Tratto da “CRISTO NEI SUOI MISTERI. Conferenze Spirituali e Liturgiche”, di COLUMBA MARMION O. S. B. La Chiesa chiama «santa» la risurrezione di Gesù. Duplice elemento costitutivo della santità. I. Cristo risuscitato è esente da ogni infermità umana. II. Meravigliosa pienezza della «Vita per Iddio» nel Cristo trionfante. III. Il battesimo inizia in noi la grazia pasquale. IV. Completa appartenenza a Dio: Viventes Deo; sua realizzazione nell’anima. V. In qual modo, con la contemplazione del mistero e la comunione eucaristica, affermiamo in noi questa duplice grazia pasquale. VI. La risurrezione dei corpi esaurisce la manifestazione della grandezza di questo glorioso mistero. Gioia che nasce nell’anima nostra per l’unione con Cristo risuscitato; l’Alleluia pasquale.
La Chiesa chiama «santa» la
risurrezione di Gesù. Duplice elemento costitutivo della
santità
Tutto il mistero di
Cristo nel periodo della sua Passione può riassumersi in
questa parola di S. Paolo (Philip. II, 8): «Egli si è
umiliato, facendosi obbediente fino alla morte». Abbiamo veduto
fino a qual punto Cristo si sia abbassato, come abbia toccato il
fondo delle umiliazioni, come abbia scelta «la morte di un
maledetto», come era stato scritto (Deut. XXI, 23; Galat.
IIl, 13).
Se non che questi
abissi d’ignominie e di dolori in cui Gesù si è voluto
sprofondare erano parimenti abissi di amore e questo amore ci ha
meritato la misericordia del Padre suo e tutte le grazie di salute e
di benedizione. Se la parola «umiliazione» riassume il
mistero della Passione, vi è una parola, dice similmente S.
Paolo, che riepiloga per Cristo il mistero della sua risurrezione
(Rom. VI, 10), «Egli vive per Iddio». Vivit:
non vi è più ormai in lui che vita perfetta e gloriosa,
senza infermità né prospettiva di morte
(Ibid. 9) vita
interamente dedicata a Dio e votata più che mai al Padre suo
ed alla sua gloria.
Nelle sue litanie,
la Chiesa applica denominazioni speciali ad alcuni dei misteri di
Gesù. Cosi della sua risurrezione dice che è «santa».
Che cosa vuol dire con questa parola? Non sono tutti santi i misteri
di Gesù? Senza dubbio. Egli stesso è «il Santo
per eccellenza»: Tu solus sanctus, noi cantiamo alla
messa nell’inno del Gloria.
E tutti i suoi misteri sono santi. «La sua nascita è
santa» (Luc. I, 35) tutta la sua vita è santa;
«egli ha sempre fatto quanto era gradito al Padre» (Joan.
VIII, 29), né mai alcuna persona poté convincerlo
di peccato (Cf. Joan. VIII, 46). Santa è la sua
passione perché, sebbene muoia per i peccati degli uomini,
santa tuttavia ed immacolata è la vittima e senza macchia
l’agnello, ed è «santo, innocente, giusto, separato dai
peccatori», (Hebr. VII, 26) il pontefice stesso che
s’immola.
Perché
dunque la risurrezione, a preferenza di tutti gli altri misteri, è
dalla Chiesa chiamata santa? Perché sopratutto in questo
mistero Gesù Cristo realizza le condizioni della santità;
perché lo stesso mistero mette in particolare evidenza gli
elementi che formalmente costituiscono la santità umana, la
quale trova in Cristo e la sorgente e il modello; e finalmente perché
se in tutta la sua vita Gesù Cristo è sempre la via
(Joan. XIV, 6) e la luce, (Ibid. VIII, 12) dando sempre
l’esempio di tutte le virtù compatibili con la sua divinità,
sopratutto nella sua risurrezione è l’esemplare della santità.
Quali sono gli
elementi costitutivi della santità? Questa può ridursi
per noi a due elementi: l’allontanamento da ogni peccato, il distacco
da ogni creatura; l’adesione totale e duratura a Dio.
Ora ambedue questi caratteri s’incontrano specialmente nella
risurrezione, come vedremo, e si incontrano a tale apogeo quale non
si era visto prima che uscisse dalla tomba; sebbene Cristo sia sempre
stato in tutta la vita il «santo» per eccellenza,
tuttavia, sotto questo aspetto ci si rivela con sfolgorante chiarezza
sopratutto nella sua risurrezione. Giustamente canta la Chiesa: Per
sanctam resurrectionem tuam.
Contempliamo dunque
questo mistero di Gesù che balza vivo e glorioso dal sepolcro.
Vedremo come la risurrezione sia il mistero del trionfo della vita
sulla morte, del celeste sul terrestre, del divino sull’umano e che
realizza veramente, e in modo eminente, l’ideale di ogni santità.
I. Cristo
risuscitato è esente da ogni infermità umana.
