I DOVERI DELLO STORICO CRISTIANO. La più grande disgrazia dello storico cristiano sarebbe di assumere come metro di giudizio le idee del giorno e trasporle nella sua valutazione del passato. Egli deve invece vederle nella loro realtà, cioè ostili al principio soprannaturale. Deve rendersi conto dei danni del paganesimo moderno e, per non esserne egli stesso soggiogato, deve senza tregua fissare l’immutabile verità rivelata, quale si manifesta nell’insegnamento e nella pratica della Chiesa
IL SENSO CRISTIANO DELLA STORIA
di Dom Gueranger, Abate di Solesmes (Prosper-Louis-Pascal Gueranger), (Sable sur Sarth, 1805/Solesmes 1875), considerato il restauratore dell’ordine benedettino in Francia.
Indice
Il soprannaturale nella storia
L’azione della santità nella storia
I doveri dello storico cristiano
Il Cristo eroe della storia
I DOVERI DELLO STORICO CRISTIANO
(…) basta poco per capire che nulla differisce di più dal tono cristiano che il tono filosofico, e la ragione è semplice: non esiste differenza più grande che tra un cristiano e un filosofo. Non occorre dissertare a lungo per definire ciò che io intendo per filosofo. E’ colui che, battezzato e vivendo in seno a una società cristiana, nel suo linguaggio sistematicamente prescinde dalle idee subite da fede della Chiesa nella quale è stato rigenerato, e parla come se il suo pensiero non avesse più nulla in comune con l’ordine soprannaturale. Un libro di tono filosofico, fosse pure opera di un cattolico, è sempre uno scandalo; ciò è comprensibile se si riflette che la cosa più pericolosa per l’uomo è favorire la sua tendenza razionalista. La fede è una virtù, non è il risultato di una ricerca scientifica; è minacciata spesso dal nemico dell’uomo che, a ragione, vede in essa il mezzo con il quale la nostra intelligenza si rischiara alla luce di Dio. È appunto per questo che il cristiano ha non solo il dovere di credere, ma anche quello di proclamare ciò in cui crede. Questo duplice obbligo, fondato sulla dottrina dell’Apostolo (Rom., X, 10), è ancora più rigoroso in epoche in cui trionfa il naturalismo, e lo storico cristiano deve comprendere che non è sufficiente professione di fede in qualche passo del libro se in seguito l’accento cristiano lascia il posto a quello filosofico. Alcuni dubiteranno di lui, ed è male; altri, più numerosi, trascurando la sua professione di fede, rafforzeranno il proprio naturalismo facendo appello ai passi in cui l’autore parla da filosofo; e questo è, lo ripeto, un vero scandalo. Che cosa succederebbe se un libro fosse scritto interamente da un credente senza che mai vi si riconoscesse l’accento cristiano? Vi sono tuttavia alcuni che considerano tale atteggiamento un atto di imparzialità. Come se fosse permesso ad un cristiano essere imparziale, quando si tratta della fede e delle sue manifestazioni! Che l’accento dello storico credente sia dunque sempre cristiano e che dallo stile di un figlio della Chiesa trapelino costantemente la pienezza e la fermezza delle sue dottrine. I giudizi storici hanno grande importanza soprattutto quando lo storico gode del favore del pubblico. Possono essere formulati con autorevolezza, oppure emergere dalla scelta dei fatti e dal modo di narrarli; in entrambi i casi sono i giudizi ciò che il lettore soprattutto ricerca in un libro di storia. Quando parlo di giudizi storici, non mi riferisco ai fatti: in tal caso è doveroso attenersi alla verità, e lo storico cristiano deve essere più di altri un narratore veritiero. Non deve adulare nessuno, ne nascondere i torti di chicchessia, ma non deve neppure temere di fare giustizia delle mille calunnie che hanno fatto della storia una immensa cospirazione contro la verità. Lo storico soppeserà gli eventi con equilibrio, attenendosi alla più rigorosa imparzialità. Questo per quel che riguarda i fatti; quanto ai giudizi, alle interpretazioni, è evidente che il cristiano deve differire totalmente dal filosofo. Il contrario sarebbe assurdo, e la debolezza in simile materia sarebbe deplorevole. Il cristiano giudica fatti, uomini, istituzioni dal punto di vista della Chiesa; non è libero di giudicare diversamente, questa è la sua forza. Uno storico cristiano i cui giudizi siano accettati dai filosofi è un infedele, oppure i filosofi in questione non sono filosofi. È necessario dunque scandalizzare oppure, se non se ne ha il coraggio, rinunciare a scrivere di storia. Ne abbiamo abbastanza di libri ibridi i cui autori credenti fanno coro nei giudizi con coloro che non credono. Sono questi innumerevoli tradimenti che hanno creato tanti pregiudizi ed anche tante incongruenze che ostacolano gravemente la formazione di una cattolicità rigorosa e compatta.
