Prof. A. Torresani. 24. 4 Sinistra e destra storica – 24. 5 Il trasformismo e la nascita della grande industria – 24. 6 L’attivismo di Crispi e la grande flotta – 24. 7 Cronologia essenziale – 24. 8 Il documento storico – 24. 9 In biblioteca.
24. 4 Sinistra e destra storica
Il 2 ottobre 1870, nel Lazio si svolse il plebiscito: su circa 135.000 votanti, i no all’annessione furono circa 1500. Il 1° novembre 1870, Pio IX emanò l’enciclica Respicientes in cui dichiarava l’occupazione dei domini della Santa Sede “ingiusta, violenta, nulla e invalida”, considerandosi prigioniero dello Stato italiano nel recinto del Vaticano.
Elezioni politiche Nel novembre 1870 ci furono le elezioni generali: su circa mezzo milione di aventi diritto al voto, meno della metà si recarono alle urne. Vi furono numerosi deputati eletti che si dichiararono indipendenti, la destra ebbe qualche seggio in più, mentre ci fu una flessione della sinistra. Come primo ministro fu confermato Giovanni Lanza che presentò tre disegni di legge: accettazione del plebiscito; trasferimento della capitale a Roma; garanzie d’indipendenza al pontefice nell’esercizio della sua funzione.
Le garanzie offerte al papa La discussione della Legge delle Guarentigie iniziò il 9 dicembre 1870 e fu molto vivace: terminò il 13 maggio con la firma del re. Le prerogative principali attribuite al papa erano l’inviolabilità della sua persona; l’attribuzione degli stessi onori tributati a un sovrano; la facoltà di tenere guardie armate; i palazzi del Vaticano, del Laterano, della Cancelleria e la villa di Castelgandolfo con diritto di extraterritorialità; una dotazione annua di 3 milioni di lire (la somma che si trovò iscritta nell’ultimo bilancio del cessato Stato della Chiesa) per il mantenimento dei dipendenti e dei palazzi apostolici; la libertà di comunicazione mediante poste e telegrafo; il diritto di tenere rappresentanti diplomatici. Il papa Pio IX rifiutò di accettare la Legge delle Guarentigie: il motivo del rifiuto va ricercato nel fatto che quella legge era un atto amministrativo dello Stato italiano, senza alcuna garanzia di diritto internazionale. Materialmente la Legge delle Guarentigie era magnanima, ma poteva esser modificata, con decisione unilaterale, al primo cambio di governo.
Un grande trapasso di proprietà Le altre cure del Parlamento furono rivolte al risanamento finanziario e al problema economico. Il Sella così riassunse la politica economica del primo decennio di unità italiana: “Si è fatta una grande disammortizzazione di beni (un termine complicato per dire liberazione dai vincoli di manomorta e da altri vincoli di origine feudale) in questo decennio. Si sono venduti per circa 500 milioni di beni: 57 milioni direttamente dal demanio, 122 dalla Società dei beni demaniali, e a 312 milioni ascendono quelli venduti appartenenti all’asse ecclesiastico, e questa vendita colossale di quasi 500 milioni fu divisa in 81.000 contratti….”. Come ogni rivoluzione, anche quella italiana fu dunque un gigantesco trapasso di proprietà da mani giudicate incompetenti ad altre ritenute meritevoli di mettere a frutto quei beni. Non molti italiani poterono assidersi a quell’imponente banchetto.
Si diffonde il pauperismo La condizione dei nullatenenti si fece più dura perché gli antichi proprietari erano assai meno esosi dei nuovi e la mancanza di adeguati strumenti per il credito agrario non condusse a un aumento di produttività dell’agricoltura. Inoltre, mentre gli enti ecclesiastici facevano ricadere gran parte della rendita agraria, sotto forma di beneficenza, sui più poveri, i nuovi proprietari dedicavano la rendita a spese di lusso, ai viaggi, all’istruzione, alle vacanze. Si avverte dopo il 1870 in Italia, la caduta della tensione ideale, la corsa al benessere e alla sicurezza che dettero alla società italiana uno spiccato carattere borghese. Con i cattolici risentiti che si autoescludevano dalle elezioni politiche, il Parlamento italiano rischiò di rappresentare gli interessi di una ristretta categoria di persone, molto soddisfatte di sé e desiderose di mantenere lo statu quo. Si cominciò a parlare di un crescente divario tra il paese legale (governo, Parlamento) e paese reale (le grandi masse proletarie) e della necessità di far giungere i problemi dei poveri nell’aula dei ricchi.
La pace armata Dopo il 1871, l’Europa conobbe un lungo periodo di pace, a dir la verità una pace armata perché fu cura costante di tutti i governi europei rafforzare i loro eserciti e le loro flotte impiegandoli fuori d’Europa, in una gigantesca corsa alla conquista delle colonie.
