Di Antonio Livi. Tratto da “Dal senso comune alla dialettica. Una storia
della filosofia”, Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2004-2005. Capitolo
Settimo. FILOSOFIA CRISTIANA, MUSULMANA ED EBRAICA DAGLI INIZI DEL MEDIOEVO AL SECOLO XII. PREMESSE. 1. Lo Pseudo-Dionigi. Areopagita. 2. La prima Scolastica. Le
“scuole” medioevali. Giovanni Scoto Eriugena .
PREMESSE
La filosofia, nel periodo che va dalla caduta dell’Impero romano di Occidente (sec. VI) alla fine del XII secolo, è caratterizzata dalla definitiva scomparsa del pensiero pagano (politeista) e dall’egemonia culturale del pensiero teologico, caratterizzato dal monoteismo e dalla rivelazione biblica; sia il monoteismo che la rivelazione biblica sono infatti elementi dottrinali comuni al cristianesimo, all’ebraismo, e all’Islam, ossia alle tre grandi religioni che dominano la scena culturale e civile dell’Europa, del Nord-Africa e del Vicino Oriente nei sei secoli che abbiamo indicato. La filosofia di questo periodo è tutta in rapporto alla civiltà religiosa e alla supremazia culturale della teologia, sia pure con varie vicende di confronti dialettici e di diverse accentuazioni: e ciò vale sia per i regni romano-barbarici e per l’Impero d’Oriente (ufficialmente cristiani, ma con minoranze ebraiche al loro interno) che per le zone che dal sec. VII in poi cadono sotto la dominazione araba (e pertanto sotto il potere politico-religioso dell’Islam), ossia tutto il Nord dell’Africa, la Spagna, la Sicilia, i Balcani. Si tratta insomma di un periodo storico di notevolissima lunghezza, caratterizzata da un’unità culturale straordinaria, al di sopra delle naturali e mai sopprimibili differenze e tensioni e dei sanguinosi contrasti di interesse politico. Questa prima parte del cosiddetto “Medioevo” (che sarebbe “l’epoca di mezzo” tra l’antichità e la modernità) è effettivamente un segmento della storia della civiltà mediterranea con una sua caratteristica unitaria, che giustifica ampiamente la periodizzazione storiografica tradizionale.
L’unitarietà del periodo, ripetiamo, è determinata dal ruolo fondamentale svolto dalle tre grandi religioni monoteistiche, nonché dalla loro interdipendenza essenziale, che va molto più in là della loro evidente affinità esteriore. Ciò interessa direttamente la filosofia, perché queste tre religioni hanno in comune soprattutto la dottrina, ossia l’elemento dogmatico, proveniente dalla rivelazione divina (trascendenza) mediante l’ispirazione dei Libri Sacri (scritturalità); ciò comporta necessariamente lo studio della dottrina, l’interpretazione dei sacri Testi, la teologia insomma, e con essa inevitablmente la filosofia (anche quando la filosofia è ufficialmente bandita). In effetti, il segno più vivo che unisce tra loro le tre grandi religioni è quello della “Scrittura Sacra”: ognuna di queste tre confessioni di fede ha alla base un libro sacro, considerato come rivelazione divina. Ma la cosa straordinaria è che questi tre libri sono intimamente intrecciati tra loro, nel senso che la Bibbia cristiana comprende, con il nome di “Antico Testamento”, quello che per gli Ebrei è il libro Sacro: esso è costituito dalla Torah (= Legge), dai Profeti anteriori (i libri storici) e posteriori (i libri profetici propriamente detti) e dagli Scritti (i libri sapienziali), per un totale di 305.441 parole. In particolare la Torah, cioè il Pentateuco, costituisce ancora oggi il cuore della meditazione di ogni sinagoga. Per i musulmani il libro rivelato è il Corano o, come recita una parte del lungo titolo arabo completo: al-Quranu wahuwa’ l-huda wal-furqanu (cioè “la Lettura che guida [nel retto cammino] e che distingue [il bene dal male]”). Esso si articola in 114 sure (= capitoli) e dipende culturalmente e religiosamente dall’Antico e dal Nuovo Testamento. Il legame con la Bibbia può essere attestato con grande facilità. In modo particolare nella sura XXIX, dove (rivolgendosi ai cristiani ed ebrei, chiamati «gente del Libro») si afferma: «Con la gente del Libro non disputate che nel modo migliore, anche se alcuni di loro sono iniqui, e dite: “Noi crediamo a ciò che è stato rivelato a noi e a ciò che è stato rivelato a voi. Il nostro Dio e il vostro Dio non sono che un Dio solo, e a lui noi tutti ci sottomettiamo”».
