Di ANTONIO LIVI. Tratto da “Dal senso comune alla dialettica. Una storia della filosofia” Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2004-2005.
SANT’AGOSTINO E BOEZIO.
Vita e opere di sant’Agostino. La conversione e le prime opere. Ritorno in Africa. Le opere maggiori. La dottrina agostiniana della verità.L’interiorità oggettiva. La verità è Dio. L’antropologia agostiniana. La gnoseologia di Agostino.
La specificità e la positività speculativa della filosofia cristiana, già riscontrabili nei primi filosofi che abbracciarono la fede in Gesù (san Giustino martire, Clemente di Alessandria, Origenei), trova ora una chiara e inconfutabile conferma con l’esposizione del pensiero di sant’Agostino. Come per Giustino, anche per Agostino l’adesione alla fede cristiana è l’esito finale e vittorioso di una sincera e sofferta ricerca filosofica precedente; la fede viene riconosciuta come rivelazione divina di verità inaccessibili (i misteri soprannaturali), ma allo stesso tempo anche come risposta finalmente completa e totalmente appagante agli interrogativi che la filosofia pone, tanto che la filosofia stessa, una volta accolta la fede, non muore ma rivive e assurge a vette speculative mai prima intraviste. Vedremo infatti come nell’Agostino cristiano alcuni temi fondamentali della speculazione greca ed ellenistica siano affrontati con spirito nuovo e portati a soluzioni nuovissime: anzitutto la nozione di Dio, poi l’antropologia (specie per quanto riguarda la libertà di fronte al bene e al male) e infine la filosofia della storia (arricchita dalla soluzione originale del problema del male e dalla prospettiva escatologica che dà senso alle vicende della città terrena).
1. Vita e opere di sant’Agostino.
Aurelio Agostino nacque nel 354 a Tagaste, nell’Africa settentrionale (Numidia), da madre cristiana (Monica) e da padre pagano (Patrizio) che poi si convertì al cristianesimo, ma seguì la setta donatista. Nel paese natio compì i primi studi e fu catecumeno , quindi andò a studiare retorica a Madaura con molto profitto nello studio dei classici latini, mentre nutriva ripugnanza per la lingua greca; tuttavia lesse e comprese da sé il libro delle Categorie di Aristotele. Compiuti gli studi retorici ritornò a Tagaste, essendo i genitori privi di mezzi per mantenerlo agli studi; intervenne allora un facoltoso amico di famiglia, Romaniano, per la cui liberalità, nel 370, Agostino poté recarsi a Cartagine. Ove, oltre a perfezionarsi negli studi, condusse una vita dissoluta, si iscrisse alla setta dei manichei , e si unì a una popolana, con cui per circa dieci anni di seguito convisse, e dalla quale ebbe un figliolo, Adeodato, che in seguito Agostino seppe educare alla rettitudine morale e alla ricerca di Dio. Lesse in questo periodo (aveva 18 anni) l’Ortensio di Cicerone; da questa lettura nacque in lui la vocazione alla filosofia.
Dalla setta manichea allo scetticismo
Compiuti gli studi, ritornò a Tagaste come propagandista del manicheismo e, nella sua casa, tenne lezioni di studi retorici e religiosi tra amici manichei, con disapprovazione e dolore della madre. Presto però fece ritorno a Cartagine, ove iniziò la carriera di docente; è di questo periodo (380) la sua prima opera, De pulchro et apto, andata perduta. Intanto cominciava a vacillare la sua fede manichea, e attendeva la venuta da Roma di un certo Fausto, vescovo e capo della setta dei manichei, per essere illuminato intorno a molti dubbi che lo tormentavano. Dal questo incontro Agostino riportò delusione e disgusto; nel 383 partì per Roma; anche la città eterna deluse le sue speranze di gloria e di guadagni, e acuì il lui la tendenza allo scetticismo. Lasciò subito Roma per recarsi a Milano, ove per interessamento del prefetto Simmaco ottenne la cattedra di retorica, in quel tempo vacante. A Milano, ove lo raggiunsero gli amici d’Africa e la madre, Agostino cominciò a sentire dentro di sé che non erano gli onori, le ricchezze e la gloria ancora da raggiungere il motivo del suo tormento e della sua irrequietezza.