Che cosa era Gesù
Cristo prima della sua risurrezione? Era Dio ed Uomo. Il Verbo stesso
aveva assunta una natura appartenente a una razza peccatrice, e,
quantunque questa umanità da lui assunta non abbia contratto
il peccato, tuttavia è stata soggetta alle infermità
corporee compatibili con la divinità e che in noi sono sovente
conseguenza della colpa (Is. LIII, 4).
Guardate nostro
Signore nella sua vita mortale. Nella grotta è un piccolo
bimbo, debole, che ha bisogno del latte della madre sua per
mantenersi la vita; più tardi provò la fatica e la
stanchezza (Joan. IV, 6), una reale stanchezza che sentiva
nelle sue membra; il sonno, perché un vero sonno chiuse tante
volte le sue palpebre. Gli Apostoli dovettero svegliarlo quando la
barca nella quale dormiva cominciò ad essere agitata dalle
onde infuriate (Matth. VIII, 24-25; Marc. IV, 38; Luc. VIII,
23-24). Egli ha conosciuto pure la fame (Matth. IV, 2; Luc.
IV, 2) la sete (Joan. XIX, 28); la sofferenza. Ha provato
afflizioni interiori: nel giardino degli Ulivi, la paura, la noia,
l’angoscia, la tristezza si abbatterono sull’anima sua (Matth.
XXVI, 37-38; Marc. XIV, 33-34). Finalmente ha sostenuto la morte
(Joan. XIX, 50).
Egli ha condivise
le nostre debolezze, le nostre infermità, i nostri dolori; e
soltanto il peccato e tutto ciò che è sorgente o
conseguenza morale di esso è stato a lui sconosciuto (Hebr.
11,17; IV, 15).
Se non che dopo la
risurrezione tutte queste infermità sono scomparse. Non si
riscontra più in lui né sonno, né stanchezza, né
infermità. Nostro Signore non prova più nulla di tutto
questo, ed è separato ormai completamente da tutto quanto è
debolezza. Il suo corpo non è più dunque reale? Certo,
perché è il medesimo corpo che ha ricevuto da Maria e
che ha sofferto la morte sulla croce. E osservate come Cristo ci
tenga a manifestare il suo corpo per tale. La sera della sua
risurrezione appare agli Apostoli. «Presi da stupore e da
spavento essi credono di vedere uno spirito.
Ma egli dice loro: Perché vi turbate e sorgono dubbi nel
vostro cuore? Guardate le mie mani e i miei piedi: sono ben io.
Toccatemi e considerate che uno spirito non ha né carne né
ossa come voi vedete che io ho. E mostrò loro le mani ed i
piedi» (Luc. XXIV, 37-40).
Tommaso era allora assente. Abbiamo visto il Signore, gli dicono al
suo ritorno gli altri discepoli. Tommaso non vuol credere e resta
scettico. Se non vedo, egli esclama, i fori dei chiodi nelle sue mani
e se non metto il dito nel posto dei chiodi e la mano nel suo
costato, non crederò. Otto giorni dopo Gesù appare loro
di nuovo, e dopo aver loro augurata la pace dice a Tommaso: «Metti
qui il tuo dito e osserva le mie mani, appressa la tua mano e mettila
nel mio costato e non esser più incredulo ma fedele»
(Joan. XX, 24-27).
Gesù fa
constatare personalmente agli Apostoli la realtà del suo corpo
risuscitato. Ma questo corpo è ormai immune dalle infermità
della terra, è un corpo agile che la materia non arresta, ed
egli esce da una tomba scavata nella roccia il cui ingresso è
chiuso da una pietra pesante e può presentarsi, a porte chiuse
(Ibid. 26), nel luogo dove gli Apostoli erano raccolti. Se
egli prende cibo con i suoi discepoli non lo fa perché abbia
fame, ma perché intende con la sua misericordiosa
condiscendenza confermare la realtà della sua risurrezione.
Questo corpo
risuscitato è ormai immortale perché se è morto
una volta (Rom. VI, 10), d’ora innanzi, dice S. Paolo, «Cristo
risuscitato non muore più e la morte non ha più potere
su lui»; il corpo di Cristo risuscitato non è più
soggetto né alla morte né alle condizioni del tempo, ma
è affrancato da ogni servitù e da ogni infermità
già contratta nell’Incarnazione; è impassibile,
spirituale, dotato di una vita soprannaturale, indipendente.
Questo è il
primo elemento della santità in Cristo: la lontananza di tutto
ciò che è morte, o terrestre o creatura,
l’affrancamento da ogni debolezza, infermità e passibilità.
Nel giorno della
sua risurrezione Gesù Cristo ha lasciato nella tomba i
lenzuoli che sono il simbolo delle nostre infermità, delle
nostre debolezze, delle nostre imperfezioni; esce trionfante dal
sepolcro nella libertà più completa, animato da una
vita intensa e perfetta che fa vibrare tutte le fibre del suo essere.
In lui tutto ciò che è mortale è assorbito dalla
Vita.
