Vita di San Romualdo 7/7

56. Ingelberto rifiuta di riconoscere in Romualdo lo spirito di profezia.


L’Ingelberto dei capitoli 56-57 è il perfetto esempio dell’eremita che, fra digiuni e austerità, rimane un uomo carnale. Separatosi da Romualdo, uomo dello Spirito, Ingelberto presume di dirigere gli altri, senza quella discrezione e quell’umiltà che sono i segni immancabili del vero eremita.

Alcuni uomini carnali non temevano di rimproverarlo malignamente e di attribuire le sue parole e le sue azioni al vizio della leggerezza. Una volta, un suo discepolo, abitante in un altro eremo, venendo incontro a una necessità dei suoi parenti, acconsentì per il loro bene di andare a Roma, quasi contro voglia, durante la quaresima. Il santo ne ebbe subito conoscenza in spirito e, indignandosi, scrisse a un fratello che si trovava con lui che quella data persona dabbene aveva avuto la presunzione di recarsi a Roma per quella determinata faccenda. L’altro si chiese meravigliato come poteva il maestro essere informato di ciò, dal momento che non c’era nessuno venuto da fuori che potesse avergliene parlato. Indagò accuratamente ed ebbe la prova che le cose stavano proprio come aveva detto l’uomo di Dio.


Andò da un altro condiscepolo, Ingelberto, che era recluso e gli disse che il maestro aveva affermato quelle cose e che senza dubbio possedeva lo spirito di profezia. Quello, invece, disapprovando e negando tutto rimproverò il fratello e, per dimostrare che si trattava di un inganno, vincolò se stesso con imprecazione dicendo: «Se lui ha parlato per spirito di profezia anziché per opera del diavolo, Dio onnipotente non mi permetta più di perseverare in questa reclusione».


Detto fatto. Dopo appena qualche giorno, Ingelberto infranse la reclusione e andò via senza il permesso del maestro. E, si dice, non ebbe più occasione di vederlo in questa vita.


 


 


57. Gaudenzio, che preferì il digiuno all’obbedienza, riceve il perdono dopo la morte.


Il vizio principale di Gaudenzio, Tedaldo e Ingelberto è sempre la mancanza di discrezione nella pratica della vita eremitica.


 



Un altro fratello, Gaudenzio, padre dell’abate di questo monastero di S. Vincenzo, si era convertito con grande fervore e viveva con spirito ancora più ardente al servizio di Dio. Una volta aveva chiesto al beato Romualdo, il permesso di abbandonare qualsiasi pietanza e di cibarsi di acqua, frutta e verdura cruda. Avendolo ottenuto si atteneva senza stancarsi a questo suo proponimento.


 Un altro fratello, Tedaldo, mosso da indiscreta compassione per la sua debolezza, si premurò di andare dal santo e gli suggerì di porre fine a quella ostinazione, dato che quel fratello non era adatto a portare un peso così grave. Romualdo, per la sua semplicità d’animo, prestò fede alle parole di Tedaldo e ritirò a Gaudenzio il permesso di vivere a quel modo. Costui se ne sentì molto offeso e non sopportò più di continuare a vivere insieme a Tedaldo nell’eremo che Romualdo gli aveva assegnato. Prestò obbedienza a Ingelberto, che si era separato da Romualdo, e ottenne da lui il consenso di vivere alla maniera che si è detto.


 Non molto tempo dopo, Gaudenzio morì, e venne seppellito nel cimitero di S. Vincenzo accanto a Berardo, anche lui discepolo di Romualdo. Ma, poiché era morto in stato di disobbedienza, Romualdo aveva vietato qualsiasi orazione per lui.


 Qualche tempo dopo, un monaco dello stesso cenobio, mentre celebrava con gli altri fratelli l’ufficio mattutino, fu colto improvvisamente da un mal di denti, così violento da non poter rimanere in coro a salmodiare. Immediatamente uscì e si gettò lamentandosi sulla tomba di Berardo e Gaudenzio.