Se a questo aggiungiamo la circostanza storica rilevantissima di una comune attenzione alla filosofia greca classica e tardo-antica, il quadro culturale del Medioevo appare, come veramente è, straordinariamente unitario. Infatti, sia gli ebrei e i cristiani (come abbiamo visto in precedenza a proposito di Filone di Alessandria e di Agostino), sia i musulmani (come ora vedremo) hanno voluto elaborare una teologia, e per questo si sono serviti della sapienza pagana. E così Platone, Aristotele e i neoplatonici sono maestri di logica e di metafisica (talvolta anche di etica) per tutti i teologi delle tre religioni monoteistiche.
1. Lo Pseudo-Dionigi Areopagita.
L’autore che più concorre a determinare il passaggio dalla filosofia ellenistica e patristica alla filosofia del Medioevo è uno sconosciuto pensatore, che nei suoi scritti si presenta come Dionigi l’Areopagita ed effettivamente per secoli è stato identificato con quel Dionigi, filosofo greco dell’Areopago di Atene, convertitosi al cristianesimo a séguito della predicazione di san Paolo agli Ateniesi, narrata dal libro degli Atti degli Apostoli (17, 34). Ma lo stile e i contenuti degli scritti di questo Pseudo-Dionigi portano a escludere senz’altro che egli sia un autore del I secolo d. Cr., di scuola stoica o epicurea; piuttosto sembra essere un autore cristiano del V o VI secolo, chiaramente inquadrabile nella tradizione neoplatonica, che come abbiamo visto ha inizio nel IV secolo; in particolare, sembra non esservi dubbio che sia il neolatonico pagano Proclo il diretto ispiratore del sistema teologico dello Pseudo-Dionigi (come si ricorderà, Proclo visse tra il 410 e il 485 d. Cr.), dato che nelle sue opere si rintracciano evidenti derivazioni dalla Teologia platonica, che è appunto un’opera di Proclo. Le opere di questo teologo cristiano costituiscono il cosiddetto corpus Dionysianum o Areopagiticum; esse sono: I nomi divini, la Teologia mistica, la Gerarchia celeste e la Gerarchia ecclesiastica; mentre quest’ultima opera è di carattere esclusivamente teologico (tratta della struttura della Chiesa), le altre hanno anche un grande interesse filosofico, sia perché testimoniano la vitalità del pensiero neoplatonico, sia perché hanno un grande influsso in tutto il Medioevo, dalle origini fino all’apogeo della Scolastica. La lingua in cui si esprime lo Pseudo-Dionigi è il greco; l’influsso di questo autore nel Medioevo latino, fino a san Tommaso d’Aquino, comincia quando le sue opere vengono tradotte in latino da Scoto Eriugena (di cui parleremo nel par. 2).
Da Proclo, come abbiamo accennato, lo Pseudo-Dionigi mutua alcune importanti categorie filosofiche, tra le quali quello che per lui è il principio fondamentale per dare una struttura organica alla realtà, il principio della Triade. Inserendo le verità cristiane nella visione del mondo propria del neoplatonismo, l’Areopagita dà vita a quel singolare esemplare di neoplatonismo cristiano che è il suo sistema di pensiero. Due sono i grandi temi della speculazione areopagitica: Dio e l’universo; Dio è visto come il grande sole che irradia la sua luce generosa ed efficace sull’universo, mentre questo è inteso come il vastissimo specchio che riflette la luce di Dio e riproduce i suoi attributi. Nella filosofia dionisiana tutto è saldamente unito, perché tutto vi è collegato attraverso il triplice anello della gerarchia (triade): tutto procede da Dio, tutto ritorna a Dio e tutto permane in Dio.