Il governo Minghetti In Italia continuava l’opera del Sella volta al risanamento delle finanze e anche questa volta a farne le spese furono le corporazioni religiose di Roma. Il governo del Lanza cadde nel 1873 per l’opposizione congiunta di destra e sinistra contro un inasprimento fiscale dovuto alla crisi economica di quell’anno. L’incarico fu affidato a Marco Minghetti che in un primo tempo tentò la formazione di una coalizione di destra e sinistra. In seguito al rifiuto del Depretis, dovette formare un ministero di uomini della sola destra. Il Minghetti cercò di operare con più prudenza dei predecessori, avviando a pareggio il bilancio. Nel 1874 ci furono le nuove elezioni che rafforzarono la sinistra: era in atto un mutamento del quadro politico.
Depretis e il discorso di Stradella Nel 1875, Agostino Depretis tenne un famoso discorso a Stradella dichiarando che quando la sinistra avesse la maggioranza, avrebbe lottato per imporre una politica più radicale contro il pericolo clericale; avrebbe realizzato il progetto per l’istruzione elementare obbligatoria e gratuita; il decentramento amministrativo e una politica finanziaria che distribuisse meglio la spesa pubblica. Il governo del Minghetti cadde sul problema del riordino delle ferrovie, il 18 marzo 1876, e con lui finì l’epoca della destra storica iniziata col Cavour. Quella politica fu dettata da statisti piemontesi, tranne Ricasoli e Minghetti, personalmente onesti, ma anche di vedute ristrette.
La sinistra storica al potere Nel marzo 1876 la “consorteria piemontese” fu sostituita dalla cosiddetta sinistra storica, formata da uomini politici caratterizzati da una più varia provenienza regionale e da più arditi programmi di rinnovamento sociale (estensione del diritto di voto, istruzione pubblica allargata, nazionalizzazione dei mezzi di trasporto, ecc.). Leader della nuova corrente era il Depretis.
La prassi parlamentare In realtà, a parte la provenienza dei deputati, sinistra e destra non differivano tra loro, perché i politici appartenevano alla stessa area liberal-borghese. Infatti, a quel tempo non esistevano ancora partiti di massa perché gli elettori erano pochi: circa mezzo milione su 26 milioni di abitanti, e quasi la metà degli aventi diritto non si recavano alle urne. Gli eletti erano notabili locali che si impegnavano a ottenere qualche opera pubblica a vantaggio del proprio collegio elettorale. Giunti a Roma, si aggregavano ai gruppi ritenuti idonei a realizzare le promesse fatte agli elettori. L’esiguità della base elettorale della sinistra era aggravata dall’astensionismo dei cattolici che, come protesta per l’occupazione di Roma, non si recavano a votare in occasione delle elezioni politiche, mentre partecipavano alle elezioni municipali. La stampa non offriva molto aiuto al chiarimento dei reali problemi, perché asservita a gruppi di interessi. Il Parlamento italiano oscillava tra pericolosi mercanteggiamenti di corridoio e vuoti dibattiti ideali. Specie al sud, era frequente la collusione dei notabili con la malavita locale che sapeva come far votare gli elettori secondo la linea concertata. I prefetti rappresentavano il governo in seno a ogni provincia e potevano rendere difficile la campagna elettorale ai candidati antigovernativi, negando le sale di conferenza e altre opportunità, col pretesto dell’ordine pubblico da tutelare. Gli analfabeti erano esclusi dal voto, perché sulla scheda si doveva scrivere il nome del candidato prescelto. Alle donne si negava il voto, perché si affermava che avrebbero votato secondo i criteri del parroco, un’argomentazione che non fa molto onore agli uomini di quell’età.
24. 5 Il trasformismo e la nascita della grande industria
La cultura prevalente era borghese, perbenista, un poco arida e provinciale. I patrioti erano molto soddisfatti di sé e assaporavano il premio delle fatiche risorgimentali.
Il trasformismo del Depretis Sul piano parlamentare dominava il Depretis che dal 1876 al 1882 si alternò al governo con Benedetto Cairoli e poi fu primo ministro fino alla morte avvenuta nel 1887. In mancanza di partiti con ideologie fortemente caratterizzate, l’attività di governo si ridusse a una serie di compromessi tra le forze economiche emergenti. I ministeri duravano in carica in media un anno: la crisi era risolta introducendo nella combinazione di governo le forze che si impegnavano a votare una certa legge. Ottenuto il risultato, la combinazione poteva sciogliersi.
La nascita della grande industria Questa prassi affaristica e borghese, unita a una relativa pace sociale, permise un notevole sviluppo economico. Le grandi industrie elettriche, chimiche, meccaniche, siderurgiche, tessili, alimentari, hanno il loro anno di fondazione nel decennio tra il 1880 e il 1890.
Problemi sociali L’esodo dalle campagne di numerosi contadini rese più tollerabile la vita di chi rimaneva. Le grandi città, specie Milano, conobbero una straordinaria attività edilizia. Lentamente migliorò la situazione dell’istruzione, il diritto di voto fu esteso a più numerose categorie di cittadini. Ma con la formazione della grande industria, si fece più acuto anche il problema delle masse urbane, degli operai alle prese coi problemi della casa, della previdenza sociale, dei trasporti, dei sindacati e delle tensioni sociali che esplosero in modo violento tra il 1890 e il 1900.