II. Meravigliosa
pienezza della «Vita per Iddio» nel Cristo trionfante.
Indubbiamente
vedremo il Cristo risuscitato toccare ancora la terra: l’amore per i
suoi discepoli, la pietà della loro debolezza, lo spingeranno
ancora a presentarsi ad essi, a parlare con essi e a sedere con loro
a mensa; ma la sua vita è prima di tutto celeste: Vivit
Deo.
Noi quasi nulla
sappiamo di questa vita celeste di Gesù il giorno dopo la sua
risurrezione, ma possiamo forse dubitare che non sia stata mirabile?
Egli ha provato al Padre suo come l’amasse dando la sua vita per gli
uomini; ora tutto è pagato, tutto è espiato, la
giustizia soddisfatta non reclama più nulla, l’amicizia tra
Dio e gli uomini è rinsaldata, è compiuta l’opera della
redenzione. Se non che il culto di Gesù per il Padre suo
continua più vivo e più completo che mai. Il Vangelo
non ci dice nulla di questo omaggio di adorazione, di amore e di
azioni di grazie che Cristo rendeva allora al Padre suo, ma S. Paolo
tutto riassume dicendo: Vivit Deo, «egli vive per Iddio
».
E’ il secondo
elemento della santità: l’adesione, l’appartenenza, la
consacrazione a Dio.
Solo nel cielo
sapremo con quale pienezza viveva Gesù per il Padre suo in
quei santi giorni, ma è certo che visse con una perfezione che
mandava in estasi gli angeli. Ora che la sua santa umanità è
libera da ogni necessità, affrancata da ogni infermità
o condizione terrestre, essa si consacra come non mai, alla gloria
del Padre.
La vita di Cristo
risuscitato diviene una sorgente infinita, di gloria per il Padre
suo; non c’è più in lui nessuna debolezza; tutto in lui
è luce, forza, bellezza e vita; tutto in lui canta un eterno
cantico di lode.
Se l’uomo compendia
in se stesso tutti i regni della creazione per riassumervi anche
l’inno ai ogni creatura, come potremo farci un’idea del canto eterno
che canta alla Trinità l’umanità di Cristo glorioso,
pontefice supremo, vittorioso della morte?
Questo inno,
espressione perfetta della vita divina che d’ora innanzi avvolge e
penetra con tutta la sua potenza e tutto il suo splendore la natura
umana di Gesù, è veramente ineffabile…
III. Il battesimo inizia in noi la grazia
pasquale.
Dottrina di S. Paolo. In qual modo il cristiano, col
tenersi lontano da ogni peccato e col distacco da ogni creatura, deve
imitare, in tutta la sua esistenza, la libertà spirituale di
Cristo glorioso.
Tale la vita di
Cristo risuscitato. E’ il modello della nostra perché Cristo
ha meritato per noi la grazia di vivere come lui per Iddio, e di
associarci alla sua condizione di risuscitato.
Egli non ci ha
meritato questo con la sua risurrezione, perché dal momento
che Cristo ha reso l’ultimo respiro ha raggiunto l’ultimo termine
della sua esistenza mortale e non può più meritare
avendo ormai tutto conseguito per noi col suo sacrificio iniziato sì
coll’Incarnazione e compiuto sulla croce. I suoi meriti però
rimangono dopo la sua uscita gloriosa dalla tomba. Osservate come
Gesù abbia voluto conservare le gloriose cicatrici delle sue
piaghe per mostrarle al Padre suo in tutto il loro splendore come
titoli alla comunicazione della sua grazia (Hebr. VII, 25).
Come sapete, noi
partecipiamo fin dal battesimo a questa grazia della risurrezione. Lo
afferma S. Paolo: «Per il battesimo siamo stati seppelliti con
Cristo nella morte; perciò come Cristo è risuscitato
per la potenza del Padre, così bisogna che camminiamo vivendo
una nuova vita» (Rom. VI, 4).
L’acqua santa in
cui fummo immersi nel battesimo è, secondo l’Apostolo,
immagine del sepolcro, e uscendo da essa l’anima resta purificata di
ogni colpa, di ogni sozzura, affrancata da ogni morte spirituale, e
rivestita della grazia, principio di vita, al modo stesso che Cristo,
uscendo dalla tomba, si è spogliato di ogni infermità
per vivere una vita perfetta. Nella Chiesa primitiva il battesimo non
era amministrato che nella notte pasquale o nella Pentecoste che
chiude il periodo della santa Pasqua. Non capiremo quasi nulla della
liturgia della settimana pasquale se non teniamo continuamente
dinanzi ai nostri occhi il conferimento solenne che vi si faceva
allora del battesimo (*Vedere nel volume Cristo vita
dell’anima la conferenza: Il battesimo, sacramento di
adozione divina e di iniziazione cristiana: la morte al peccato e la
vita per Dio). Noi dunque siamo risuscitati con Cristo e per
Cristo che desidera infinitamente comunicarci la sua vita gloriosa.