Nelle sue opere lo Pseudo-Dionigi riserva speciale attenzione ai problemi della conoscenza di Dio e del linguaggio teologico, distinguendo tre forme di conoscenza (e di linguaggio) su Dio: la forma positiva, quella negativa e quella eminenziale. Egli mette fortemente l’accento sulla seconda, detta apofatica (è l’argomento della Teologia mistica), mentre la prima (illustrata nel trattato sui Nomi divini) viene denominata catafatica. Tommaso accetterà queste distinzioni, e anch’egli sosterrà che di Dio sappiamo con assoluta certezza (già con il senso comune) che esiste, mentre non possiamo concepire la sua essenza, perché trascende totalmente la nostra capacità di pensare: resta quindi il silenzio (forma “apofatica”) oppure l’attribuzione a Dio delle perfezioni entitative che rileviamo nella creazione, elevandole al massimo (froma “eminenziale”).
2. La prima Scolastica.
Nel sec. VI, Marziano Capella, retore africano contemporaneo di Boezio, nella sua opera De nuptiis Mercurii et philologiae (ispirata nello stile allo scrittore africano Apuleio) aveva enumerato sette arti liberali: grammatica, retorica, dialettica (che in séguito saranno chiamate «trivio» o artes triviales); geometria, aritmetica, astronomia e musica («quadrivio» o artes quadriviales). Tale opera, insieme a quelle di Cassiodoro, già ricordate, a quella di sant’Isidoro vescovo di Siviglia (le Etimologiae) e a quella di san Beda Venerabile in Inghilterra (grammatica, retorica e astronomia), entrambe del sec. VI, costituiscono un filo metodologico che riallaccia gli studiosi dei secoli successivi al patrimonio classico e cristiano. In séguito, delle sette arti, la dialettica tiene il posto più importante, poiché si rivela uno strumento indispensabile per l’intelligenza della religione e per la giustificazione razionale delle verità e dei misteri della fede. Oltre a queste opere didattiche, le fonti della nascente Scolastica sono le opere di Boezio (trattati teologici, commenti e traduzioni degli autori greci e latini) e le opere dei Padri, specialmente Agostino e lo Pseudo-Dionigi. Intanto nei secoli VII e VIII le invasioni barbariche si succedono ed imperversano sempre più devastatrici della cultura e di ogni residuo di scuola; questa però rigermoglia, con strutture proprie, nei monasteri (scuole monastiche), nelle sedi dei vescovi (scuole episcopali o cattedrali) e, più tardi, nei palazzi imperiali (scuole palatine). I maestri che vi insegnano, in massima parte religiosi, sono chiamati «scolastici» e le discipline d’insegnamento, cioè il trivio e il quadrivio, a carattere eminentemente religioso, sono dette «scolastiche».
Le “scuole” medioevali
Nel VII secolo l’Islam inizia la sua rapida espansione politico-militare nel bacino del Mediterraneo: nel 635 viene conquistata la Siria (già provincia dell’impero romano ricca di cultura ellenistica) e in quella regione gli intellettuali musulmani prendono conoscenza delle opere di Aristotele; nel 642 è l’Egitto a cadere sotto la dominazione islamica, e pochi anni dopo gli Arabi arrivano a Tripoli. L’Italia del VII secolo è dominata dai Longobardi e in Spagna si impone il regno dei Visigoti. Nel frattempo Papa Gregorio promuove la predicazione cristiana in Britannia, dove inizia il monaco Agostino il quale diverrà poi vescovo di Canterbury. E sia in Inghilterra che in Scozia nascono monasteri che non tardano a diventare centri di cultura. La civiltà della Bretagna conquistata da Cesare non esisteva più, e al suo posto nasceva una nuova civiltà portata nelle isole dai monaci benedettini; tale fu la fioritura anche intellettuale delle scuole religiose nate all’interno dei grandi monasteri di Scozia e d’Inghilterra, che la cosiddetta “rinascenza carolingia” del secolo IX si avvarrà, come vedremo tra breve, della presenza attiva dei monaci britannici (come Alcuino) presso la corte di Carlo Magno ad Aquisgrana, e da questa presenza nascerà una figura di tanto rilievo storico quale fu Giovanni Scoto Eriugena (cfr par. 2).