La politica economica della sinistra La destra storica fu espressione dei grandi proprietari terrieri, come Cavour e Ricasoli, che tennero fermo il principio economico del libero scambio e quindi delle basse tariffe doganali. Questa politica economica, tuttavia, danneggiava gli industriali che si trovavano a competere con la produzione meccanica di paesi da oltre un secolo alla testa in quel settore.
Le ferrovie Anche le costruzioni ferroviarie, che in altri paesi avevano stimolato l’industrializzazione, in Italia non produssero l’effetto sperato. Fino al 1861 erano in esercizio in Italia circa 2000 chilometri di strade ferrate (quasi tutte in Piemonte). Nel decennio successivo ne vennero costruite per altri 6200 chilometri, ma i binari e quasi tutti i vagoni furono acquistati all’estero perché le aziende italiane del settore erano troppo piccole per far fronte alla richiesta di quei prodotti.
Il protezionismo Intorno al 1865, le manifatture italiane apparivano depresse, forse in condizioni peggiori di dieci anni prima, fatta eccezione per l’industria laniera. Cominciò allora la lunga polemica volta a ottenere una qualche protezione per quei settori che promettevano un rapido sviluppo. La polemica, tuttavia, era complicata dal fatto che molti non vedevano per l’Italia uno sviluppo di grande nazione industriale: costoro affermavano, ed era vero, che mancavano le premesse indispensabili, ossia l’abbondanza di materie prime come il ferro e il carbone. Costoro pensavano, invece, allo sviluppo dell’industria tessile, in particolare alla seta di cui l’Italia aveva il primato assoluto di produzione in Europa. L’industria tessile aveva il vantaggio di localizzarsi nei luoghi di produzione, permettendo all’operaio di rimanere anche contadino e quindi di non provocare i difficili problemi dell’urbanesimo, dei trasporti, della casa, dello sradicamento culturale.
Le tariffe doganali Con l’avvento della sinistra al potere, maturò anche la prima revisione delle tariffe doganali in senso protezionista, decretata dal Parlamento nel 1878. Da quel momento si può dire che inizi la fase cruciale dell’industrializzazione italiana.
Siderurgia Intorno al 1864, il consumo annuale di ferro per abitante era in Italia di 6,5 chilogrammi, contro i 77 della Gran Bretagna, i 34 della Francia, i 50 del Belgio. La Spagna aveva un consumo di poco superiore all’Italia, uguagliata dalla Grecia. Il carbone aveva in Italia un costo proibitivo. La produzione di ghisa italiana ammontava a circa 290.000 quintali, un quinto del fabbisogno del paese. L’unico grande impianto era quello di Follonica che lavorava il minerale di ferro dell’isola d’Elba, buona parte del quale era esportato in Francia per mancanza di altiforni funzionanti in modo economico.
Industrie ferroviarie Le industrie meccaniche più importanti erano quelle annesse alle ferrovie: a Torino l’officina di Savigliano impiegava 400 operai; l’officina di Milano Porta Nuova ne occupava circa 300; quella di Firenze altri 400; a Napoli esisteva fin dal periodo borbonico la grande officina di Pietrarsa per costruzioni ferroviarie e navali con circa 1000 operai (la maggiore esistente in Italia); a Genova c’erano i due grandi stabilimenti Orlando e Ansaldo e alcuni altri sparsi per la penisola. Tali stabilimenti, tuttavia, non erano specializzati ciascuno in un settore specifico, non avevano commesse stabili, facevano di tutto un poco. Fino al 1880, la situazione dell’industria meccanica italiana risultò stagnante ed era del tutto assente nel settore della meccanica fine e degli strumenti di precisione.
Industria tessile Gli stabilimenti di filatura e tessitura del cotone, della lana e della seta presenti in Italia soffrirono non poco la concorrenza estera.
Cotone In particolare, il settore del cotone soffriva per le basse tariffe doganali volute dal Cavour, e nel 1864 l’industria cotoniera era in crisi. In Sicilia si era sviluppata la coltivazione del cotone per effetto del forte rincaro della materia prima, estirpando altre coltivazioni, ma dopo il 1865 il cotone americano ritornò in massa in Europa abbattendo i prezzi prima che i coltivatori avessero appreso le tecniche di coltivazione più adeguate. Dopo il 1870 l’industria cotoniera risalì la china: tra il 1874 e il 1878 sorsero sette nuovi stabilimenti di filatura e quattro di tessitura del cotone. Quasi tutta l’industria cotoniera era localizzata tra Piemonte, Lombardia e Liguria.
Lana L’industria laniera aveva alcuni centri importanti nel sud entrati in crisi subito dopo l’unità per la caduta delle barriere doganali. Altri centri importanti erano Biella, Schio e Prato che avevano macchinari moderni e potevano competere con i prodotti esteri.