Che cosa è necessario per rispondere a questo divino desiderio
e diventare simili a Gesù risuscitato? Bisogna che viviamo
nello spirito del nostro battesimo. Bisogna che, rinunziando a tutto
ciò che nella nostra vita è contaminato dal peccato,
facciamo morire in noi «l’uomo vecchio» (Rom. VI, 6)
e vi facciamo trionfare la grazia. Qui è tutta la santità:
allontanarci dal peccato, dalle occasioni del peccato, dalle
creature, da tutto ciò che è terrestre, per vivere in
Dio, per Iddio, con la più grande pienezza e la maggiore
stabilità possibile.
Quest’opera
iniziatasi col battesimo continua durante la nostra esistenza
terrena. Cristo non muore che una volta e ci ha reso possibile con
ciò di morire a tutto quello che è peccato; ma noi
dobbiamo «morire» ogni giorno perché conserviamo
le radici del peccato e l’antico nemico lavora senza tregua per farle
ripullulare. Distruggere
in noi queste radici, guardarci da ogni infedeltà, da ogni
creatura, amata per se medesima. eliminare dalle nostre azioni ogni
movente non solo colpevole, ma anche meramente naturale, affrancarci
da tutto ciò che è creato o terreno, tenere libero il
cuore, in una spirituale libertà: ecco il primo elemento della
nostra santità, quello stesso che Cristo ci mostra realizzato
in lui in quella sovrana e mirabile indipendenza nella quale vive la
sua umanità risuscitata. E’ questo uno degli aspetti più
notevoli della grazia pasquale.
S. Paolo l’ha messa
in evidenza con parole quanto mai espressive. «Purificatevi del
vecchio fermento, diceva, per diventare una nuova pasta. Da quando
Gesù, nostro agnello pasquale, è stato immolato per
noi, voi siete divenuti dei pani azimi. Solennizziamo pertanto la
festa non col vecchio lievito, né col lievito della malizia e
della malvagità, ma con gli azimi della verità e della
purità» (I Cor V, 7-8). Questa viva esortazione
dell’Apostolo costituisce l’epistola della messa di Pasqua. Essa
sembrerà oscura a più d’un cristiano dei giorni nostri,
eppure la Chiesa ha scelto tra tutti questo passo per riassumere la
nostra condotta quando celebriamo il mistero della risurrezione.
Perché questa scelta? Perché questo passo esprime con
chiarezza non meno che con profondità il frutto che deve
ricavare l’anima da questo mistero. Che significano dunque queste
parole? Voi sapete che presso il popolo d’Israele, all’avvicinarsi
della festa di Pasqua che
agli Ebrei ricordava l’anniversario famoso del «passaggio
dell’angelo sterminatore», (Pasqua significa passaggio. Cf.
Exod XII, 26-27), vi
era l’obbligo di far sparire dalle case ogni traccia di lievito; e il
giorno della festa, dopo avere immolato l’agnello pasquale, lo si
mangiava con dei pani azimi, cioè non fermentati (Ibid.
XII, 8, 15).
Tutto ciò
non era che «figura e simbolo» (I Cor. X, 6, 11)
della vera Pasqua, della Pasqua cristiana. «Purificatevi di
ogni vecchio lievito»,
«spogliatevi del vecchio uomo», (Eph. IV, 22; Col.
III, 9) nato nel peccato, dalle sue cupidigie cui voi avete
rinunziato con il battesimo; poiché in quel momento della
rigenerazione battesimale avete partecipato alla morte di Cristo che
faceva morire in voi il peccato; (Cf. Rom. VI, 2 seq) voi
siete divenuti e dovete rimanere, per la grazia, una pasta nuova,
cioè una «nuova creatura», (II Cor. V, 17)
«un uomo nuovo»,
(Eph. IV, 24) sull’esempio di Cristo uscito glorioso dal
sepolcro. Come i Giudei nel giorno di Pasqua si astenevano da ogni
lievito per mangiare l’agnello pasquale, «anche voi, o
cristiani, che volete prender parte al mistero della risurrezione e
unirvi a Cristo, Agnello immolato e risuscitato per voi, non dovete
più vivere nel peccato, ma guardarvi da tutti i cattivi
desideri che sono come un lievito di malizia e di perversità,
(Rom. VI, 12) e conservare in voi la grazia che vi farà
vivere nella verità e nella sincerità della legge
divina.
Ecco la dottrina
che S. Paolo ci spiega il giorno stesso di Pasqua e che contrassegna
il primo elemento della nostra santità: rinunciare al peccato,
ad ogni umano movente che possa, come un vecchio lievito, corrompere
le nostre azioni, vivere, rispetto al peccato e ad ogni essere
creato, in quella libertà di spirito che risplende cosi
vivamente nel Cristo risuscitato.