 Dopo essere così rimasto a lungo in preghiera, ad un tratto fu vinto dal sonno. E subito vide Berardo rivestito di splendenti paramenti sacerdotali, con in mano un libro scritto a lettere d’oro, davanti a un altare intento a celebrare i santi misteri della messa. Poi scorse Gaudenzio abbattuto, triste, con volto umiliato, alle spalle di Berardo. Assisteva a distanza e non osava accostarsi ai sacri misteri, come uno scomunicato. E ad un tratto gli disse: «Fratello, vedi il libro splendidamente dorato che ha Berardo? Adesso ne avrei avuto anch’io uno del tutto simile, se il monaco Tedaldo, ahimè, non me l’avesse sottratto». Subito dopo, quel fratello si svegliò e si rialzò sano e indenne, senza più dolori. Poi, pieno di gioia, riferì accuratamente ai fratelli la sua visione.


 Romualdo, a quelle parole, comandò subito ai fratelli di usare carità fraterna con Gaudenzio e di pregare intensamente per lui. Ed è ragionevole supporre che costui come aveva perduto il libro meritato per essersi dissociato da Romualdo, così avrà riottenuto quel libro una volta riammesso in sua grazia e sostenuto dalle sue preghiere.


 Ciò che Tedaldo gli aveva sottratto per mano di Romualdo, ormai Romualdo glielo avrà restituito pregando per lui insieme a tutti i fratelli.


 




58. I demoni percuotono un monaco che riposava nel letto di Romualdo.


I capitoli 58-63 formano una serie di aneddoti uniti intorno al tema dei demoni nemici dell’uomo di Dio e della pace, Romualdo. Nei capitoli 59-60 è un sacramentale il pane benedetto da Romualdo) che guarisce la donna impazzita e il ragazzo indemoniato. Non vi è alcuna indicazione di tempo o località.


 



Una volta, Romualdo, prima di partire per un viaggio, affidò la propria cella a uno dei discepoli e gli comandò di abitarvi fino al suo ritorno. Ma costui, sconsiderato, non ebbe per il maestro il dovuto rispetto e non esitò a stendersi sul suo giaciglio. La notte stessa, però, fecero terribile irruzione su di lui degli spiriti maligni, che lo colpirono con le più gravi percosse, lo buttarono giù dal letto e lo lasciarono mezzo morto. Aveva peccato per mancanza di umiltà contro un uomo così grande e giustamente dovette sopportare vendicatori tanto superbi di quella offesa. Non aveva mostrato rispetto per il suo pio maestro, così ne provò la punizione da mani dure ed empie.


 Un’altra volta, tempo dopo, prima di un viaggio, Romualdo lasciò nella cella un altro discepolo. E il discepolo gli disse: «Maestro, io non intendo stendermi sul tuo letto perché ho paura che succeda anche a me quello che è capitato all’altro». Lui gli rispose: «Figlio mio, stenditi e dormi tranquillo». L’altro, quando vi si mise a dormire, incappò nelle mani dei nemici perché non ne aveva avuto il permesso dalla mia piccola persona. Ma tu, con il mio consenso, spera in Dio e riposa senza timori». Secondo l’ordine ricevuto, egli vi giacque e non incorse in nessuna avversità.


 


 


59. Un pezzo di pane benedetto da Romualdo risana una donna impazzita.


Un secolare di nome Arduino si era sottomesso a Romualdo per ricevere l’abito monastico, poi era tornato a casa per sistemare tutte le sue cose. La moglie, quando lo vide arrivare, accesa da furore femminile prese a gridare contro di lui: «Ma bravo! sei stato da quell’eretico, da quel vecchio seduttore e ora mi lasci misera e priva di qualsiasi conforto umano!». Appena dette queste parole, impazzì. Cominciò a delirare e ad agitarsi come se fosse vessata apertamente da un demonio.


 Il santo aveva la consuetudine di dare ai fratelli che si mettevano in viaggio, come benedizione, del pane o un frutto o qualche altra cosa. E i discepoli, ammaestrati da molte esperienze, sapevano con certezza che, porgendo a un malato un po’ di pane benedetto dal maestro, lo riportavano alla salute completa. Anzi, parecchi ammalati erano stati guariti perfino dall’acqua con cui egli si lavava le mani. Occorreva agire però con la massima cautela, per non provocare grandissima tristezza al santo, qualora se ne fosse minimamente accorto.


 Poiché quella donna era tormentata miseramente ormai da un certo tempo, alcuni fratelli le dettero un pezzetto del pane di benedizione che avevano ricevuto dal maestro. Quando la donna l’ebbe mangiato, subito la sua mente si calmò e lei ritornò completamente libera da ogni furore. E immediatamente rese grazie a Dio onnipotente e al suo servo Romualdo per la guarigione e non negò più al marito il permesso di farsi monaco.