La lettura dei pensatori neoplatonici (Plotino) e l’ardente parola di sant’Ambrogio, vescovo di quella città, furono come due molle che lo scossero dallo scetticismo e dal dubbio circa l’origine del male e la spiritualità di Dio. Mentre un giorno meditava intorno a questi problemi, Agostino – secondo quanto egli stesso racconta – udì una voce misteriosa che gli comandava: «Prendi e leggi»; fatti pochi passi, aprì le lettere di san Paolo e lesse queste parole: «Non nelle crapule e nell’ebbrezze, non negli amplessi e nelle impudicizie, non nelle contese e nelle invidie, ma rivestitevi del Signore Gesù Cristo, né assecondate la carne nelle sue concupiscenze» (Lettera ai Romani, 13, 13s.).
La conversione e le prime opere
Questo episodio lo colpì profondamente; profittando del periodo delle vacanze, si ritirò nella villa di un suo amico a Cassiciaco (Cassago di Brianza), dedicandosi alla preghiera e allo studio delle Scritture. In questo periodo scrisse quattro dialoghi: Contra Academicos, in tre libri (in cui confuta lo scetticismo di Carneade, che Agostino conosceva dalle opere di Cicerone); De vita beata, di carattere morale, De ordine, in due libri (ove dimostra come il mondo sia disposto dalla provvidenza di Dio «in ordine, pondere et mensura»); i Soliloquia, in due libri (trattando il problema di Dio e dell’anima). Con l’inizio dell’anno scolastico, rassegnò le dimissioni da docente, e nell’aprile del 387 fu battezzato da sant’Ambrogio a Milano. Qui scrisse il De immortalitate animae; nell’autunno dello stesso anno decise di partire per l’Africa, ma a Ostia morì la madre Monica, alle cui preghiere e sofferenze Agostino doveva la conversione. Per questa circostanza luttuosa, Agostino si trattenne a Roma per circa un anno, svolgendo una feconda attività di pensatore e di apologeta; di questo anno infatti è l’opera De moribus Manichaeorum et de moribus ecclesiae Catholicae e l’inizio di tre opere che ultimerà a Cartagine: De genesi contra Manichaeos, De quantitate animae e De libero arbitrio.
Ritorno in Africa. Le opere maggiori
Nell’autunno del 388 partì per l’Africa, sostò brevemente a Cartagine e si ritirò a Tagaste, ove vendette i suoi beni, ne distribuì ai poveri il ricavato e si dedicò insieme ad alcuni amici a vita di preghiera e di penitenza; il suo fu uno dei primi esempi di vita cenobitica. Qui ultimò le opere che aveva iniziato a Roma, oltre al De musica, di cui aveva scritto i primi cinque libri a Cassiciaco (opera questa che si ricollega al De ordine e tratta il problema dell’arte). In questo periodo gli muore Adeodato, e Agostino scrive un’opera pedagogica in suo onore, il De Magistro.
Da Tagaste si trasferisce a Ippona, ove nel 391 viene ordinato sacerdote; qui intensifica e consolida l’opera di fondatore dell’ordine di monaci che saranno poi chiamati Agostiniani, e scrive la Regula ad servos Dei, mentre dal vescovo ha il mandato di predicare; tale ministero fu da Agostino tutto vòlto a confutare gli eretici , a combattere i pagani e a insegnare agli ignoranti, con la parola e con gli scritti, di cui i più importanti di questo periodo sono: De utilitate credendi, Contra Fortunatum Manichaeum, Contra Adimantum, De sermone Domini in monte, De fide et symbolo, Contra epistulam haeretici.
Fu consacrato vescovo verso il 395 e l’anno dopo fu messo a capo della diocesi di Ippona, essendo morto il vescovo Valerio, di cui Agostino era coadiutore. A Ippona, per circa trent’ anni resse la diocesi con prodigioso zelo apostolico. Tra le opere che scrisse in questo periodo ricordiamo: De doctrina Christiana, De catechizandis rudibus (“Istruzione cristiana per i non intellettuali”) e le Confessiones (in tredici libri), opera che può considerarsi il suo capolavoro, nella quale fede e ragione (filosofia e teologia, santità e scienza) sono fuse e sublimate, con tutta la genesi interiore e autobiografica di tale sublimazione. Diresse e sostenne l’opera di quattro concili particolari, tre in Cartagine (403, 411, 418) e uno a Milevi (416), riportando completa vittoria alla Chiesa contro le eresie e gli scismi africani, scrivendo inoltre molte opere, di cui ricordiamo De unitate Ecclesiae e De vera religione.
