di ANTONIO LIVI. ARISTOTELE (II). La filosofia della natura. Materia e forma; le quattro cause. Potenza e atto. La metafisica. Come Aristotele intende la metafisica. Il principio di non-contraddizione. L’essere come sostanza e gli accidenti. Dio nella metafisica aristotelica
di Antonio Livi,
tratto da:
“Dal senso comune alla dialettica. Una storia della filosofia”
Casa editrice Leonardo da Vinci, Roma 2004-2005
CAPITOLO TERZO
ARISTOTELE
Parte 2
3. La filosofia della natura.
Nello studiare il mondo fisico e le sue leggi Aristotele si distingue ancora di più da Platone in quanto riprende il metodo “naturalistico” di Democrito, scartando la speculazione puramente geometrica che caratterizza la filosofia platonica della natura. A proposito dei due metodi, Aristotele scrive espressamente: Tutti coloro che hanno dimestichezza con le cose della natura sono capaci di elaborare princìpi che si possono applicare a un vasto numero di fenomeni; al contrario, coloro che si fondano su tanti ragionamenti astratti e non partono dall’osservazione dei fatti concreti, postulano delle leggi generali con troppa facilità, perché hanno un limitato numero di cose concrete da spiegare. Da queste nostre considerazioni si vede quanta differenza intercorra tra coloro che esaminano la natura su basi fisiche e coloro che invece la esaminano a partire da princìpi meramente logici (Sulla generazione e la corruzione, I, 316 a 5-12).
Le critiche di Aristotele alla filosofia platonica della natura non riguardano solo il metodo in generale (cfr Sull’anima, I, 403 a 1; Fisica, III, 204 b 4-10; VIII, 264 a 8) ma anche molte concrete applicazioni: ad esempio, la deduzione della costituzione fisica dei corpi proposta da Platone nel Timeo a partire dalla loro struttura geometrica (cfr Sul cielo, III, 299 b 23-300 a 19). Per Aristotele la fisica presuppone la geometria, e la geometria presuppone l’aritmetica, ma non viceversa, per cui non è possibile dedurre l’esistenza dello spazio o estensione partendo dalla sola conoscenza dei numeri (cfr op. cit., III, 299 a 12-17; 300 a 15-19), così come non si possono spiegare le proprietà naturali dei corpi – come il peso o l’attrito – a partire da teoremi geometrici (cfr op. cit., III, 299 a 30-34). Da questa critica di Aristotele nei confronti del metodo matematico nella scienza del mondo fisico deriva l’ostilità alquanto preconcetta che gli scienziati di scuola aristotelica nutriranno nei confronti dell’utilizzazione dei modelli matematici in fisica, e da questa chiusura di principio deriveranno nel Seicento le accese polemiche con fisici come Galileo, fautori della formalizzazione matematica delle categorie fisiche, metodo che sarà all’inizio della scienza moderna (si veda più avanti, vol. II, cap. VII).
[Sensi e intelletto concorrono a svelare la natura del mondo]
Per Aristotele la ricerca fisica deve adoperare termini, definizioni e descrizioni dotate di significato fisico, nel senso che debbono fare riferimento a precisi contenuti di esperienza. L’esperienza di cui parla Aristotele è comunque qualche cosa di più della semplice raccolta di dati sensibili, perché la natura fisica delle cose è colta dall’intelletto, che distingue la “………….(usìa [ = sostanza])” dalle sue proprietà e dagli altri accidenti. Questo metodo, che potremmo chiamare empirico-metafisico, è senz’altro esente da certi errori dell’apriorismo razionalistico, ma non è certamente immune da altri errori che possano derivare dal non sufficiente equilibrio tra dati sensibili e intuizioni intellettuali. Come scrive giustamente un epistemologo argentino, il problema del metodo scientifico effettivo è complesso in Aristotele, il quale oscilla tante volte tra un’impostazione platonica e un’altra naturalistica. Tralasciando i possibili cambiamenti cronologici di tono, possiamo dire che nello studio degli astri egli è più platonico, più aprioristico, e si lascia trasportare addirittura da una forma di mitologia matematica; negli studi scientifici terrestri egli invece è più empirico e naturalistico (1).