Ma, obietteranno certi scrittori abili nel mascherare la loro fede sotto sproloqui alla moda e sempre entusiasti nel decantare ciò che essi chiamano le idee della società moderna, volete dunque che noi scriviamo di storia usando il tono di un libro di preghiere? Dobbiamo dunque fare dei nostri volumi, dei nostri articoli sulle riviste altrettanti sermoni, trattati di teologia o di diritto canonico? No, ogni cosa ha, e deve avere, il tono che le è proprio; ma la storia è il grande teatro in cui si manifesta il soprannaturale, e bisogna avere il coraggio di indicarlo ai lettori. Voi ci parlate con ammirazione della Città di Dio, del Discorso sulla Storia Universale, quello, affermate, è il genere cristiano di storia; ma, di grazia, che cosa ha in comune la maniera di Sant’Agostino e Bossuet con la vostra? Essi raccontano tutto, giudicano tutto dal punto di vista di Gesù Cristo e della sua Chiesa; non esaltano l’ascetismo perché non è il caso; in compenso, si adoperano a dimostrare non soltanto nell’insieme, ma anche nei particolari, come il principio soprannaturale sostenga e spieghi tutto; li sentiamo cristiani ad ogni riga e leggendoli, diventiamo noi stessi più cristiani. Ecco com’è lo storico quando si ispira alla fede.
Voi, storici, invece esitate a proclamare i miracoli più evidenti; cercate spiegazioni che ne attenuano il carattere prodigioso con il rischio di incrinare la fede dei lettori, trascurate le profezie, dissimulate la santità e la sua azione per mettere in rilievo l’operato degli uomini, uomini grandi, non v’è dubbio; pur riconoscendo la divinità della Chiesa, tendete soprattutto a farla apparire società umana; in una parola, non negate il soprannaturale, ma lo mettete da parte per tema di sgomentare e di non apparire uomini del vostro tempo. Sant’Agostino e Bossuet hanno fatto esattamente il contrario. Un filosofo, M. Saisset, ci ha dato una traduzione della Città di Dio; nella prefazione, pur dichiarando la propria ammirazione per il vescovo di Ippona, si rammarica che questo grande genio si limiti troppo spesso a interpretazioni puerili della Bibbia, a resoconto di miracoli che tradiscono troppo il prete cristiano. Possano i nostri storici di oggi meritare tali rampogne! Sarebbe un segno che hanno scritto come si deve scrivere quando si è illuminati dalla luce della fede. Sant’Agostino, in effetti, si sofferma spesso e a lungo sugli Oracoli profetici e illumina i suoi scritti con una esegesi sapiente quanto mistica; ma il miglior modo per comprendere il cristianesimo non è forse quello di lasciarsi illuminare dalle divine predizioni da cui è scaturito? Sant’Agostino sviluppa con linguaggio immortale l’argomentazione derivante dalla miracolosa diffusione del Vangelo e nello stesso tempo indugia a raccontare i prodigi operati dalle reliquie di Santo Stefano in terra d’Africa, davanti agli occhi del popolo. Molti cattolici, affetti da naturalismo, si chiederanno perché un genio tanto grande sciupi un argomento così solenne con aneddoti di tanto piccola portata. Indugeranno a recriminare che tali particolari gli fanno perdere di vista le idee generali! Sono loro ahimè, a perderle di vista, queste idee generali. Non capiscono la portata degli episodi miracolosi accaduti all’epoca del grande dottore. Non si rendono conto che, dopo aver dimostrato la divinità del cristianesimo basandosi sulla sua diffusione avvenuta in contrasto con tutte le leggi della Storia e tutte le condizioni della natura umana, Sant’Agostino deve ora dimostrare che la società cattolica, alla quale appartiene e di cui è uno dei vescovi, è proprio il cristianesimo che Dio solo ha stabilito con la forza irresistibile del suo braccio. È il dono permanente dei miracoli a confermare questa identità; ecco perché Sant’Agostino non ritiene di derogare al vasto piano della Città di Dio, esaminando fatti in apparenza minimi di cui è stato testimone e a sostegno dei quali può invocare la testimonianza del suo popolo. Esame prezioso per lo storico cristiano e conferma eloquente delle regole che abbiamo esposte nel capitolo precedente.