Nel 410 i Goti guidati da Alarico devastavano Roma, mentre dai pagani si accusava il cristianesimo quale causa di tanta sventura per l’impero; in questa occasione Agostino scrisse il De civitate Dei (“La citta di Dio”), opera critica in 12 libri, che si rivela uno dei testi più illuminati e più profondi del pensiero storico-politico. Si impegnò inoltre a confutare le eresie di Ario e di Pelagio. Di quest’ultimo periodo sono le opere De natura et gratia contra Pelagium, De perfectione iustitiae hominis contra Celestii definitiones seu ratiocinationes, De gestis Pelagii; scrisse inoltre, contro i Semipelagiani gallici e contro gli Ariani: De praedestinatione sanctorum, De dono perseverantiae, Contra Maximinum Arianorum episcopum e altre opere, ultima delle quali le Retractationes (opera critica, di revisione intorno ai suoi scritti).
Intanto i Vandali, guidati da Genserico, invadevano le coste africane, distruggevano le chiese e sterminavano i cristiani. Ippona era assediata, quando Agostino, già vecchio e amareggiato, il 28 agosto del 430 rese lo spirito a Dio.
2. La dottrina agostiniana della verità
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Il pensiero metafisico di sant’Agostino costituisce uno sviluppo originale, e quindi un superamento, della metafisica di Platone, per il metodo personalistico con cui sono criticamente accertati i valori della trascendenza di Dio e dell’ordine creato. La filosofia per Agostino è ricerca incessante, tensione naturale e spesso sofferta per la conquista della verità trascendente, che si esprime nel valore universale dei principi metafisici e giunge a intuire la sua origine nell’eterno pensiero di Dio. Non si tratta di uno psicologismo soggettivistico, ma di un processo vitale con cui lo spirito, oltre a conoscere sé stesso (come Socrate aveva insegnato), deve trascendersi, per intuire concretamente il valore assoluto della verità universale ed eterna che apre alla conoscenza di Dio.
L’interiorità oggettiva
Il problema metafisico – come concepire l’essere in sé stesso, cioè la realtà concreta e assoluta sia di me stesso che delle cose che mi circondano – non avrebbe, secondo Agostino, una soluzione possibile se i princìpi fossero ricercati fuori dell’io. Non fuori di me, ma nell’interiorità del mio spirito debbo cercare la soluzione di questo problema: «Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas; et si tuam naturam mutabilem inveneris, transcende et te ipsum [= Non uscire fuori, rientra in te stesso: la verità abita nell’intimo dell’uomo. E se poi scopri che la tua natura è mutevole, pensa a ciò che ti trascende]» (De vera religione, I, 2, 3). Nella mia esistenza, il mondo della materia appartiene alla sfera di una mutevolezza spontanea e inconsapevole; ma non per questo la materia è un male (contro i neoplatonici, gli gnostici e i manichei); gli esseri materiali in quanto esseri sono buoni; l’ente – qualsiasi ente, anche il più spregevole ai nostri occhi – per il fatto che è, è buono, poiché l’esistenza è già un bene, anzi un bene fondamentale. Ma la loro bontà è limitata dalla loro mutabilità, e questa dalla loro pochezza di essere, cioè dal loro carattere “partecipato”. È necessario trascendere il mondo della materia , dunque: non perché essa – come diceva Plotino – sia tenebra e male, ma perché è contingente ed incosciente; solo l’anima umana, ritornando in sé stessa, può averne coscienza. In tal modo, nessuna cosa può avere valore metafisico se non «sub specie aeternitatis»; perciò il tempo , che per Aristotele era misura e numerazione del movimento secondo il «prima» e il «dopo», per Agostino non può avere alcun valore oggettivo. Il tempo può essere considerato come un valore spirituale, in quanto immagine della eternità, così come l’anima è immagine di Dio. Infatti il tempo esiste come un valore presente alla coscienza, in quanto il passato è presente all’anima come ricordo, il futuro come attesa, e il presente come unione logico-vitale sia del ricordo che della attesa; in tal modo il tempo è considerato da Agostino come una categoria che l’uomo scopre nel suo spirito, intesa come «distensio animae».