All’inizio del sec. IX, con l’avvenuto predominio dei Franchi in Europa, Carlo Magno, spronato e aiutato dalla Chiesa, tenta di ricostituire l’Impero romano d’Occidente con il nome di “Sacro Romano Impero”, e tale tentativo ottiene notevoli risultati, tra i quali una forte ripresa della cultura letteraria, storica e filosofica, che viene comunemente chiamata «Rinascenza carolingia». Principale artefice di tale rinascita è il monaco irlandese Alcuino (seconda metà del sec. VIII), il quale per mandato di Carlo Magno organizza la scuola palatina, tracciando con le sue opere il programma d’insegnamento, ispirato alla cultura classica e cristiana. L’importanza di Alcuino consiste appunto nell’opera organizzativa della cultura in Francia e in Europa, sulle tracce di Cicerone, sant’Agostino, Boezio, Cassiodoro e Marziano Capella. Tra le sue opere infatti troviamo sette trattatelli che analizzano e sviluppano le sette arti liberali, già trattate da Marziano Capella. Continuatore dell’opera di Alcuino è Rabano Mauro (abate del monastero di Fulda e poi arcivescovo di Magonza), il quale introdusse nelle scholae le dispute teologiche intorno alle questioni più ardue della fede. In tali dispute si distingue Giovanni Scoto Eriugena, che possiamo considerare il primo notevole pensatore della nascente Scolastica.
Giovanni Scoto Eriugena
Giovanni, detto “Eriugena” o anche “Scoto” (rispettivamente da Erin e da Scotia Maior, nomi con cui veniva chiamata l’Irlanda), nacque in Irlanda nella prima metà del sec. IX e svolse la sua attività in Francia, presso la corte di Carlo il Calvo; morì alla fine dello stesso secolo. Scrisse il De praedestinatione per confutare gli errori di Gotescalco, che affermava un determinismo teologico secondo cui l’umanità sarebbe divisa in due gruppi, quello dei predestinati alla salvezza e quello dei predestinati alla perdizione. Scoto rivendica la libertà e bontà della natura umana, cadendo però nell’eccesso opposto, fino a negare l’esistenza dell’inferno; perciò questa sua opera fu condannata dalla Chiesa come eterodosssa.
Di grande importanza filosofica e teologica è il suo dialogo in cinque libri, dal titolo De divisione naturae (“I diversi aspetti della natura”), ove l’Eriugena espone il suo pensiero filosofico e teologico, in cui confluiscono motivi neoplatonici, agostiniani, boeziani e patristici, specialmente la teologia dello Pseudo-Dionigi (di cui tradusse in latino le opere) e di Massimo il Confessore (esponente della Patristica greca del IV secolo); tale opera fu condannata dalla Chiesa quattro secoli dopo (1225), perché si presta a una errata visione monistico-panteistica della realtà. La realtà, per Scoto Eriugena, è la Natura, intesa come causa ed effetto sia dello spirito che del cosmo; il mondo dello spirito (gli angeli e le anime), e il mondo della materia (il cosmo), non sono vere e proprie realtà a sé stanti; non hanno cioè un essere proprio e autonomo, ma esistono in quanto Dio li ha creati e continuamente li provvede. Sicché la realtà, intesa nel significato di causa necessaria di principio e fine, non può essere altro che una Natura creante, cioè Dio. Dio però non si può conoscere nella sua essenza intima, anzi non si può neppure dire che Egli abbia un’essenza; si tratta dell’Essere, cioè della Natura «super-essentialis», di cui si può avere nozione solo attraverso l’opera della sua creazione. Infatti, per Scoto Eriugena la creazione è immagine di Dio: essa è una manifestazione, figura e forma visibile e intelligibile della natura invisibile e inintelligibile di Dio. Ne consegue che la realtà, cioè la Natura-Dio (causa creante) e l’universo sia spirituale che materiale (effetto creato), può essere distinta in quattro gradi, e cioè:
a) la «natura non creata e creante», che è Dio;
b) la «natura creata e creante», consistente nel complesso delle idee che Dio crea, costituenti le «causae primordiales», cioè i primi esemplari, le prime immagini della Sua superessenza;
c) la «natura creata e non creante», che è la materia, creata ed esistente nella spazialità cosmica e nella contingenza temporale;
d) la «natura non creata e non creante», identica alla prima, in quanto è Dio stesso, inteso come fine a cui tutto spontaneamente tende, quale ritorno della natura creata alla Natura-causa da cui deriva.