Seta La produzione, filatura, tessitura della seta rappresentava la prima industria italiana del tempo, ma poco dopo l’unità una malattia dei bachi, la pebrina, falcidiò la produzione di bozzoli. I problemi legati alla produzione di seta dipendono dalla complessità di lavorazione. Occorrevano capitali di investimento: per di più, dopo il 1860, arrivò in massa la seta cinese e giapponese sui mercati di Londra e Parigi, accrescendo la crisi della seta italiana, che finì per concentrarsi in alcune regioni dove era possibile la riunione di mano d’opera, capitali e spirito imprenditoriale.
Industria chimica Dopo la caduta di Napoleone I, l’industria chimica compì passi da gigante in Europa, offrendo prodotti essenziali alla meccanica e all’industria tessile, alla vetreria e alla ceramica, divenendo coi fertilizzanti chimici e gli antiparassitari un sostegno indispensabile all’agricoltura.
Zolfo L’industria chimica in Italia progredì poco fino all’unità, nonostante l’abbondanza di tre materie prime: sale marino, zolfo e acido borico. In particolare per lo zolfo, estratto nelle province di Agrigento e Caltanissetta, l’Italia aveva il monopolio in Europa. La Gran Bretagna acquistava quasi tutto lo zolfo a prezzi bassi che non permettevano migliorie. Verso la fine del secolo furono scoperti giacimenti negli USA che permisero sistemi di estrazione più economici. Il prezzo dello zolfo siciliano crollò.
Acido borico L’acido borico veniva estratto in Toscana, dove Francesco Lardarel aveva ideato impianti abbastanza efficienti in una situazione di virtuale monopolio. Anche in questo caso, tuttavia, il prodotto non veniva lavorato in Italia, bensì esportato in Gran Bretagna che, a sua volta vendeva il borace all’Italia. Per un più efficace sfruttamento, mancava l’istruzione tecnica e gli istituti di ricerca applicata.
Gomma Nel 1872, un ex garibaldino, Giovanni Battista Pirelli, iniziò la produzione di articoli di gomma, passando subito anche alla produzione di cavi.
Fioritura di iniziative industriali Dopo il 1871 l’economia italiana ebbe una rapida impennata, favorita da una certa quantità di capitali liquidi accumulati negli anni precedenti dai proprietari agrari e messi a frutto da un promettente gruppo di industriali, sollecitati dall’aumento dei prezzi causato dalla guerra franco-prussiana. Una certa euforia si manifestò anche in campo immobiliare e finanziario (borsa). Tra il 1870 e il 1873 le banche esistenti passarono da 37 a 143, operanti soprattutto a Roma e Genova, dedite alla speculazione edilizia. Nel più maturo ambiente lombardo, le banche furono fondate per finanziare le attività industriali.
Eugenio Cantoni Nel 1872 la già ricordata ditta Pirelli e l’anno dopo le Manifatture di lane in Borgosesia offrono un quadro interessante nel mondo industriale. Un personaggio come Eugenio Cantoni, sorretto da un senso degli affari perfetto, compariva nei consigli di amministrazione di ogni impresa seria: fu figura di spicco nella fondazione della Banca Italiana di Sconto e della prima grande raffineria di zucchero.
Crisi di ristagno e protezionismo Sul finire del 1874, il commercio internazionale ristagnò e la crisi fece fallire i commercianti più deboli, rendendo evidente che il progresso industriale italiano era ancora fragile. Furono effettuate ampie inchieste sulla situazione industriale italiana per scoprire i campi più promettenti. La conclusione fu che occorreva una politica economica protezionista per operare il rafforzamento della struttura industriale e bancaria della nazione. L’avvento al potere della sinistra permise la revisione delle tariffe doganali che, tuttavia, ebbe un costo: quello di rendere manifesta la contrapposizione tra i consumatori e contribuenti da una parte, e gli industriali dall’altra. Tra gli industriali, si scontravano quelli che miravano all’esportazione dei loro prodotti, danneggiati, e quelli che miravano al mercato interno, favoriti da profitti più alti. Dopo aver adottato il protezionismo, la società italiana scoprì i pericoli e le complicazioni dell’interferenza nelle leggi dell’economia che rendeva tutto più difficile e meno prevedibile. Il quindicennio tra il 1878 e il 1893 è caratterizzato dalla discesa dei prezzi che colpisce l’agricoltura, provocando la miseria dei braccianti, la rovina dei piccoli proprietari, fallimenti a catena, emigrazione massiccia verso l’America, rallentamento dello sviluppo industriale.
Speculazione edilizia Questo delicato momento di sfiducia produsse da parte di numerosi finanzieri dalla mentalità ristretta e bassamente affaristica la corsa alla speculazione edilizia, soprattutto a Roma i cui grandi parchi barocchi furono lottizzati e destinati alle famigerate palazzine.
Priorità dell’industria tessile e siderurgica La riforma del 1878 fu presentata come una necessità finanziaria dello Stato, ma in realtà fu un colpo di mano degli interessi dei cotonieri (indizio interessante è la fondazione del “Corriere della sera” dei cotonieri Crespi). Nel 1887 ci fu una nuova grande discussione sulle tariffe doganali e anche questa volta le industrie tessili e la siderurgia uscirono vittoriose, mentre gli interessi di altre industrie furono messi da parte come avvenne per la chimica.