[La fisica è subordinata alla metafisica] Dall’esperienza del mondo, secondo Aristotele, lo scienziato (ossia il filosofo) ricava tre diverse scienze: la metafisica o filosofia prima, che è la scienza fondamentale, quella che può stabilire i princìpi primi dai quali dipendono tutte le altre scienze; la matematica, che astrae dalla natura dei corpi il numero e l’estensione; e infine la fisica, che studia appunto le qualità sensibili dei corpi facendo astrazione solo dalle circostanze individuali. La fisica, dunque, ha bisogno di essere in qualche modo integrata dalla matematica per la determinazione quantitativa dei fenomeni, ma ha soprattutto bisogno della metafisica per interpretare i fenomeni alla luce delle nozioni di sostanza e di accidenti; di causa efficiente e finale, di materia e di forma. Scrive infatti Aristotele: «Siccome esiste qualcuno che nella scienza sta più in alto del fisico – giacché la natura non è che uno dei generi dell’essere -, allora proprio a costui – che si occupa delle ricerche intorno all’universale e alla sostanza prima – spetta lo studio dei primi princìpi; la fisica, dunque, pur essendo una certa specie di sapienza, non è la sapienza prima» (Metafisica, IV, 105 a 30-105 b 2). Rifacendoci ancora all’epistemologo argentino, possiamo dire che la scienza che interessa di più ad Aristotele – che pur è il creatore della logica, un geniale analista del linguaggio, un grande biologo – è la metafisica, la scienza che egli considera come la più libera, la più indipendente, l’unica che sia causa di sé stessa, ossia non finalizzata ad altre conoscenze scientifiche più elevate (2).
[Dall’esperienza fenomenica alle leggi fisiche]
Secondo Aristotele le leggi della fisica sono còlte dall’intelligenza sulla base dell’osservazione dei fenomeni. Le leggi o princìpi non sono di per sé osservabili, perché non si riferiscono a singoli fatti o fenomeni ma alla connessione necessaria tra alcuni fenomeni della medesima specie, per cui è solo l’intuizione del nesso causale e dell’essenza dei fenomeni a permettere l’induzione scientifica delle leggi che si pensa debbano regolare tutta una classe di fenomeni osservati. L’esperienza, tuttavia, può essere sempre una convalida osservabile del principio o legge generale a cui si è già pervenuti, e in questo senso Aristotele fa uso di una logica che modernamente viene chiamata “verificazionismo” e che è alla base degli esperimenti scientifici, che servono appunto a verificare le teorie.
La scienza fisica, comunque, richiede sempre il lavoro intellettuale e l’uso della dimostrazione; scrive infatti Aristotele: «Anche se si potesse percepire con i sensi che nel triangolo la somma degli angoli equivale a due angoli retti, noi dovremmo cercare una dimostrazione logica di questo rapporto» (Analitici Secondi, II, 90 a 28-29). La ricerca intellettuale è dunque per Aristotele l’unico modo di trascendere la mera esperienza dei fatti fisici per edificare la scienza della natura: ma ciò non è affatto arbitrario o aprioristico, perché l’esperienza (i fatti accertati e le generalizzazioni empiriche) ha sempre l’ultima parola, oltre ad avere la prerogativa di porre i problemi e di esigere spiegazioni. Come scrive Irwin, la scoperta di adeguati princìpi primi richiede che ci sia stata in precedenza un’adeguata esperienza: solo quando avremo un’adeguata esperienza saremo in grado di vedere ciò che è di per sé evidente. Aristotele non pretende, anzi nega, che ciò che è evidente in sé stesso debba essere sempre ovvio per noi prima di iniziare la ricerca scientifica. L’esigenza di una ricerca preliminare non banalizza comunque la necessità dell’intuizione. L’esperienza e la dimestichezza con i fenomeni sono utili per arrivare a intuire i primi princìpi; esse possono essere psicologicamente indispensabili per arrivare a formarsi delle intuizioni giuste, ma non sono parte integrante della giustificazione dei primi princìpi. Quando arriviamo ad avere l’intuizione di una verità capiamo che il principio è di per sé evidente e non ha bisogno di una giustificazione esterna (3).