Noi chiediamo
questa grazia a Gesù stesso in quella strofa che si ripete in
ciascuno degli inni pasquali:
Quaesumus,
auctor omnium,
In hoc paschali
gaudio,
Ab omni mortis
impetu
Tuum defende
populum,
(Inno del Vespro,
del Mattutino e
delle Laudi [breviario monastico])
«Vi
supplichiamo, o Dio, che siete l’autore di tutte le cose, di
difendere il popolo vostro da ogni attacco di morte, in questi giorni
pieni della gioia di Pasqua». Noi chiediamo a Cristo di
preservare il popolo suo
quel popolo «che si è guadagnato col suo sangue»,
(Act. XX, 28) dice S. Paolo, «affinché gli fosse
accettabile» (Tit. II, 14)
e da che cosa preservarlo? Da ogni attacco di morte spirituale, vale
a dire da ogni peccato, da tutto ciò che conduce al peccato, o
che tende a distruggere o a smorzare in noi la vita della grazia.
Allora veramente potremo far parte di «quella società
che Cristo vuole senza macchia, né ruga, ma santa ed
immacolata»
(Eph. V, 27).
IV. Completa appartenenza a Dio: Viventes Deo;
sua realizzazione nell’anima.
L’altro elemento
della santità, quello che conferisce al primo la sua ragione
d’essere e il suo valore, è l’appartenenza a Dio, l’adesione a
Dio, che S. Paolo chiama «vivere per Iddio»: Viventes
Deo (Rom. VI, 11).
Questa vita per
Iddio comprende una infinità di gradi. Essa implica anzitutto
la separazione completa da ogni peccato mortale essendovi tra questo
e la vita divina assoluta incompatibilità. Implica
secondariamente la separazione dal peccato veniale, dalle radici del
peccato e da ogni naturale motivo, il distacco da tutto ciò
che è creato. Più è completa la separazione, più
siamo spiritualmente liberi e più si sviluppa e si eleva in
noi la vita divina: a misura che l’anima si libera dall’umano si apre
al divino e gusta le cose celesti e vive della vita di Dio.
In questo stato
felice l’anima non soltanto è libera da ogni peccato, ma non
agisce più che sotto l’ispirazione della grazia e per motivi
soprannaturali. E quando questo motivo si estende a tutte le azioni,
quando l’anima, con un movimento di amore abituale e stabile,
riferisce tutto a Dio, alla gloria di Cristo e a quella del Padre
suo, in lei c’è la pienezza della vita e c’è la
santità: Vivit Deo.
Voi osserverete
che, nel tempo pasquale, la Chiesa ci parla sovente di vita non solo
perché Cristo, con la sua risurrezione, ha vinto la morte, ma
sopratutto perché ha riaperto alle anime le sorgenti della
vita eterna. E’ in Cristo che troviamo questa vita (Joan. XIV, 6).
E la Chiesa con tanta frequenza ci fa rileggere in questi giorni
benedetti la parabola della vite: «Io sono la vite, dice Gesù,
voi siete i tralci, rimanete in me ed io in voi, perché senza
di me voi non potete far niente» (Ibid. XV, 4-5).
Dobbiamo rimanere
in Cristo e Cristo deve rimanere in noi affinché possiamo
produrre frutti numerosi (Cf. XV, 5). In che modo? Con la sua
grazia, con la fede che abbiamo in lui, con le virtù di cui è
il modello e che noi imitiamo. Quando, avendo rinunziato al peccato,
moriamo a noi stessi, «come il grano di frumento muore sotto
terra prima di produrre le sue spighe feconde», (Joan. XIV,
25) quando più non operiamo che sotto l’ispirazione dello
Spirito Santo e in conformità alle massime ed ai precetti del
Vangelo di Gesù, allora la vita divina di Cristo vigoreggia
nelle anime nostre, «è il Cristo che vive in noi»
(Galat. II, 20). Ecco l’ideale della perfezione: Viventes
Deo in Christo Jesu. Non vi possiamo arrivare in un giorno: la
santità, iniziatasi al battesimo, non si realizza che a poco a
poco, per tappe successive. Studiamoci di fare in modo che ciascuna
Pasqua, ciascun giorno di questo periodo benedetto che si estende
dalla Risurrezione alla Pentecoste, produca in noi una morte più
completa al peccato, alle creature e uno sviluppo più vigoroso
e più intenso della vita di Cristo.
E’ necessario che
Cristo regni nei nostri cuori e che tutto in noi gli sia sottomesso.
Che cosa fa il Cristo dopo il giorno del suo trionfo? Vive e regna
glorioso in Dio, nel seno del Padre: Vivit et regnat Deus.
Cristo non vive che là dove regna e vive in noi in proporzione
del suo regnarvi. Egli è re al modo stesso che pontefice.
Quando Pilato gli domandò se fosse re, nostro Signore gli
rispose: Tu lo dici che io sono re; (Joan. XVIII, 37) «io
lo sono, ma il mio regno non è di questo mondo».
«Il regno di Dio è in voi» (Luc. XVII, 21).
