’Aquinate aggiunge che la posizione averroistica coinvolge l’intero ordine morale poiché all’intelletto unico separato seguirebbe anche una volontà unica separata e così l’uomo singolo non sarebbe più responsabile dei propri atti e svanirebbe ogni distinzione fra il bene e il male. Il capitolo IV ritorna, approfondendole, sulle implicazioni personalistiche e morali dell’esperienza indubitabile (il senso comune) per la quale siamo certi che chi pensa è il singolo uomo, e conclude che la posizione averroistica è in «in contrasto con i fatti osservabili, distrugge tutta la coscienza morale e quanto appartiene al consorzio civile, che per gli uomini è naturale, come dice Aristotele»[20]. Tommaso è chiaramente mosso dalla passione per la verità che deve orientare l’agire. La questione tocca direttamente il modo di intendere la personalità umana e la sua vita intellettiva; la tesi averroistica compromette la causa per la quale Tommaso, insieme al suo grande maestro Alberto, lotta dall’inizio del suo insegnamento a Parigi: l’appropriazione cristiana dell’aristotelismo[21]. L’interpretazione averroistica dell’intelletto, chiaramente incompatibile con la fede cattolica, era una grave minaccia contro le posizioni di un teologo che ha scelto anche la via aristotelica. La reazione di Tommaso è stata adegua alla profondità delle sue scelte dottrinali.
NOTE
[9] Sulla biografia di Tommaso i dati più sicuri e aggiornati si trovano nell’opera accuratissima di Jean-Pierre Torrell, Initiation à Saint Thomas d’Aquin, Ed. du Cerf, Parigi 1996.
[10] Tommaso d’Aquino, Contra retrahentes a Dei cultu et religione, 9, n. 803.
[11] Tolomeo da Lucca, Historia ecclesiastica, trad. it., Ed. Mondadori, Milano 1960, p. 1152.
[12] Come si sa, furono denominate “corpus dionysianum”, nel Medioevo, le opere dello Pseudo Dionigi, l’anonimo neoplatonico del V secolo dopo Cristo, ritenuto dai medioevali, quel Dionigi filosofo ateniese, convertitosi dopo l’incontro con Paolo all’Areopago di Atene.
[13] Cfr In I librum “Sententiarum”, d. 8, q. 4, a. 2; d. 25, q. 1, a. 4. Si veda in proposito quanto afferma Étienne Gilson in Introduction à la philosophie chrétienne, Ed. Vrin, Parigi 1960, pp. 99-100; si veda anche: Antonio Livi, Tommaso d’Aquino. Il futuro del peensiero cristiano,Mondadori, Milano 1997.
[14] Si vedano le osservazioni di Étienne Gilson, Avicenne en Occident au Moyen-Âge, in “Archives d’Histoire doctrinale et littéraire di Moyen-Âge”, 1969, p. 108.
[15] Tommaso d’Aquino, De regimine principum, 1, 8-10.
[16] Guglielmo di Tocco, Vita Sancti Thomae, 6, 51: ed. Dominicus Prümmer, Ed. Herder, St.-Maximin 1924, p. 123.
[17] Cfr Concilio Vaticano II, decreto Presbyterorum ordinis, n. 16; dichiarazione Gravissimum educationis, n. 10.
[18] Consultare in merito il Dizionario storico della filosofia, cit.
[19] Tommaso d’Aquino, De unitate intellectus, 4.
[20] Aristotele, qui citato da Tommaso, parla della società civile come fatto naturale in Politica, I, 1.
[21] Tommaso d’Aquino, In II librum Sententiarum Petri Lombardi, d. 10, q. 1, a. 2, scrive: «Ab eis [philosophis] ea quae contra fidem non sunt accipiamus, aliis resecatis [ = di filosofi pagani dobbiamo prendere quello che non va contro la fede, eliminando invece tutto il resto]».