Materia e forma; le quattro cause
Osservando le sostanze del mondo empirico, Aristotele interpreta metafisicamente la loro costituzione fisica attraverso le nozioni di “………[hyle ] = materia” e “………. [morphé] = forma”. Per “materia” Aristotele intende l’elemento determinabile (suscettibile di determinazione) della sostanza corporea, mentre per “forma” egli intende l’elemento determinante, ossia ciò che fa sì che quella sostanza sia di quel generee di quella specie. La forma aristotelica è quindi qualcosa di simile all’Idea platonica, in quanto causa la natura delle cose e pertanto la loro intelligibilità; ma il distacco da Platone è ugualmente netto – come già abbiamo visto – perché la forma è immamente alla sostanza, non trascendente come l’Idea platonica. Infati, per Aristotrele materia e forma sono “cause intrinseche” dell’essere della sostanza, mentre sono cause estrinseche l’agente (causa efficiente) e il fine (causa finale)
Potenza e atto
L’ente osservabile nell’esperienza del mondo – ivi compresa l’esperienza che l’anima ha di sé stessa – ha come caratteristica più evidente il movimento: l’ente dell’esperienza è l’ente “……………….[kìneton] = mobile”. Ma come spiegare il movimento, senza cadere nella teoria di Eraclito, che impedeisce al pensiero di pensare l’ente come sostanza identica a sé stessa, malgrado i cambiamenti? Ecco la soluzione di Aristotele: il movimento è «atto dell’ente in potenza i quanto in potenza» (si veda in Problemi di interpretazione, 2)
4. La metafisica.
[La metafisica, chiamata da Aristotele filosofia prima, studia ciò che è al di là delle apparenze sensibili]
Va ricordato innanzitutto che il termine “metafisica”, così spesso associato proprio al nome di Aristotele, non è aristotelico, essendo stato coniato tre secoli dopo da Andronico di Rodi, editore delle opere aristoteliche, il termine usato da Aristotele è quasi sempre quello di …………………………………. [prote philosophia = filosofia prima], in contrapposizione alle filosofie seconde che sarebbero le scienze filosofiche particolari (la fisica, l’etica, la logica), anche se non manca talvolta l’uso del termine ………………………………… [theología = scienza su Dio], in quanto il discorso metafisico si conclude e si perfeziona con la conoscenza di Dio come prima causa finale dell’intero universo. Comunque, il termine oramai abituale di “metafisica” ben si adatta alla natura di questa scienza filosofica secondo il criterio epistemologico di Aristotele stesso; egli infatti intende studiare in questo àmbito della filosofia la realtà che è colta dall’intelletto a partire dall’esperienza sensibile, ma superandone i limiti (la molteplicità, la contingenza, la frammentarietà, l’insignificanza) per considerarne gli elementi propriamente razionali (l’essere delle cose in quanto enti: la loro composizione di materia e forma, la loro essenza e la loro esistenza). Si può dunque ben dire che questa disciplina studia la realtà che sta “al di là delle esperienze sensibili”, cioè “al di là di ciò che è meramente fisico”. In questo senso Aristotele si colloca interamente nel solco della filosofia platonica: anche per Platone, infatti, la vera filosofia consiste nell’oltrepassare le apparenze sensibili dell’esperienza per cogliere la realtà intelligibile; l’unica differenza tra Platone e Aristotele sta nel fatto che il primo separava la realtà intelligibile da quella sensibile, mentre il secondo colloca entrambe nel cuore dell’esperienza, senza distinguere questo mondo in cui viviamo da un altro che dovrebbe essere più vero.
Come Aristotele intende la metafisica.
Si può capire come intenda Aristotele la metafisica considerando che definisce la “filosofia prima” attraverso quattro definizioni, diverse ma complementari; la metafisica infatti è per Aristotele: 1) la scienza che ricerca le cause prime e i princìpi ultimi della realtà; 2) la scienza che ha come oggetto l’essere in quanto essere; 3) la disciplina filosofica che si occupa non degli accidenti degli enti ma dell’ente in quanto sostanza; 4) il sapere che arriva a dire qualcosa su Dio come fine ultimo dell’universo. Vediamo adesso che cosa intende dire Aristotele con queste quattro differenti definizioni.