La condizione operaia Gli operai dovevano accontentarsi di salari miseri, perché l’industria italiana non aveva impianti ammortizzati e perciò poteva affermarsi solo tenendo basso il costo del lavoro. La forza contrattuale delle masse operaie era modesta anche per l’enorme offerta di lavoro. Peraltro, il costo della vita in Italia era basso a causa della costante diminuzione dei prezzi agricoli. Dopo il 1878, la legislazione sociale cominciò a muovere i primi passi. Dal 1877 era stata approvata la legge Coppino per l’istruzione elementare obbligatoria. Nel 1883 ci fu la prima legge molto blanda per regolamentare il lavoro dei bambini in fabbrica e in miniera. Fu respinta, invece, la legge sullo sciopero, che rimase a lungo un reato paragonato alla sedizione.
24. 6 L’attivismo del Crispi e la grande flotta
Con la morte del Depretis, avvenuta nel 1887, Francesco Crispi (1819-1901), l’ultimo dei protagonisti del risorgimento e per qualche aspetto il più problematico, assunse il potere.
Francesco Crispi Nato presso Agrigento nel 1819, si trasferì a Napoli nel 1846 esercitando l’avvocatura. Scoppiata la rivoluzione di Sicilia nel gennaio 1848, subito si recò nell’isola per prendere parte alla rivoluzione antiborbonica. Schiacciata la rivoluzione nel maggio 1849, il Crispi fu escluso dall’amnistia e costretto a emigrare in Piemonte, dove visse facendo il giornalista. Dopo la fallita sollevazione mazziniana del febbraio 1853 a Milano, fu espulso dal Piemonte per le idee repubblicane, e si rifugiò a Malta. Espulso anche da Malta per intemperanze giornalistiche, raggiunse il Mazzini a Londra continuando le attività cospirative. Nel giugno 1859 tornò in Italia, battendosi contro l’ingrandimento del Piemonte a favore di un’Italia repubblicana. A Genova mise a punto con Agostino Bertani, Nino Bixio, Giacomo Medici e Garibaldi la spedizione dei Mille. Fu presente allo sbarco di Marsala l’11 maggio 1860; due giorni dopo, a Salemi, preparò il proclama di Garibaldi dittatore nell’isola col programma “Italia e Vittorio Emanuele”. Dopo la caduta di Palermo, Crispi divenne ministro degli interni del governo provvisorio, carica che dovette lasciare nel mese di luglio a causa del conflitto tra Garibaldi e il Cavour: quest’ultimo voleva l’immediata annessione della Sicilia al Piemonte. A sua volta, costrinse alle dimissioni l’inviato del Cavour, Agostino Depretis, da prodittatore. L’intervento dell’esercito regolare guidato da Vittorio Emanuele II nell’ottobre 1860 escluse il Crispi da ogni incarico politico.
Crispi nel Parlamento Nel 1861 Crispi entrò nel Parlamento italiano come deputato di Castelvetrano collocandosi all’estrema sinistra, ma nel 1864 fece la famosa affermazione “la monarchia ci unisce, la repubblica ci dividerebbe”. Nel 1867, lavorò dietro le quinte per rendere possibile il colpo di mano contro lo Stato della Chiesa, fallito a Mentana.
Crispi presidente della Camera La morte del Rattazzi, nel 1873, ne faceva il capo potenziale della sinistra, ma il Crispi preferì rassicurare Vittorio Emanuele II, lasciando in primo piano il più duttile Depretis. Dopo l’avvento della sinistra al potere, egli fu eletto presidente della Camera. Nell’autunno del 1877, il Crispi fu inviato in missione presso le principali capitali d’Europa. Importante l’incontro avuto col Bismarck, divenuto il suo modello politico. Nel dicembre 1877 il Crispi fu nominato ministro degli interni nel ministero presieduto dal Depretis. Dopo la morte di Vittorio Emanuele II, il Crispi dovette affrontare uno scandalo personale (fu accusato di bigamia) per cui rassegnò le dimissioni. Per nove anni rimase escluso dal potere, finché fu ripescato nell’ultimo ministero presieduto dal Depretis, succedendogli alla morte (1887).
Crispi primo ministro La prima decisione presa dal Crispi come presidente del consiglio fu una visita di Stato in Germania per rinnovare, scaduto il primo quinquennio, la Triplice Alleanza, unita a un’intesa navale con la Gran Bretagna. Inutile fu la sua violenta opposizione alla Francia accompagnata dalla seconda revisione delle tariffe doganali in funzione antifrancese. Promosse una riforma giudiziaria e l’adozione del nuovo codice commerciale. La sinistra tollerava sempre meno il suo atteggiamento conservatore e autoritario da uomo forte e perciò fu costretto a cercare l’appoggio della destra, ma la sua mancanza di tatto verso il Parlamento lo costrinse alle dimissioni nel gennaio 1891.