Per risolvere l’istanza metafisica della verità assoluta, dunque, oltre al mondo esterno si deve trascendere anche l’organismo sensoriale, per giungere nell’intimità dell’io. Ma neppure in questo si trova la soluzione del problema metafisico, poiché io, quando mi sono immedesimato nella mia interiorità spirituale, sento l’istanza di capire più acuta, l’esigenza della piena verità più bruciante. Allora una fiaccola si accende nel mio spirito che mi rivela e mi illumina un sentiero, col quale trascendo il mio stesso io-spirito, collegandomi alla causa di esso, alla verità del mio io da essa effettuato. Si giunge così alla verità metafisica, alla filosofia come sapienza della verità assoluta, cioè scienza di Dio Verità, Causa, Essere, Realtà assoluta, universale, eterna: «Deum et animam scire cupio [ = Quello che voglio conoscere è Dio, tramite la mia anima]».
La verità è Dio
Sicché Dio, fonte vera dell’essere degli enti, è la Verità assoluta, il centro irradiante di tutte le verità relative, di tutti gli aspetti parziali del mondo dell’essere, del conoscere e dell’agire. E noi sappiamo che Dio esiste, perché sappiamo che esiste la verità assoluta; questa non può essere il risultato di uno schematismo astratto, fuori dell’attività dell’io, scoperto attraverso formule logico-matematiche; né, d’altra parte, può essere considerata una creazione psicologica: l’io, quale effetto spirituale, intuisce Dio come sua causa e come fondamento della sua verità, quindi liberamente e naturalmente vi tende, mentre da essa è illuminato e fecondato.
A questo punto, il sistema agostiniano all’indagine critica unisce la Rivelazione, alla ragione la fede nella parola di Dio, l’una e l’altra metafisicamente connesse. Richiamandosi alla Scrittura, ove è scritto «Nisi credideritis non intelligetis» (Isaia, 7, 3), Agostino enuncia dottrinalmente i rapporti che intercorrono tra la ragione e la fede, sintetizzandoli nell’asserto: «Credo ut intelligam, intelligo ut credam»; ragione e fede sono celebrate come valori fondamentali e concomitanti, che si condizionano vicendevolmente nel processo interiore, per la conquista della Verità a cui lo spirito continuamente e liberamente tende: «Tempore auctoritas, re autem ratio prior est… Ergo intellige ut credas, crede ut intelligas [ = Dal punto di vista cronologico viene prima l’autorità, ma dal punto di vista reale viene prima la ragione; tu devi dunque capire per poter poi credere, e devi credere per poter poi capire]». Tale tendenza però sarebbe vana per l’uomo se Dio, oltre a crearlo intelligente e libero, non lo avesse rigenerato per mezzo della Redenzione del suo Verbo e della santificazione del suo Spirito, elevandolo dalla natura umana a quella divina. Da qui abbiamo la visione della metafisica cristiana (di cui si è parlato a proposito della filosofia del cristianesimo), che per Agostino è frutto di un dialogo interiore dell’anima con Dio, quale Verità assoluta, che dal nulla ha creato il mondo della contingenza.
L’antropologia agostiniana
A differenza del dualismo platonico, l’uomo per Agostino è un composto inscindibile di due elementi necessari; il corpo e l’anima . L’uomo «non è solo corpo o anima – insegna Agostino – ma è l’essere che si compone di anima e di corpo. L’anima non è tutto l’uomo, ma la parte superiore di lui; così il corpo non è tutto l’uomo, ma la parte inferiore. Quando l’anima e il corpo sono uniti si chiamano uomo, nome che non perdono anche quando si parla di essi separatamente».
Il corpo è l’elemento inferiore ma necessario, creato da Dio per mezzo della riproduzione materiale, e da solo non potrebbe esistere. L’anima è l’elemento superiore coessenziale del costitutivo umano; è di natura spirituale, è creata da Dio, ma eredita misteriosamente il peso del peccato del primo uomo; questa posizione teologica non può certo confondersi col “traducianesimo” materialistico di Tertulliano (secondo il quale l’anima si trasmetterebbe di padre in figlio, analogamente al corpo). Per Agostino l’anima è creata da Dio. Per spiegare poi la triste eredità della colpa d’origine, Agostino pensa che Dio crei le anime non dal nulla, come fece con le anime dei progenitori, ma dalla essenza spirituale e decaduta di quelli.