L’uomo, per Scoto Eriugena, è centro del creato, contiene tutti gli elementi dell’universo ed è superiore agli angeli, poiché è dotato di intelletto, di anima e di corpo; egli è il mezzo essenziale con cui Dio si estrinseca, si manifesta e si conosce. Perciò l’anima fa parte della natura «quae creatur et creat [= che è stata creata ma può a sua volta creare]»; è creatura divina, libera, spirituale e immortale; può considerarsi, in modo eminente, immagine di Dio («imago Dei»). Essa infatti è «mens» che intuisce il mondo dello spirito; è «ratio» che giudica il mondo della materia; è «sensus interior» che può abbracciare e possedere la scienza della Realtà-Natura-Dio, secondo i limiti di creatura razionale e libera. L’anima umana dunque, come mente, ragione e senso interiore, è l’immagine più spiccata della Trinità di Dio (analogia agostiniana). Ma l’uomo è anche organismo materiale, nel quale risiede il «sensus exterior», cioè i cinque mezzi necessari per la conoscenza del molteplice cosmico; i sensi infatti ricevono le impressioni degli oggetti esterni; queste impressioni vengono captate dal «sensus interior» e quindi giudicate dalla «ratio», quali aspetti e manifestazioni di una causa creante; tale giudizio viene intuito dalla «mens» che in detta causa adombra Dio, unica realtà causante ogni essere e ogni vita, principio primo e fine ultimo sia dell’esistenza che della felicità. Tutto il processo gnoseologico, per Scoto Eriugena consiste dunque nella conoscenza dell’Universo come effetto creato, molteplice e contingente, di una causa eterna e infinita, unica realtà metafisica, che è Natura, super-essenzialità, Provvidenza, Dio. Per l’evidenza di questo processo è necessaria la logica: per mezzo di essa la ragione umana riconosce Dio come la più concreta e la più reale realtà metafisica, perché è unità dalla quale derivano, come effetto creato, tutte le determinazioni logiche, sia dei generi che delle specie: «L’essenza sussiste – insegna Scoto – tutta insieme, è eternamente e immutabilmente nelle sue divisioni e tutte le sue suddivisioni costituiscono simultaneamente e sempre, in essa, una unità inseparabile».
Conseguentemente a quanto si è detto fin qui, la morale per Eriugena è razionale e libera attività dell’uomo come effetto creato che ritorna alla sua causa creatrice. Ma la libertà può essere attuata anche negativamente; in tal caso si ha il male, che l’uomo si costruisce e dal quale si può liberare, purificando il suo spirito da ogni malvagità soggettiva, giacché oggettivamente non si può parlare del male, in quanto tutto ciò che esiste, in quanto effetto della creazione divina, non può essere che bene ; come si vede, in questo come in tanti altri argomenti l’Eriugena concorda con sant’Agostino. A differenza di sant’Agostino però l’Eriugena confida più nella natura umana che nella grazia; l’uomo è perfetto, anche se decaduto; vive di Dio anche se pecca, poiché è effetto della Natura divina, senza la quale non potrebbe esistere. Certo se l’uomo persiste nel male, che si costruisce con la propria libertà, si danna; ma ciò è male e come tale non può essere oggetto della prescienza divina, in quanto il male, e la conseguente perdizione, sono elementi negativi che non esistono se non soggettivamente come dolore e tenebra, effetto del cattivo uso che l’uomo fa della libertà; Dio infatti possiede la prescienza di ciò che Egli è e di ciò che Egli crea; ora Dio, essendo Bene e creando tutte le cose buone, per Scoto non può avere la prescienza del male e della perdizione. Colpa, male e perdizione sono fatali conseguenze della libera privazione del bene che l’uomo infligge a sé stesso, quando agisce contro la sua divina natura. Con il peccato originale l’uomo perdette lo stato di una felicità ineffabile; con la morte , l’anima rientra parzialmente in possesso di quella felicità, mentre l’organismo corporeo temporaneamente si dissolve nei quattro elementi; ma il corpo risorgerà reintegrandosi all’anima e spiritualizzandosi; allora l’essere umano riacquisterà pienamente la sua primiera felicità che fruirà eternamente contemplandosi unito misticamente a Dio. Unione mistica che non annulla la persona umana (come era per Plotino), ma l’arricchisce e la sublima in una vita potentemente eterna e ineffabile.