Nello scrivere di storia non si deve dunque temere di essere accusati di un certo misticismo, se con tale parola si intende designare la coloritura soprannaturale di un racconto in cui l’azione meravigliosa di Dio si rivela ad ogni passo. Guardiamoci dall’arrossirne; sono già troppo numerosi coloro che tentano di cacciare dalla storia Dio e il suo Cristo. Ma devo ancora rispondere a un altro pregiudizio che è in parte causa delle concessioni imprudenti che taluni nostri storici ritengono di poter fare al naturalismo. Sono persuasi che tale compiacenza sia un mezzo per attirare alla fede i filosofi mostrando loro una sorta di affinità nei fatti, di fratellanza fra il punto di vista cristiano e il punto di vista filosofico. Da ciò il tono razionalistico, le parole d’ordine con l’aiuto delle quali si spera di farsi ascoltare. Ci sono in questo due inconvenienti. Il primo, che non è il meno grave, è che la storia da voi narrata e gli articoli pubblicati su riviste, cadendo sotto gli occhi di cattolici deboli, cui non sono diretti, non rendono loro altro servizio che di intiepidirne la fede e di immergerli ancor più in quei flutti da cui avrebbero tanto bisogno di uscire. A costoro sarebbe utile imbattersi in libri atti a nutrire la fede; essi vi leggono fiduciosi perché vi sanno cattolici, ma la lettura li lascia in uno stato peggiore di prima. L’altro inconveniente è che, lungi dal ricondurre alla fede i filosofi, voi ne accrescete l’orgoglio. Esultano nel vedere dei cattolici a rimorchio dei loro sistemi; si compiacciono del progresso compiuto al punto da aver imposto il loro linguaggio e le loro idee. Notano soltanto l’imbarazzo del vostro comportamento, giacché siete costretti a portare avanti parallelamente due sistemi: la vostra fede che anteponete a tutto, e le esigenze di ciò che chiamate lo spirito della società moderna al quale non volete sottrarvi. Questi poli opposti si fondono come possono nella vostra opera; ma sappiate che se voi scandalizzerete sicuramente molti vostri fratelli, non riuscirete tuttavia a riportare gli altri all’ovile.
Oggi più che mai, sia ben inteso, la società ha bisogno di dottrine energiche e coerenti. In mezzo alla dissoluzione generale delle idee, solamente l’asserzione, una asserzione ferma, ben fondata, senza compromessi potrà essere accettata. Le transazioni diventano sempre più sterili e ciascuna di esse si porta via un lembo della verità. Come agli albori del cristianesimo, anche oggi è necessario che i cristiani si distinguano per l’unità dei principi e dei giudizi. Nulla verrà loro dal caos di negazioni e dai tentativi di ogni genere che attesta in modo così netto l’impotenza della società attuale. Questa società vive degli scarsi frammenti dell’antica civiltà cristiana che le rivoluzioni non hanno ancora spazzato via, e che la misericordia di Dio ha salvato finora dai naufragio. Mostratevi dunque come siete nel profondo, cattolici convinti. Vi temerà forse per un po’ di tempo; ma, siatene certi, ritornerà a voi. Se l’adulerete adottandone il linguaggio, la divertirete per un istante, poi vi dimenticherà perché non le avrete fatto un’impressione profonda. Si riconoscerà in voi e, siccome ha poca fiducia in se stessa, ne avrà altrettanto poca in voi.