L’anima dunque è spirituale, attività vitale diffusa in tutto il corpo, ma semplice per sua natura, cioè inestesa; è memoria, intesa come presenza di sé stessa nel tempo; è conoscenza della sua natura e del suo esistere, intesi come intelletto , cioè come autocoscienza; è fonte di amore, inteso come volontà , cioè come libero slancio a possedersi per trascendersi e riposare in Dio.
Come si vede, memoria, intelletto e volontà costituiscono l’anima umana, una nella sua essenza, trina nel suo valore, funzione e attività, quale immagine della Trinità . Da ciò risulta l’immortalità dell’anima; mentre il corpo, pur corrompendosi e separandosi dall’anima, è destinato a riunirvisi nel giudizio finale, per godere l’eterna felicità o soffrire l’eterna pena.
Conseguentemente a quanto si è esposto, la conoscenza per sant’Agostino è processo di interiorizzazione da parte dell’io-spirito; questo io è principio necessario e indiscusso sia della scienza (conoscenza del contingente molteplice, cioè del mondo della materia) che della sapienza (conoscenza delle verità metafisiche, cioè anima e Dio).
Contro il materialismo degli stoici e dell’epicureismo, Agostino nega ai sensi il valore assoluto della conoscenza. Contro lo scetticismo della nuova Accademia, da una parte afferma la validità, particolare e transeunte, dell’attività sensistica, e dall’altro canto rivela l’assurdità del dubbio sistematico, considerandolo un atteggiamento fittizio, perché contrastante con la naturale esigenza conoscitiva di cui la ragione è sostanziata. Il mio organismo, ad esempio, è depresso dal caldo; tale depressione non può essere mera apparenza, ma è il sintomo di una verità particolare che, nella contingenza attuale del suo accadere, costituisce quel motivo stimolante e necessario alla ricerca e al possesso dell’autocoscienza, dalla quale soltanto io posso esprimere il giudizio di caldo. Infatti la pianta o l’animale patiscono il caldo, ma non lo percepiscono, cioè non possono averne coscienza: solo l’uomo sa di soffrire il caldo.
La gnoseologia di Agostino
La sensazione dunque è parte integrante e mezzo necessario della conoscenza, proprio per quell’intimo legame che unisce il corpo all’anima, il senso alla ragione. Ma con questo non si può in alcun modo affermare che l’esperienza si riduca all’attività dei sensi, in quanto solo dalla ragione, solo dall’io-spirito, può scaturire la scienza delle cose umane e la sapienza delle cose di Dio. Per lo scetticismo dei neo-accademici (Carneade) il raggiungimento e il possesso della verità erano una chimera. Certo, il conoscere non è un procedere deterministico o dogmatico; e di ciò sant’Agostino è profondamente convinto, giacché l’itinerario della sua formazione critica costituisce il dramma forse più profondo che abbia potuto tormentare il genio umano attraverso la storia del pensiero. La sospensione del giudizio o dubbio (epoché), se inteso nel suo giusto significato, cioè come atteggiamento della ragione, è connaturata all’intelletto; essa, per Agostino, non può demolire i valori costruttivi della ragione, ma costituisce un mezzo positivo, necessario ed efficace, al processo stesso della conoscenza. Sicché scetticismo e sensismo non trovano posto nell’indagine agostiniana. Di quel caldo che opprime il mio organismo non posso dubitare, così come non posso dubitare del sole che è la causa del caldo; ma potrebbe essere una causa diversa dal sole a cagionarmi quella depressione; in tal caso potrei affermare che il sole non esiste e che i sensi m’ingannano? No, poiché per Agostino il mondo esterno esiste e i sensi non possono mentire. L’errore non dipende dalla sensazione, ma dall’attività del soggetto che nel giudicarla senza il retto criterio può sbagliare.