[La metafisica studia le cause prime]
Come si ricorderà, Aristotele definisce la scienza come conoscenza certa di un fenomeno risalendo alla sua causa; quando per “fenomeno” si intende l’insieme di tutti i fatti empirici che costituiscono il mondo (la prima evidenza del senso comune), la conoscenza scientifica del mondo implica la ricerca di cause universali, cioè di cause che non spiegano fatti particolari ma ogni genere di eventi di ogni tempo e di ogni luogo; inoltre, la mente umana non si accontenta di cause immediate (cause seconde), che rimandano ad altre precedenti, ma esige di conoscere le cause prime, che danno la spiegazione definitiva di come è fatto il mondo. Le prime cause sono infatti l’origine metafisica di tutto ciò che è fisico, e in quanto origine si possono chiamare anche “princìpi”; nella terminologia aristotelica la differenza tra causa e principio corrisponde alla differenza tra semplice apprensione e giudizio (cfr quanto detto prima, nel par. 2). Scrive in proposito Aristotele: «Ciò che può chiamarsi davvero sapienza si occupa, secondo l’opinione comune, delle prime cause e dei princìpi» (Metafisica, I, 1 981 b27).
[La metafisica ha come oggetto l’ente in quanto ente] Dopo aver definito in tal modo la metafisica nel libro primo della sua opera intitolata appunto Metafisica, nel libro quarto Aristotele ne dà un’altra definizione: C’è una scienza che studia l’ente in quanto ente e le proprietà che competono all’ente in quanto tale. Tale scienza non si identifica con nessuna di quelle altre scienze che chiamiamo “particolari” dato che nessuna di queste studia l’ente in quanto ente, l’ente in universale, ma ne circoscrive un determinato aspetto e studia le caratteristiche di questo solo aspetto parziale (op. cit., IV, 1 1003 a21). In questa definizione della metafisica Aristotele riprende il linguaggio di Parmenide (cfr cap. II, 3) individuando come oggetto della metafisica ……………… [to on = l’ente], ossia ciò che partecipa dell’…………………… [to éinai = l’essere]; ciò che di suo aggiunge Aristotele è la chiara demarcazione tra la metafisica – che ha come oggetto l’ente preso nella sua universalità – e le scienze particolari, che hanno come oggetto o alcune classi di enti (ad esempio, gli enti fisici) o alcune determinazioni dell’ente (ad esempio, la quantità).
[La metafisica considera l’ente in quanto sostanza]
Sempre nella Metafisica, ma ancora più avanti, nel Libro VII, Aristotele definisce ancora la metafisica dicendo: «Ciò che fin dall’antichità e anche ai nostri giorni e sempre costituisce l’oggetto eterno della ricerca e l’eterno problema è la domanda: che cos’è l’essere? E ciò equivale a chiedersi: che cos’è la sostanza?» (op. cit., VII, 1, 1028 b2). Con questa equiparazione tra essere e sostanza Aristotele manifesta la sua più forte e originale convinzione metafisica: per lui infatti l’essere si trova in concreto soltanto nella ………………………. [usía = sostanza] ossia nell’ente individuale considerato come fondamento di tutte le sue determinazioni (la quantità, la qualità, la relazione e gli altri “accidenti”) per questo si può dire che la metafisica aristotelica è la metafisica della sostanza, così come quella platonica era stata la metafisica delle Idee, e quella neoplatonica sarebbe stata la metafisica dell’Uno. Nei tempi moderni, una metafisica analoga a quella della sostanza aristotelica sarà la metafisica di Leibniz, che metterà a base della realtà la monade o sostanza individuale (vedi in séguito, vol. II, cap. VIII, 4).
[La metafisica studia il primo principio dell’universo: Dio]
Andando ancora più avanti nella Metafisica aristotelica, troviamo una quarta e ultima definizione della filosofia prima attraverso la determinazione del suo oggetto; scrive infatti Aristotele: «Esiste un’altra scienza diversa dalla fisica e dalla matematica, che studia l’ente separato e immobile, o meglio si domanda se esiste una sostanza di questo tipo, cioè una sostanza separata e immobile: l’esistenza di tale sostanza è ciò che intendiamo dimostrare. Poi, una volta dimostrato che tra gli enti vi è realmente uno con queste caratteristiche, tale ente sarà da considerare come Dio, e sarà il principio primo e più importante [di tutta la realtà]» (op. cit., XI, 7, 1064 a 34). In questo senso, il culmine e la conclusione scientifica della metafisica è la scoperta di Dio come primo motore immobile, origine e spiegazione di tutto il dinamismo del mondo; la dimostrazione scientifica dell’esistenza di Dio è l’ultima e più importante parola della metafisica aristotelica, che in questo non è diversa da quella platonica, come non è diversa da quella di Plotino, di Agostino, di Anselmo di Aosta, di Tommaso d’Aquino, di Giovanni Duns Scoto. Da ciò deriva, come abbiamo già detto, il nome di “teologia” che Aristotele dà talvolta alla metafisica, che altre volte chiama invece “filosofia prima”.