Il primo ministero Giolitti Gli successe Giovanni Giolitti, il primo uomo politico che, per motivi d’età, non aveva partecipato alle lotte politiche del risorgimento. Nel dicembre 1893, il Giolitti che aveva impostato una politica sociale meno autoritaria del predecessore, fu travolto dalla virulenza delle sommosse in Sicilia (fasci siciliani) e in Lunigiana, oltre che dallo scandalo della Banca Romana che aveva messo in luce la dimensione assunta dall’affarismo finanziario in collusione con le forze parlamentari.
Ultimo ministero Crispi Crispi tornò al potere, riprendendo i suoi metodi autoritari. Stroncò con durezza il movimento dei fasci siciliani; riprese vigorosamente la politica di espansione coloniale; attaccò a fondo i radicali come Felice Cavallotti, anche col ricorso alla calunnia: introdusse nel sistema politico italiano i modi rozzi e spicciativi del Bismarck in luogo di proseguire la tradizione italiana di compromesso tra le forze politiche in causa. Alle elezioni del 1895, il Crispi ebbe la maggioranza, ma l’anno dopo, ad Adua, la sua politica coloniale subì un grave insuccesso e il castello di carte crispino crollò.
Fine dell’epoca crispina I suoi ultimi anni furono amari: una commissione parlamentare mise in luce la disinvoltura delle sue operazioni finanziarie. Fu costretto a dimettersi anche dal Parlamento. Il giudizio complessivo sulla sua personalità rivela una viscerale opposizione al socialismo di cui non comprese la natura e la funzione; l’incapacità di accettare la funzione del Parlamento che gli pareva un ostacolo; l’esagerazione del nazionalismo che lo indusse a sopravvalutare la politica estera e coloniale quando il paese aveva ancora troppi problemi di sviluppo interno. Il Crispi morì nel 1901 mentre Giolitti stava gettando le basi di una politica più attenta alle reali possibilità italiane. Molti, tuttavia, ricordavano con nostalgia i tempi del Crispi, le cui affermazioni di principio, la politica da uomo forte, il nazionalismo bellicoso furono un pericoloso precedente: certamente il Mussolini non era in errore quando vedeva nel Crispi il precursore del fascismo. Il Crispi non comprese che dietro il Bismarck c’era la realtà economica, militare e industriale tedesca, mentre dietro di lui c’era un paese più complesso, più povero, più problematico.
Crispi e l’imperialismo La caratteristica principale del Crispi fu di voler imprimere alla politica un po’ addormentatrice del predecessore uno sviluppo imperialistico; poi affrontò il nodo non risolto dei rapporti con la Santa Sede, senza comprendere la peculiare natura dei rapporti tra Chiesa e Stato in Italia. Quando le cose non andarono nella direzione auspicata, scatenò una campagna rumorosa contro la Chiesa cattolica, con un congresso internazionale sull’ateismo e il monumento a Giordano Bruno a Roma come momenti salienti.
Le colonie In campo coloniale, dopo l’Eritrea e la Somalia, il Crispi concepì la conquista dell’unico Stato africano con una lunga tradizione di indipendenza e una certa struttura statale e militare, l’Etiopia.
La penetrazione in Etiopia Fin dal 1867, la compagnia di navigazione Rubattino aveva acquistato con denaro statale la baia di Assab in Eritrea sul Mar Rosso, per farne un deposito di carbone e di rifornimento per le navi dirette in Estremo Oriente. Più tardi lo Stato italiano rilevò lo scalo allargandolo nella Colonia Eritrea. Allo scoppio di una guerra civile in Etiopia, il governo italiano si schierò con il ras del Tigrai, Menelik, stipulando il trattato di Uccialli, redatto in italiano e in amarico, ma con alcune significative differenze per cui venne interpretato diversamente dalle due parti. Era un vecchio artificio della politica coloniale tentare di imbrogliare la controparte, approfittando della sua buona fede. Quando il Menelik divenne imperatore d’Etiopia, il governo italiano si affrettò a esigere le conseguenze di un protettorato che gli etiopi, aiutati da armi e consiglieri francesi, non riconobbero. La guerra fu giudicata inevitabile per motivi di prestigio e risultò lunga, costosa, perduta infine con la battaglia di Adua (1° marzo 1896).
La crisi di fine secolo Dopo le dimissioni del Crispi si aprì un periodo di recriminazioni, disorientamento e difficoltà economiche, col tragico epilogo dei fatti di Milano del maggio 1898, quando una manifestazione di protesta per il rincaro del pane fu stroncata dall’esercito, come se si fosse trattato di una rivoluzione.
Gli inizi del colonialismo italiano Le aspirazioni coloniali dell’Italia si erano manifestate da tempo, soprattutto nei confronti della Tunisia, la regione africana più vicina alle coste italiane. Tale progetto fu impedito dalla Francia, che perseguiva l’egemonia sull’Africa a nord del Sahara. Quando il Bey di Tunisi, preoccupato delle mire francesi, fece assegnare a imprese italiane le costruzioni ferroviarie, la Francia ruppe gli indugi e occupò la Tunisia. Il risentimento italiano fece superare ogni remora all’ingresso italiano nell’alleanza con Germania e Austria, che aveva il vantaggio di assicurare all’Italia compensi in caso di accrescimento dell’Austria, e via libera per espandersi nell’Africa orientale. Il frutto di tale alleanza fu la formazione delle colonie di Eritrea e Somalia. Il disastro in Etiopia rallentò per qualche anno la politica coloniale, ripresa solo al termine dell’età giolittiana (1911).