C’è una grazia legata alla professione piena e completa della Fede. Questa professione, ci dice l’Apostolo, è la salvezza di coloro che la fanno e l’esperienza dimostra che è anche la salvezza di coloro che l’ascoltano. Siamo dunque cattolici e soltanto cattolici, rifuggiamo dall’essere filosofi o utopisti, e saremo il lievito di cui il Signore dice che fa fermentare il pane. Lo ripeto, tali furono le cose all’inizio. Se c’è una probabilità di salvezza per la società, questa è riposta nella fermezza dei cristiani. Che si sappia che non transigiamo su nulla, che disdegnarne il gergo dei filosofi. È un dato di fatto che il cristianesimo si impone non con la violenza, ma per l’autorevolezza della convinzione di colui che lo predica.
Del resto la franchezza non manca mai di suscitare simpatia. Quando il signor di Montalembert pubblicò l’Introduzione alla Storia di Santa Elisabetta, la cosa suscitò stupore e qualche mormorio, dato che nell’opera il sentimento cattolico si esprimeva con tanto vigore. Era difficile staccarsi dal naturalismo storico con energia maggiore di quella mostrata dall’autore; l’Introduzione e il libro al quale essa prelude ne hanno forse sofferto? Le numerose edizioni attestano il contrario. Bisogna tuttavia risalire indietro di due secoli per incontrare un libro scritto con tanto ardore cattolico. E’ un libro che contiene il germe di una rivoluzione e l’esempio è giovato a molti. Ma l’influenza di questo grande esempio non si è prolungata nel tempo né si è generalizzata quanto si sarebbe desiderato.
Troppo spesso da allora abbiamo avuto storici cattolici che, in contrasto con l’insegnamento del Salvatore, hanno voluto attaccare alla stoffa sempre nuova delle fede cristiana i lembi sempre vecchi, benché rinfrescati, della saggezza mondana. Donde giunge questa illusione? Dobbiamo scorgervi il segno di quella degradazione del carattere che gli storici stessi sottolineano oggi con tanta insistenza? Non oso dirlo perché significherebbe ritorcere contro di essi, ingiustamente, senza dubbio, il rimprovero che essi rivolgono ad altri. Ma è lecito pensare che se avessero più vivo il sentimento della dignità cristiana, sarebbero meno pronti a decantare i pregiudizi moderni. Come Donoso Cortés, si accorgerebbero finalmente che, da molti anni, noi voltiamo le spalle al progresso, e le ruote del nostro carro sono seppellite fino al mozzo in un solco dove moriremo se non ne usciremo con uno sforzo supremo. Pretendere di fare professione di fede per mezzo del naturalismo è insensato quanto in politica fare ordine per mezzo del disordine. Questo metodo ha cattiva riuscita, e le conquiste che si fanno non meritano questo nome. Che bel successo arrivare ad essere d’accordo sull’uso di certe parole sonore quanto perfide, quando si è divisi da un abisso circa il senso di tali parole! Sono le idee che vanno riformulate, e io non conosco mezzo più efficace della storia raccontata così com’è accaduta, con i suoi insegnamenti soprannaturali che fanno aleggiare la figura del Cristo sui più grandiosi così come sui più insignificanti movimenti dell’umanità.
La più grande disgrazia dello storico cristiano sarebbe di assumere come metro di giudizio le idee del giorno e trasporle nella sua valutazione del passato. Egli deve invece vederle nella loro realtà, cioè ostili al principio soprannaturale. Deve rendersi conto dei danni del paganesimo moderno e, per non esserne egli stesso soggiogato, deve senza tregua fissare l’immutabile verità rivelata, quale si manifesta nell’insegnamento e nella pratica della Chiesa. “Un sentimento nemico della fede, una sovraeccitazione dello spirito pagano” dice il signor de Champagny “è stato il soffio che ha scatenato la tempesta del 1789”. Se ancora ammirate le conquiste di quell’epoca, temo molto per i vostri giudizi storici e il tono dei vostri scritti, qualunque sia la vostra intenzione di ortodossia. Felice lo storico che in mezzo al turbinio di principi contraddittori, libero da ogni desiderio di popolarità, discepolo rigorosissimo della Chiesa alla quale appartiene l’avvenire del tempo e dell’eternità, saprà attraversare una crisi tanto terribile senza aver sacrificato minimamente la verità sul suo cammino!