[Unità della metafisica di Aristotele] Alcuni interpreti autorevoli hanno dedotto da queste quattro diverse definizioni aristoteliche della metafisica un’evoluzione del pensiero di Aristotele, il quale avrebbe assunto successivamente quattro diversi criteri; altri hanno invece ipotizzato che la teologia sia una scienza particolare subordinata alla filosofia prima, che sarebbe la vera scienza dell’ente in quanto ente in universale; ma la maggior parte degli autori più recenti non vede come possa provarsi una evoluzione del pensiero di Aristotele né una sua visione frammentaria della metafisica . Seguendo questi ultimi, ci sembra di poter concludere che la teologia aristotelica non è una scienza particolare, ma non è nemmeno la metafisica come tale, in quanto è quella parte della metafisica che la perfeziona e la conclude con la scoperta del principio primo, ossia del primo motore immobile.
Il principio di non-contraddizione
Una volta chiarito, attraverso le quattro differenti determinazioni quale sia l’oggetto della metafisica, Aristotele individua qual è il primo principio logico che permette di fare metafisica, ossia di parlare dell’essere, degli enti, della sostanza, del divenire; questo primo principio logico è direttamente collegato alla nozione di essere e a quella di non-essere che gli si contrappone nell’esperienza della molteplicità e del divenire (la molteplicità implica che un ente non sia l’altro ente; il divenire implica che un ente passi dall’essere al non-essere e viceversa). Ecco come Aristotele formula questo importantissimo principio, asse portante della metafisica oltre che della logica: È impossibile che il medesimo attributo appartenga e allo stesso tempo non appartenga – sempre nel medesimo senso – a una determinata cosa. […] Questo è dunque il più solido di tutti i princìpi. […] In effetti è impossibile che uno pensi che una medesima cosa è e non è, come sosteneva Eraclito, almeno a quanto dicono alcuni. […] Pertanto, tutte le dimostrazioni si rifanno a quest’ultima nozione, ed essa costituisce per sua natura il principio di tutti i princìpi della scienza (Metafisica, IV, 3, 1005 b19). Anche se si tratta di un principio chiaramente logico (in quanto regola i giudizi di attribuzione e di esistenza, stabilendo ciò che si può dire o non si può dire), il principio di non-contraddizione riguarda direttamente l’essere e la sua intelligibilità, e pertanto spetta alla metafisica scoprire questo principio, giustificarlo e difenderlo dialetticamente. Dice Aristotele che il principio di non contraddizione non può essere dimostrato (ogni possibile dimostrazione lo deve necessariamente presupporre) ma può essere indirettamente confermato attraverso la confutazione di chiunque pretenda di negarlo: infatti, attraverso il procedimento dialettico, si può mostrare che qualsiasi ragionamento che pretenda di negare il principio di non-contraddizione finisce per essere un discorso senza senso, in quanto solo mantenendo quel principio si può dire qualcosa che abbia un senso determinato (che non coincida con il suo contrario); il solo fatto di dire qualche cosa che abbia un senso implica l’uso e l’accettazione del principio di non contraddizione (cfr Metafisica IV, 4; XI, 5).