La flotta italiana Si può affermare che la politica estera italiana dal 1878 al 1915 è stata condizionata dalle sue mire coloniali, perché suggerì l’alleanza con le potenze più disponibili ad accettare le pretese imperiali italiane. Le tentazioni coloniali erano state favorite dalla costruzione di una flotta da guerra. Le acciaierie di Terni, costruite con denaro statale, a lungo produssero corazze per navi a prezzi superiori a quelli praticati all’estero. A fine secolo la flotta italiana era seconda nel Mediterraneo solo a quella francese. Nel 1912 la Triplice Alleanza fu ancora una volta sottoscritta, ma l’Italia ebbe sempre particolare riguardo per la Gran Bretagna, la cui potenza navale era pericoloso sottovalutare: una clausola esplicita del trattato prevedeva la neutralità italiana in caso di guerra degli imperi centrali contro la Gran Bretagna.
Politica e retorica Il possesso di una flotta potente dette ali alla fantasia. Il ricordo della potenza di Roma antica con l’impero del Mediterraneo cominciò a turbare il sonno dei politici. Si pensava a colonie di popolamento in cui riversare la crescente massa dei proletari e da cui si dovevano ricavare materie prime per alimentare la nascente industria. Si pensava a un modello italiano di amministrazione dell’impero, diverso da ogni altro fin allora sperimentato. La retorica nazionalista cominciò a disprezzare le mire troppo basse della generazione precedente, dimenticando gli irrisolti problemi delle regioni meridionali. Si facevano progetti di strade e ferrovie nelle colonie, trascurando i problemi di viabilità del Mezzogiorno. Soprattutto non si avvertiva il problema del nazionalismo che minacciava ben altri imperi e che rischiava di travolgere una struttura ancora precaria come quella della democrazia italiana.
24. 7 Cronologia essenziale
1866 Terza guerra d’indipendenza: a Custoza e Lissa le forze armate austriache sconfiggono le superiori forze italiane.
1866 A ottobre viene stipulata la pace tra Austria e Italia che comporta l’annessione del Veneto all’Italia.
1867 Fallisce il tentativo di volontari garibaldini sconfitti a Mentana da un corpo di spedizione francese.
1868 Per limitare il disavanzo statale, il governo italiano, introduce la tassa sul macinato che colpisce i più poveri.
1869 L’8 dicembre si riunisce a Roma nella basilica di San Pietro il concilio ecumenico Vaticano I.
1870 Il 20 settembre l’esercito italiano occupa Roma. Il Papa Pio IX si dichiara prigioniero dello Stato italiano.
1871 Il Parlamento italiano approva la Legge delle Guarentigie, respinta da Pio IX.
1876 Col primo governo Depretis inizia l’esperienza politica della sinistra storica chiudendo la tradizione che si rifaceva al Cavour.
1878 La legge Coppino istituisce l’obbligo dell’istruzione elementare per almeno un biennio, a spese dei comuni.
1887 Al Depretis succede il Crispi come primo ministro, introducendo nella prassi politica italiana i metodi del Bismarck.
1891 Dimissioni del primo governo Crispi. Gli succede il Giolitti, costretto alle dimissioni a causa dello scandalo della Banca romana.
1896 L’esercito italiano viene sconfitto ad Adua. Crispi è costretto alle dimissioni.
1898 A maggio una manifestazione di protesta per il prezzo del pane si conclude in una strage di cittadini.
24. 8 Il documento storico
Al tempo del primo ministero Giolitti la questione sociale divenne acuta anche in Italia. Il papa Leone XIII ritenne giunto il momento di manifestare la valutazione della Chiesa circa i movimenti che avevano guidato l’impetuoso sviluppo del capitalismo, liberismo e socialismo. Ne risultò la condanna di due dottrine per qualche aspetto antitetiche: la prima perché non assicurava protezione ai più deboli, finendo per considerare il lavoro alla stregua di ogni altra merce; il secondo perché negava la liceità della proprietà privata dei mezzi di produzione.
“Nella presente questione lo scandalo maggiore è questo: supporre una classe sociale nemica naturalmente dell’altra; quasi che la natura abbia fatto i ricchi e i proletari per battagliare tra loro un duello implacabile; cosa tanto contraria alla ragione e alla verità. Invece è verissimo che, come nel corpo umano le varie membra si accordano insieme e formano quell’armonico temperamento che si chiama simmetria, così la natura volle che nel civile consorzio armonizzassero tra loro quelle due classi, e ne risultasse l’equilibrio. L’una ha bisogno assoluto dell’altra: né il capitale può stare senza il lavoro, né il lavoro senza il capitale. La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie. Ora, a comporre il dissidio, anzi a svellerne le stesse radici, il cristianesimo ha una ricchezza di forza meravigliosa.
