S. GIOVANNA de LESTONNAC (1556-1640)

Prima di morire la santa volle bruciare gli scritti contenenti gl’intimi segreti del suo animo, ma i buoni esempi da lei dati non si cancellarono più dagli occhi delle sue figlie. Era sempre la prima al coro e al refettorio, quando bisognava praticare le solite penitenze. In memoria della Passione del Signore, di cui era devotissima, ogni venerdì scendeva in cucina per lavare i piatti, e ogni sabato serviva al secondo turno di mensa riservato alle sorelle coadiutrici. Praticò con vero rigore la povertà. Il giorno della settimana riservato alla Comunione, secondo l’uso del tempo, faceva una sola refezione; il venerdì si contentava di pane e acqua, e la quaresima di cibi non conditi. Dopo la morte fu trovata coperta di strumenti di penitenza.

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S. CATERINA de’ RICCI (1522-1590)

La vigilia del Natale 1542, Caterina vide il “piccolo Bambolino” posto sul fieno tra due animali. S. Tecla, che accompagnava la Vergine Maria, le presentò allora tre corone: una di spine, una d’argento e l’altra d’oro. Caterina, con un pianto dirotto, s’inchinò subito a ricevere la corona di spine per rassomigliare di più al celeste bambino che aveva stretto al seno e coperto di baci. A breve distanza da quella visione il capo verginale della santa fu visto imporporarsi di tracce sanguigne in forma di spine, e la spalla destra di lei apparve solcata da una lividura larga tre dita scendente a metà del dorso. Un giorno del 1543, dopo la comunione, appena rientrata in cella, Caterina fu riscossa dalla voce del Crocifisso. Si era staccato dal legno del suo supplizio, fitti ancora i chiodi nelle mani e nei piedi, per andarle incontro, abbracciarla, e raccomandarle tre solenni processioni nel monastero per implorare misericordia sui trascorsi degli uomini.

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B. TEOFANO VÉNARD (1829-1861)

Nel 1841 Vénard, dopo avere appreso un po’ di latino dal parroco, fu mandato a studiare nel collegio di Doué-la-Fontaine. Iniziò allora quella lunga serie di lettere, così piene di sensibilità, d’immaginazione e buon senso, da lui dirette al padre e alla sorella Melania, che in famiglia aveva preso il posto della madre. Negli ultimi due anni di studi, per l’incomprensione dei professori, il santo andò soggetto a una grave crisi da cui si riprese soltanto grazie alle raccomandazioni che da casa gli facevano il padre e la sorella. Nella sua profonda umiltà diceva: “Per essere prete, occorre essere un santo. Per dirigere gli altri, occorre innanzi tutto saper dirigere se stessi… Come potrei sopportare un genere di vita simile, io che sono così poco avanzato nel cammino della virtù?”.

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S. ANGILBERTO di ST-RIQUIER (750-814)

Il Santo abate volle avere attorno a sé 300 religiosi costituenti tre cori i quali, con il concorso di 100 fanciulli, cantassero perennemente l’ufficio divino nelle tre chiese per la salute di Carlo e la prosperità del suo regno. In occasione della consacrazione delle tre chiese e dei rispettivi altari, egli compose degli inni e delle iscrizioni in onore dei santi protettori. In essi, e più ancora nelle opere giunte sino a noi, vibra un soffio di pietà e di entusiasmo per le cose di Dio. Una prova dell’importanza che Angilberto rivestì al tempo di Carlo Magno è costituita dal fatto che egli, nell’811, fu uno dei quattro firmatari del testamento dell’imperatore i quali, dopo la morte di lui (28-1-814) avrebbero dovuto vigilare sull’esecuzione delle sue ultime volontà.

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S. Pier Damiani (1007-1072)

Nulla sfuggiva al suo vigile occhio. Egli esigeva l’assiduità alle ore canoniche diurne e notturne, voleva che i monaci praticassero la rigorosa povertà, non uscissero dall’eremo, e non si occupassero di negozi secolari. Alla preghiera i religiosi dovevano aggiungere il lavoro, la pratica di frequenti digiuni e mortificazioni in proporzione dei propri peccati.