Come scrive giustamente un metafisico italiano, la dottrina dell’essere di Aristotele va vista in diretto rapporto alla posizione di Parmenide. Anche la critica di Aristotele a Platone si risolve ultimamente nella critica a Parmenide: Aristotele critica Platone perché Platone, sia pure modificando Parmenide, resta prigioniero della sua concezione dell’essere. Ecco infatti come Aristotele critica l’Idea dell’essere come qualcosa di opposto alla molteplicità degli enti: «Le ragioni che hanno fuorviato questi pensatori [Platone e la sua scuola], portandoli a postulare queste cause [l’Uno e la Diade], possono variare , ma quella principale consiste nel fatto che essi hanno impostato il problema in termini primitivi; essi, infatti, ritenevano che tutti gli enti si sarebbero dovuti ridurre a uno solo, cioè all’essere in sé, se non si riusciva a superare e a confutare la tesi di Parmenide: “Non riuscirai mai a fa sì che il non-essere sia”. Così essi ritennero che fosse necessario mostrare che il non-essere è, in modo che gli enti derivino dall’essere e anche da qualcosa di diverso dall’essere, visto che sono molteplici» (Metafisica, N, 2, 1088 b 35-1089 a 6). La soluzione di Aristotele è invece l’interpretazione dell’esperienza – che attesta la molteplicità degli enti – alla luce di una nozione non univoca ma diversificata di essere; infatti, dice Aristotele, l’essere si dice in molti modi, ossia in molti sensi diversi .
Secondo Enrico Berti, il valore dell’affermazione “l’essere si dice in molti sensi” è il seguente: molti sono i sensi in cui si dice che una cosa “è”; anzi, per non dare all’ “è” un valore solo esistenziale, il quale non è che uno dei molti sensi dell’ “è”: molti sono i sensi in cui si dice che una cosa è qualcosa.
Il termine “ente”, in effetti, si può applicare a tutti gli enti indistintamente: non però nello stesso senso (univocità), e nemmeno in un senso sempre totalmente diverso (equivocità); tra univocità ed equivocità esiste una possibilità logica intermedia che Aristotele chiama relazione ………………………. [pros hen = verso l’Uno], un tipo di relazione logica che gli scolastici chiameranno “analogia”. Aristotele chiarisce questo esempio della salute corporale: «L’ente si dice con molti sensi, ma sempre in rapporto a una unità e a una realtà determinata. L’ente dunque non si dice usando una mera omonimia ma si dice nel modo con cui chiamiamo solitamente “sano” tutto ciò che si riferisce alla salute, ossia ciò che la conserva, ciò che la produce, ciò che ne è sintomo, o ciò che è capace di riceverla» (Metafisica, IV, 2 1003 a33). Aristotele vuol dire che effettivamente, nel linguaggio ordinario, possiamo usare l’aggettivo sano per un cibo (che produce sanità), o per un clima (che conserva la sanità), o per una buona cera (che ne è sintomo) o infine per un organismo (che ne è capace); in tutti questi casi abbiamo un esempio di uso analogico dell’aggettivo sano, il quale principalmente e direttamente riguarda l’ultimo caso, cioè l’organismo. Così, attraverso l’analisi del linguaggio ordinario Aristotele fa riflettere sull’uso analogico dei concetti, per far capire sull’uso analogico della nozione più universale, quella di ente.
L’essere come sostanza e gli accidenti
Così come l’aggettivo “sano” si attribuisce principalmente all’organismo biologico, il termine “ente” secondo Aristotele si attribuisce principalmente alla …………………… [usía = sostanza], che, come abbiamo detto, è il centro della metafisica aristotelica. Per Aristotele “sostanza” significa l’ente individuale concretamente esistente: questo uomo, questo albero, il sole, la luna, io stesso … Il termine “ente” va dunque inteso in primo luogo come riferito a una sostanza: solo in secondo luogo esso può essere riferito ad altro, ossia a tutto ciò che radica nella sostanza stessa o in qualche modo la riguardano dall’esterno; dice infatti Aristotele: «L’ente dunque si dice in molti sensi, ma tutti fanno capo a un unico principio; infatti, a volte diciamo “ente” perché parliamo di una sostanza, altre volte perché ci riferiamo ad attributi della sostanza oppure a fenomeni di corruzione, di privazione, di qualità o di cause che producono o generano la sostanza stessa» (op. cit., 1003 b5).
Dio nella metafisica aristotelica
Il movimento delle sostanze corruttibili, che Aristotele ha studiato nella sua filosofia della natura e che compongono il mondo “sublunare”, si spiega, secndo Aristotele, con l’azione esercitata su di esse dalle sostanze incorruttibili, che sono quelle “celesti” (Sole, Luna, stelle); queste, a loro volta, hanno un movimento eterno (desfritto dall’astronomia tolemaica) che si spiega per via di una sostanza incorruttibile e immobile, eterna e perfetta, che tutto muovo in quanto tutto tende alla perfezione somma di questa sostanza, che è Dio. Aristotele vede dunque Dio come il fondamento razionale del movimento di tutto il cosmo; Egli è “…………………………………………………….(ho akìneton kinùn, ho pròton [ = il primo motore immobile])”.