E’ necessario che questo regno di Dio si realizzi ogni giorno con
maggiore pienezza: è quanto domandiamo a Dio: Adveniat
regnum tuum! oh «che venga, o Signore, questo giorno in cui
voi veramente regnerete in noi, col vostro Cristo!»
Perché
questo regno non è ancora venuto? Perché tante cose,
troppe cose in noi, la nostra volontà, l’amor proprio, la
nostra naturale attività non sono ancora soggette a Cristo;
perché non abbiamo ancora compiuto il desiderio del Padre (Ps.
VIII, 8), «di porre cioè ogni cosa ai piedi di
Cristo».
E’ questa una parte
di gloria che il Padre vuol dare ormai al Figlio suo (Philip. II,
9-10). Il Padre vuole glorificare Cristo perché Cristo è
il Figlio suo, perché si è umiliato; vuole che ogni
ginocchio si pieghi al nome di Gesù e che tutto nella
creazione gli sia sottomesso, in cielo, sulla terra, nell’inferno, e
tutto ciò che è in noi: volontà, intelligenza,
immaginazione, energie.
Egli è
venuto in noi come Re il giorno del battesimo, ma il suo regno gli
viene disputato dal peccato. Quando distruggiamo il peccato, le
infedeltà, gli attacchi alle creature; quando viviamo di fede
in lui, nella sua parola, nei suoi meriti; quando ci studiamo di
piacergli in tutte le cose, allora Cristo è il padrone, allora
egli regna in noi, come regna nel seno del Padre; allora egli vive in
noi e può dire di noi al Padre suo: «Guardate
quest’anima: io vivo e regno in essa, o Padre, affinché il
vostro nome sia santificato».
Tali gli aspetti
più profondi della grazia pasquale: distacco da tutto ciò
che è umano, terreno, creato; piena adesione a Dio per mezzo
di Cristo. Così la risurrezione del Verbo Incarnato diviene
per noi un mistero di vita e di santità. Cristo, essendo
nostro capo, «Dio ci ha risuscitati in lui» (Eph. II,
6).
Dobbiamo dunque
studiarci di riprodurre in noi i lineamenti che contrassegnano la sua
vita di risuscitato.
Proprio a questo
con tanta insistenza ci esorta S. Paolo in questi giorni. «Se,
egli dice, voi siete risuscitati con Cristo», cioè, se
voi volete che Cristo vi faccia parte del mistero della sua
risurrezione, se volete penetrarvi dei sentimenti del suo Sacro
Cuore, se volete «mangiare la Pasqua» con lui e prender
parte un giorno alla sua gloria trionfale, «cercate le cose
dell’alto, affezionatevi alle cose del cielo che durano, distaccatevi
dalle cose della terra», che sono fuggitive: gli onori, i
piaceri, le ricchezze (Col. III, 1-2). «Poiché
siete morti al peccato, e la vostra vita è nascosta con Cristo
in Dio… E al modo stesso che Cristo risuscitato più non
muore, ma vive sempre per il Padre. suo, così voi morite al
peccato e vivete per Iddio con la grazia di Cristo» (Rom.
VI, 9-11).
V. In qual modo, con la contemplazione del mistero
e la comunione eucaristica, affermiamo in noi questa duplice grazia
pasquale.
Voi mi domandate
ora in qual modo possiamo affermare in noi questa grazia pasquale.
Anzitutto
contemplando il mistero con fede grande. Guardate: quando Gesù
Cristo, apparendo ai suoi discepoli, invita Tommaso, l’apostolo
scettico, a introdurre il dito nelle cicatrici delle sue piaghe, che
cosa gli dice? «Non essere incredulo ma fedele». E dopo
che l’apostolo lo ha adorato qual Dio, nostro Signore aggiunge (Joan.
XX, 27-29): «Tu hai creduto in me, o Tommaso, perché
mi hai visto e toccato; beati però quelli che hanno creduto
senza aver visto».
La fede ci mette a
contatto con Cristo; se perciò contempliamo con fede questo
mistero, Cristo produce in noi la grazia che egli produceva, come
risuscitato, quando appariva ai suoi discepoli. Egli vive nelle anime
nostre, e vivendoci sempre, opera senza tregua in noi secondo il
grado della nostra fede e la grazia propria di ciascuno dei suoi
misteri. Si racconta nella vita di S. Maddalena dei Pazzi che un
giorno di Pasqua, essendo seduta a tavola in refettorio, aveva una
fisionomia così contenta e gioiosa che una novizia che la
serviva non poté trattenersi dal domandargliene la causa: «E’
la bellezza del mio Gesù, ella rispose, che mi rende così
gioiosa, perché lo vedo in questo momento nel cuore di tutte
le mie sorelle. Sotto
quale aspetto? soggiunse la novizia.
Lo vedo in tutte, rispose, risuscitato e glorioso come la Chiesa oggi
ce lo rappresenta» (Vita scritta dal P. Cepari).