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B. SEBASTIANO dell’APPARIZIONE (1502-1600)

Gli abitanti delle campagne, edificati dalla vita tanto mortificata di lui, lo consultavano nei loro dubbi e si raccomandavano alle sue preghiere perché Dio gli aveva concesso il dono della profezia e del miracolo. A chi gli dimostrava stima e venerazione diceva: “Levatevi di qui perché io sono soltanto un po’ di spazzatura di terra. E Dio che mi fa desiderare il bene che faccio. Se non mi sostenesse con la sua grazia sarei ancora peggiore di quello che sono”. Con i confratelli e con le persone del mondo non sapeva parlare che di Dio e lo faceva con tanta unzione da commuovere fino alle lacrime chi lo ascoltava.

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B. DANIELE BROTTIER (1876-1936)

Al P. Daniele non mancarono critiche e contrarietà per l’audacia dei suoi progetti, ma egli diceva: “Non bisogna dubitare della Provvidenza, ma pregare e agire. Con questi due mezzi si abbassano le montagne”. Quando giungeva la sera, era raro che non fosse stanco morto. Si udiva allora sovente mormorare: “Ho fatto tutto quello che ho potuto, Dio deve fare il resto”. Un giorno confidò al P. Pichon: “Si è detto che io sono fortunato! È vero, ho avuto della fortuna, Dio mi ha benedetto. Egli mi ha concesso di condurre a termine grandi opere… Posso però anche aggiungere… che la mia fortuna è stata di levarmi alle cinque del mattino e di andare a dormire alle undici di sera, se non a mezzanotte. La mia fortuna è stata di lavorare quanto ho potuto, di scrivere migliaia di lettere, di tentare incessantemente nuove iniziative, di essere ogni giorno sulla breccia, a tempo pieno, quasi a spianare ogni occasione”.

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B. FRANCESCA ANNA CIRER y CARBONELL (1781-1855)

Un giorno si sparse la voce che la beata nella chiesa parrocchiale era andata in estasi. La domenica, effettivamente, non dovendo lavorare in campagna, trascorreva in essa molte ore in adorazione per raccomandare a Dio le necessità di tutti gli uomini vivi e defunti, giusti e peccatori. Invece di recitare molte preghiere vocali, ella preferiva meditare la Passione del Signore, i dolori della Madonna e i principali misteri della fede. Sovente pensando a Dio, al paradiso, alla Madonna, andava in estasi e vi rimaneva fino a tre ore, secondo la testimonianza del suo stesso parroco-confessore Don Giovanni Molinas (+1872). Allora restava immobile, perdeva l’uso dei sensi e ogni tanto bisbigliava versetti del Magnificat e del Te Deum
 

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B. ANDREA CARLO FERRARI (1850-1921)

Don Giovanni Rossi, suo segretario, attestò di lui: “Non lo vidi mai un istante inoperoso: o pregava o scriveva o parlava”. “Sue prerogative erano: la proprietà in tutto, l’ordine in ogni cosa, la celerità dei mezzi”. “Suo motto era: “Fare molte cose e farle tutte bene””. A chi si lamentava della nequizia dei tempi, rispondeva: “Lamentarsi è inutile; bisogna fare, fare, fare!” oppure: “Ad ogni iniziativa cattiva opporne un’altra buona”. A nessuno dava del tu e tanto nelle circostanze più solenni quanto nei momenti più intimi, con il suo contegno non indulgeva mai a familiarità. Secondo Don Rossi, “quest’uomo, che visse un programma tutto di umiltà e di nascondimento, non palesò mai al di fuori, a chicchesia, le stupende meraviglie della sua vita interiore”.

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B. STEFANO BELLESINI (1774-1840)

P. Bellesini si era dedicato con vera arte pedagogica e squisita carità alla riorganizzazione delle scuole comunali nella speranza che il governo austriaco restituisse agli agostiniani il convento di San Marco e permettesse loro di riprendervi la vita claustrale. Nel 1817, vedendo inappagate le sue attese, rinunciò all’incarico affidategli ed espatriò clandestinamente da Trento per ricongiungersi alla sua famiglia religiosa che frattanto si era ricostituita a Bologna. Il governo austriaco lo richiamò a Trento comminandogli pene, ma avendo egli preferito restare fedele ai suoi voti, fu bandito per sempre dallo stato. Il beato in cuor suo ne esultò, ma perché fosse palese la sua innocenza, scrisse al fratello Angelo: “Ecco la solita paga del mondo, ecco come vanno a finire le sue ampie promesse.

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