L’immobilità di Dio va intesa – si badi bene – rispetto al movimento “transeunte” o “azione verso un fine esterno” al soggetto: non riguardo al movimento “immanente” che è perfezione del soggetto stesso. Infatti, per Aristotele la natura del “primo motore immobile” è di essere “vita” (cioè operazione immanente), e vita nel senso più elevato e perfetto, ossia “intelletto”, “………………(nus [ = pensiero])”. Dio è pensiero che contempla eternamente la perfezione del proprio essere spirituale: Egli è “…………………………..(nòesis noèseos [ = pensiero di pensiero])”, e in questa aucoscienza sta la beatitudine di Dio. Scrive infatti Aristotele: «Il pensiero che è pensiero per sé ha come oggetto ciò che è di per sé perfetto; dunque, il pensiero che è pensiero in massimo grado deve avere per oggetto ciò che è perfetto in massimo grado. […] In questo senso Dio è vita, perché l’attività dell’intelletto è vita, ed Egli è appunto quell’attività. E la sua attvità, che sussiste di per sé, è la vita più felice ed è vita eterna. Diciamo infatti che Dio è vivente, eterno e massimamente buono; proprio per questo a Dio corrisponde una vita perennemente continua ed eterna: Dio è dunque così» (Metafisica, XII, 7, 1072b 10-30).
Questa nozione di Dio resterà alla base di tutte le formulazioni metafisiche che di Dio daranno i filosofi dopo l’avvento del cristianesimo (vedi più avanti, cap. VI), e soprattutto Tommaso d’Aquino (vedi cap. X); Dio è infatti concepito nell’unico modo possibile per la metafisica, e in perfetta rispondenza con l’intuizione del senso comune: come spiegazione ultima del mondo, come fondamento metafisico dell’esperienza, come causa prima della realtà empirica. Certamente, il Dio di Aristotele ha molti limiti: Egli muovo il mondo non come causalità efficiente ma soltanto come causalità finale, in virtù della sua perfezione somma che attira tutti gli altri enti (Dante si rifà a questa concezione di Dio scrivendo che Egli è “l’amor che muove il sole e le altre stelle”); il che significa che Dio spiega solo qualcosa del mondo, e soprattutto non spiega l’essere del mondo. In altri termini, il Dio di Aristotele non è creatore, come non lo è il Dio di Platone: anzi, tra Dio e mondo vi è maggiore estraneità nella concezione di Aristotele che in quella di Platone, perché nel sistema platonico l’essere del mondo è partecipazione dell’essere delle Idee, tra le quali l’Idea del Bene. Per Platone, conoscere il mondo è una strada per conoscere Dio come verità ultima del mondo stesso, che partecipa di Dio; per Aristotele, invece, la conoscenza di Dio è riservata esclusivamente a Dio stesso: all’uomo non resta che studiare questo mondo, le cose che sono alla portata del suo intelletto. L’uomo aristotelico non si sente figlio di Dio, e nemmeno creatura di Dio; ritiene che Dio – immerso da sempre nella sua autocontemplazione – non pensi a lui e che nemmeno ascolti la sua preghiera, e quindi non gli resta che coltivare la virtù per vivere una vita che sia la migliore possibile in questo mondo, nell’àmbito della polis. In altri termini, vi è in Aristotele un netto distacco della morale (che ora studieremo) dalla religione e dalla mistica: proprio il contrario di quello che vedremo nella filosofia cristiana e anche in quella neopagana di Plotino (vedi cap. VII).
(si veda più avanti, nei Problemi di interpretazione, quello che scrive Enrico Berti)
(Continua)
1. Armando Carlini, Introduzione ad Aristotele, La Metafisica, Laterza, Bari 1928, p. 19.
2. L’attualità della logica aristotelica è efficacemente illustrata da Enrico Berti, Le ragioni di Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1989; per altri aspetti si veda: idem, Aristotele nel Novecento, Laterza, Roma-Bari 1992.
3. Storia della filosofia, vol. I: Antichità e Medioevo, La Scuola Editrice, Brescia 1966, p. 131.