Quanto al frutto di
questo mistero, ce lo assicureremo principalmente con la comunione
sacramentale. Che cosa riceviamo difatti nella SS. Eucaristia? Gesù
Cristo, il suo corpo e il suo sangue. Ma osservate che se la
comunione suppone il sacrificio del Calvario e quello dell’altare che
lo riproduce, è alla carne glorificata del Salvatore che ci
comunichiamo. Noi riceviamo Gesù Cristo, quale è
presentemente, cioè glorificato nel più alto dei cieli
e nel pieno possesso della gloria della sua risurrezione.
Colui che riceviamo
è la sorgente stessa di ogni santità, e non può
mancare di farci parte della grazia della sua «santa»
risurrezione: qui, come ovunque, è sempre dalla sua pienezza
che dobbiamo ricevere.
Anche ai nostri
giorni, Cristo, sempre vivente, ripete a ciascuna anima le parole che
diceva ai suoi discepoli poco prima d’istituire, nel tempo pasquale,
il suo sacramento di amore: «Ho desiderato ardentemente di
celebrare questa Pasqua con voi» (Luc. XXII, 15). Gesù
Cristo desidera di realizzare in noi il mistero della sua
risurrezione: egli vive al di sopra di tutto ciò che è
terreno, consacrato interamente al Padre suo e vuole per la nostra
gioia trasportarci con lui in questa divina corrente. Se, dopo averlo
ricevuto nella comunione, gli lasceremo piena libertà di
agire, egli darà alla nostra vita, mercé le ispirazioni
del suo Spirito, questa stabile orientazione verso il Padre, nella
quale si riassume la santità e per la quale tutti i nostri
pensieri, tutte le nostre aspirazioni, tutta la nostra attività
si riferiscono immancabilmente alla gloria del Padre nostro celeste.
«Siete voi, o
divino risuscitato, che venite in me; voi che, dopo avere espiato il
peccato con i vostri dolori, avete vinto la morte col vostro trionfo
e che, ormai per sempre glorioso, vivete per il Padre vostro. Venite
in me “per annientarvi l’opera del demonio”; per
distruggere il peccato e le mie infedeltà; venite in me per
accrescere la lontananza di tutto ciò che non è voi;
venite per rendermi partecipe di quella sovrabbondanza di vita
perfetta che prorompe ora dalla vostra santa umanità: io
canterò allora con voi un cantico di azioni di grazie al Padre
vostro che in quel giorno di onore e di gloria vi ha coronato nostro
Capo».
Queste aspirazioni
sono le medesime della Chiesa, in una delle preghiere in cui ella
riassume, dopo la comunione, le grazie che sollecita da Dio per i
figli suoi: «Degnatevi di liberarci, o Signore, da tutti i
residui dell’uomo vecchio, e fate che la partecipazione al vostro
augusto Sacramento ci conferisca un essere nuovo» (Postcommunio
del mercoledi di Pasqua). E la Chiesa vuole che questa grazia
permanga in noi anche quando la comunione sarà passata e che
le pasquali solennità avranno avuto fine: «Concedeteci,
di grazia, o Dio onnipotente, che la virtù di questo mistero
pasquale rimanga perennemente nelle anime nostre» (Postcommunio
del martedì di Pasqua) perché è la grazia
permanente che, come si esprime S. Paolo, ci largisce «la
potenza di rinnovarci senza tregua», (II Cor IV, 16) di
accrescere in noi la vita di Cristo avvicinandoci sempre più
ai gloriosi lineamenti del nostro divino Modello.
VI. La risurrezione
dei corpi esaurisce la manifestazione della grandezza di questo
glorioso mistero. Gioia che nasce nell’anima nostra per l’unione con
Cristo risuscitato; l’Alleluia pasquale.
Coll’aver parlato
del duplice aspetto di santità che la risurrezione di Gesù
deve produrre in noi, non abbiamo ancora esaurito le ricchezze della
grazia pasquale. Dio è così magnifico in tutto ciò
che opera per Cristo, che vuole che il mistero della risurrezione del
Figlio suo si estenda non soltanto alle nostre anime ma anche ai
nostri corpi. Noi risusciteremo coi nostri corpi come Cristo e con
Cristo. Potrebbe essere diversamente?
Cristo, come spesso
vi ho detto, è il nostro capo e noi formiamo con lui un solo
corpo mistico. Ora se Cristo è risuscitato
ed è risuscitato nella sua natura umana,
bisogna che anche noi, sue membra, partecipiamo alla medesima gloria.
Noi siamo membra di Cristo non solo nella nostra anima ma anche nel
nostro corpo e in tutto l’essere nostro. Inoltre l’unione più
intima ci lega a Gesù. Se dunque egli è risuscitato
glorioso, i fedeli che per grazia sua fanno parte del suo corpo
mistico, gli saranno uniti anche nella sua risurrezione. Ascoltate
quanto a questo proposito ci dice S. Paolo: «Cristo è
risuscitato da morte, primizia dei dormienti»; egli rappresenta
i primi frutti di un raccolto; dopo di lui verrà il raccolto.