Ecco quindi la soluzione antiscettica: il dubbio è un atteggiamento interiore dell’io che non può costituire, come volevano i neoaccademici, una norma negativa per la ricerca, con la quale stabilire l’impossibilità di trovare e possedere la verità; il dubbio, per Agostino, è un mezzo sicuro con cui l’io inizia la ricerca e gode il possesso delle prime verità intrinseche alla sua natura; infatti, se dubito vuol dire che ho la certezza di essermi sbagliato e che ho la certezza di essere un soggetto pensante, poiché penso di potermi ingannare; e devo essere un vivente, poiché se non vivessi non potrei pensare né dubitare. Dubito, dunque, perché penso; penso perché vivo; vivo perché sono: «Si enim fallor sum. Nam qui non est, utique nec falli potest, ac per hoc sum si fallor [= Se infatti mi sbaglio, vuol dire che esisto: chi non esiste non può nemmeno sbagliarsi; dunque, siccome mi sbaglio, esisto]».
Da qui Agostino dichiara l’assurdità del dubbio sistematico e afferma la spontaneità del soggetto conoscente; il quale si serve della skepsis (dubbio reale ma momentaneo) come di un mezzo elementare per scoprire in sé e possedere i fondamenti della conoscenza. Perciò il dubbio è possibilità concreta e sostanziale di libertà, per il possesso della verità delle cose, effetto del possesso della verità dell’io, e questa come principio di intuizione logica e di attività etica per la conoscenza e l’amore di Dio, Verità assoluta.
Se io talvolta mi inganno, non vorrei ingannarmi; se erro, non vorrei mai errare: dunque ho conoscenza di essere un ente ragionante che cerca la sua pace nella verità; perciò il dubbio e l’errore devono essere rimossi come ostacoli che mi impediscono di essere non solo quello che ricavo dal dubbio (esistente, vivente, ragionante), ma specialmente quello che realmente sono, cioè una creatura spirituale, libera e immortale, sostanziata di divinità e di eternità. Tutto ciò per Agostino significa che Dio, creando l’uomo, l’ha fornito dell’intelligenza, e in questa ha infuso una luce con la quale può discernere il vero dal falso. In tal modo la verità delle cose non viene creata dall’intelligenza, ma può essere scoperta per mezzo di quella luce divina che «illumina ogni uomo che viene in questo mondo» (Vangelo secondo Giovanni, 1,9).
L’uomo, col lume naturale della sua ragione (che Dio gli ha infuso creandolo), scopre e possiede le verità eterne intorno al suo essere e intorno al mondo, a condizione però che l’uomo vi sia liberamente disposto con l’anima pura e desiderosa di contemplare la Verità assoluta (Dio), principio, causa, luce e fine di tutte le realtà. Tale desiderio è la buona volontà, intesa come purissimo anelito dell’anima, che tende a trascendere sé stessa e il mondo per riposarsi in Dio. L’idea del mio essere, del mio vivere, del mio pensare, le idee del mondo che colgo in me, sono tutte verità eterne che apprendo come raggi proiettati da una fonte luminosa, che si frangono e si riflettono nella mia anima per mezzo della mia intelligenza. Ma questa luce, e la conoscenza che ne deriva, sono opera divina o umana? Sono opera divina e umana insieme: divina, in quanto questa luce è creata e proiettata da Dio; umana, in quanto l’uomo la coglie nel suo io e liberamente si cerca, si trova e si possiede in essa, come carattere e valore della sua natura e della sua personale individualità. Ecco dunque la teoria agostiniana della “illuminazione”; una teoria che si distingue nettamente sia dal sistema di Platone che dal neo-platonismo. Analogie con quei sistemi non mancano, ma ciò che si deve tener presente è la originalità sostanziale del pensiero agostiniano, con cui converge la filosofia nella teologia, intendendo l’una in relazione intima e necessaria con l’altra. E ciò avviene, per Agostino, secondo un processo interiore, con cui viene rivendicato il valore dell’intelligenza e della libertà dell’uomo e, nello stesso tempo, viene rivelato il suo limite, la sua finitezza, la sua degradazione, provocata dalla colpa originale.
Tuttavia l’uomo, interiormente ferito dalla colpa, può superare (se vuole) il limite delle sue debolezze con la grazia della Redenzione, che Dio le offre con una luce soprannaturale. Si tratta di una illuminazione superiore a quella naturale della intelligenza, un dono gratuito, quale frutto della Redenzione attuata e attuante del Verbo di Dio.