Innanzitutto, l’insegnamento cristiano, di cui è interprete e custode la Chiesa, è potentissimo a conciliare e mettere in accordo fra loro i ricchi e i proletari, ricordando agli uni e agli altri i mutui doveri incominciando da quello imposto dalla giustizia. Obblighi di giustizia, quanto al proletario e all’operaio, sono questi: prestare interamente e fedelmente l’opera che liberamente e secondo equità fu pattuita; non recar danno alla roba, né offesa alla persona dei padroni; nella difesa stessa dei propri diritti astenersi da atti violenti, né mai trasformarla in ammutinamento; non mescolarsi con uomini malvagi, promettitori di cose grandi, senza altro frutto che quello di inutili pentimenti e di perdite rovinose.
E questi sono i doveri dei capitalisti e dei padroni: non tenere gli operai schiavi; rispettare in essi la dignità della persona umana, nobilitata dal carattere cristiano. Agli occhi della ragione e della fede il lavoro non degrada l’uomo, ma anzi lo nobilita col metterlo in grado di vivere onestamente con l’opera propria. Quello che veramente è indegno dell’uomo e di abusarne come di cosa a scopo di guadagno, né stimarlo più di quello che valgono i suoi nervi e le sue forze. Viene similmente comandato che nei proletari si deve aver riguardo alla religione e ai beni dell’anima. È obbligo perciò dei padroni lasciare all’operaio comodità e tempo che bastino a compiere i doveri religiosi; non esporlo a seduzioni corrompitrici e a pericoli di scandalo; non alienarlo dallo spirito di famiglia e dall’amore del risparmio; non imporgli lavori sproporzionati alle forze, o mal confacenti con l’età e con il sesso.
Principalmente poi tra i loro doveri è dare a ciascuno la giusta mercede. Il determinarla secondo giustizia dipende da molte considerazioni: ma in generale si ricordino i capitalisti e i padroni che le umane leggi non permettono di opprimere per utile proprio i bisognosi e gli infelici, di trafficare sulla miseria del prossimo. Defraudare poi la dovuta mercede è colpa così enorme che grida vendetta al cospetto di Dio. “Ecco, la mercede degli operai…che fu defraudata da voi, grida; e questo grido ha ferito le orecchie del Signore degli eserciti” (Giac 5, 4). Da ultimo è dovere dei ricchi non danneggiare i piccoli risparmi dell’operaio né con violenza né con frodi né con usure manifeste o nascoste; questo dovere è tanto più rigoroso, quanto più debole o mal difeso è l’operaio e più sacrosanta la sua piccola sostanza. L’osservanza di questi precetti non basterà essa sola a mitigare l’asprezza e a far cessare le cagioni del dissidio?”
Fonte: Rerum Novarum, Lettera enciclica di S.S. Leone XIII, Edizioni Paoline, Roma 1981, nn. 15-17.
24. 9 In biblioteca
Per la storia dei problemi d’Italia dopo l’unità si consulti di E. PASSERIN D’ENTREVES, L’ultima battaglia politica di Cavour, ILTE, Torino 1956; A. BERSELLI, La Destra storica dopo l’Unità, il Mulino, Bologna 1965.
Un importante studio sui problemi dell’amministrazione statale compiuta nel secolo passato e di S. JACINI, La riforma dello Stato e il problema regionale, a cura di F. Traniello, Morcelliana, Brescia 1968.
Classico per la storia della politica estera italiana di F. CHABOD, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896. Le premesse, Laterza, Bari 1951.
Per la questione romana molto completo di R. MORI, Il tramonto del potere temporale, Ed. di storia e Letteratura, Roma 1967.
Di notevole interesse il libro di R. ROMEO, Risorgimento e capitalismo, Laterza, Bari 1965.
Per la storia dell’industria in Italia si legga di AA. VV., L’industrializzazione in Italia (1861-1900), a cura di G. Mori, il Mulino, Bologna 1981.
Per la questione politica e sociale del Mezzogiorno si consulti di A. SCIROCCO, Il Mezzogiorno nell’Italia unita, IEN, Napoli 1979.
Molto utile l’antologia sulla questione meridionale curata da R. VILLARI, Il Sud nella storia d’Italia, Laterza, Bari 1964.
Si consulti anche di A. COLETTI, La questione meridionale, SEI, Torino 1983; e di G. FISSORE- G. MEINARDI, La questione meridionale, Einaudi, Torino 1976. Notevole di G. GALASSO, Passato e presente del meridionalismo, 2 voll., Guida, Napoli 1978.
Notevole il libro di C. MORANDI, La politica estera dell’Italia da Porta Pia all’età giolittiana, Le Monnier, Firenze 1968.
Molto chiaro il libro di L. SALVATORELLI, La Triplice Alleanza. Storia diplomatica 1877-1912, I.S.P.I., Milano 1939.
Notevole per la storia della grande industria in Italia di V. CASTRONOVO, L’industria italiana dall’Ottocento a oggi, Mondadori, Milano 1982.