«Da un uomo è
venuta la morte sulla terra; da un uomo verrà anche la
risurrezione da morte; e siccome in Adamo tutti muoiono, così
pure tutti in Cristo saranno vivificati» (1 Cor XV, 20-22).
«Dio, dice ancora S.
Paolo con frase più energica, ci ha risuscitati nel Figlio
suo» (Eph. II, 6). In quale modo? Poiché,
mediante la fede e la grazia siamo le membra vive di Cristo, noi
partecipiamo ai suoi stati, e noi siamo uno con lui. E come la grazia
è il principio della nostra gloria, coloro che per la grazia
sono già salvi nella speranza, così sono ancora, in
germe, risuscitati in Cristo.
E’ questa la nostra
fede e la nostra speranza.
«La nostra
vita è ora nascosta con Cristo in Dio»; noi ora viviamo
senza che la grazia produca i suoi effetti di luce e di splendore che
avremo nella gloria; al modo stesso di Cristo che prima della sua
risurrezione tratteneva dentro di sé l’irradiazione gloriosa
della sua divinità di cui non fece vedere che un riflesso una
sola volta, ai tre discepoli sul Tabor. La nostra vita interiore non
è conosciuta quaggiù che da Dio, ed è nascosta
agli occhi degli uomini. Inoltre anche se ci studiamo di riprodurre
nelle anime nostre, con la nostra spirituale libertà, i
caratteri della vita risuscitata di Gesù, tuttavia questo
lavoro si opera sempre in una carne ferita dal peccato e soggetta
alle infermità del tempo; noi non possiamo arrivare a quella
santa libertà che a prezzo di una lotta rinnovante sì
senza tregua e sostenuta con fedeltà.
Anche noi, come
diceva Gesù Cristo ai discepoli di Emmaus il giorno stesso
della sua risurrezione, anche noi «dobbiamo soffrire per
entrare nella gloria» (Luc. XXIV, 26)
«Noi siamo,
dice l’Apostolo, i figli di Dio e i suoi eredi, noi siamo coeredi di
Cristo; ma non saremo glorificati con lui se non soffriamo con lui»
(Rom. VIII, 17).
Possano questi
pensieri sostenerci nei giorni che ci restano da vivere quaggiù!
Sì, verrà il tempo quando «non vi saranno più
né dolori, né grida, né pianti; e Dio stesso
asciugherà le lacrime dei suoi servitori», (Apoc.
XXI, 4) divenuti i coeredi del Figlio suo e li farà sedere
all’eterno banchetto che egli ha preparato per celebrare il trionfo
di Gesù, e di quelli di cui è il fratello maggiore.
Se, ogni anno,
siamo fedeli a prender parte ai dolori di Cristo durante la Quaresima
e la settimana santa, ogni anno anche la celebrazione della Pasqua,
facendo ci contemplare la gloria di Gesù vittorioso della
morte, ci farà prender parte con più frutto ed
abbondanza alla sua divina condizione di risuscitato, accrescerà
il nostro distacco da tutto ciò che non è Dio e
aumenterà in noi, per mezzo della grazia, la fede, l’amore e
la vita divina. Nel medesimo tempo, essa avviva la nostra speranza,
poiché «quando, l’ultimo giorno, Cristo, che è la
nostra vita» e il nostro capo, apparirà affinché
prendiamo parte alla sua vita, «appariremo anche noi con lui
nella gloria» (Col. III, 4).
Questa speranza ci
colma di gioia e perché il mistero di Pasqua, essendo un
mistero di vita, afferma la nostra speranza, è anche,
eminentemente, un mistero di gioia.
La Chiesa lo
esprime moltiplicando, in tutto il tempo pasquale, l’Alleluia,
(«Lodate Dio ») grido di allegrezza e di felicità,
tolto in prestito dalla liturgia del cielo. Essa lo aveva fatto
tacere durante la Quaresima per significare la sua tristezza e
mettersi in comunione con i dolori del suo Sposo. Ora che Cristo è
risuscitato, si rallegra con lui e riprende con nuovo fervore questo
grido di gioia in cui si riassumono i suoi sentimenti più
fervidi.
Non dimentichiamolo
mai: noi non facciamo che una sola cosa con Gesù Cristo; il
suo trionfo è il nostro; la sua gloria è il principio
della nostra gioia. Così con la Chiesa nostra Madre ripetiamo
spesso 1’Alleluia per significare a Cristo la nostra gioia di vederlo
trionfare della morte e per ringraziare il Padre della gloria che ha
largito al Figlio suo. L’Alleluia che la Chiesa ripete senza
stancarsi per i cinquanta giorni del periodo pasquale è come
l’eco sempre rinnovantesi di quella preghiera con cui termina la
settimana di Pasqua: «Concedeteci, o Signore, che questi
misteri di Pasqua, siano d’ora innanzi un’azione di grazie e che
l’opera della nostra rigenerazione, che si svolge senza tregua,
diventi in noi il principio inesausto di una gioia senza fine»
(Secreta del sabato di Pasqua).