 


60. Il pane benedetto da Romualdo libera un ragazzo dal demonio.


In un’altra circostanza, venne presentato al beato un ragazzo indemoniato. Ed egli non fece altro che dargli un pezzetto di pane come benedizione. Appena il ragazzo n’ebbe mangiato, fu immediatamente liberato dal demonio. Ovviamente, una volta entrata nel corpo del posseduto la benedizione di Romualdo, lo spirito maligno se n’era dovuto uscire scottato.


 


61. Il diavolo minaccia di morte Romualdo.


Il diavolo non poteva mai sentirsi al sicuro dagli attacchi del santo. A nulla valevano i suoi inganni occulti contro di lui, e pertanto non cessava di mostrare allo scoperto il veleno della sua malvagità. Una volta, mentre l’uomo venerabile era in cella, ecco che lo spirito maligno, con tutta la sua bruttezza, ispido, orribile, cominciò a incutere terrore al santo. Assalendolo con furore, minacciava di farlo morire. Imperterrito, Romualdo cercò l’aiuto del cielo e con fiducia gridò al Cristo di soccorrerlo. Immediatamente l’antico nemico scappò sbattendo con tanta rabbia contro la parete della cella che spaccò una pesante tavola di faggio spessa un cubito o anche più.


 Così il diavolo fece vedere palesemente nella casetta quanto fosse ardente la sua crudeltà contro colui che vi abitava, lasciando quasi per scritto ciò che nascondeva nella mente.


 


62. Il diavolo gli appare in forma di cane.


Una volta, Romualdo stava andando a cavallo insieme con i suoi discepoli, quando lo spirito maligno, sotto l’aspetto di un cane rosso, gli si scagliò contro con foga e spaventò il suo cavallo, tanto che il santo fu sul punto di essere sbalzato. Egli, allora, domandò ai discepoli se l’avessero visto. Essi attestarono di aver visto il cavallo terrorizzarsi, ma che nulla del genere era apparso loro. E allora egli disse: «Misero lui che un tempo, sappiamo, fu un angelo splendente e ora non si vergogna di presentarsi con l’aspetto di un cane immondo!».


 


63. Il diavolo percuote una botte a causa della discordia sorta fra i discepoli e Romualdo.


Diverse località si chiamavano, o si chiamano, Valbona o Vallebona; non siamo in grado di precisare la località di questo monastero femminile, uno dei diversi fondati da Romualdo (cf cap. 35).


 


In un’altra circostanza, Romualdo aveva deciso di far costruire il monastero femminile che si trova a Valbona. Ma era sorta subito una lite fra i suoi discepoli. Alcuni erano contrari, mentre altri insistevano focosamente che venisse realizzato. Quando le due parti in contesa si misero a litigare davanti a lui contrapponendo le loro motivazioni, il diavolo, davanti all’uscio della cella, cominciò a percuotere incessantemente una botte, come con un maglio. Per tutto il bosco si udiva il rimbombo di quei colpi martellanti e frequenti.


 Quando però tutti si furono accordati per la costruzione del monastero, lo spirito maligno, udito da tutti, non finiva più di ululare, di piangere e di lamentarsi. Da ultimo, quando ormai ognuno se ne ritornava per conto suo alla propria abitazione, l’antico nemico li accompagnò con una bufera così turbolenta che pareva volesse sradicare l’intero bosco scatenando tutti i venti possibili. Uno dei fratelli lo apostrofò con queste parole: «Spirito immondo, nel nome della santa Trinità io ti ordino di non inseguirci più». E così fu messo in fuga.


Come ben si comprende, l’autore della discordia aveva fatto udire la sua gioia quando la lite cresceva, ma, una volta ritornata la pace, non aveva potuto trattenere il pianto. Se prima aveva tentato di strappare il cerchio da una botte vuota e di sparpagliare le parti di cui era composta, ora che i discepoli erano uniti dal vincolo della pace e della compattezza della carità, lui aveva dovuto ritirarsi scornato.


 


 


64. Accanto all’eremo di Sitria Romualdo costruisce un monastero.


Qui Pier Damiano tesse l’elogio di Sitria, mentre al cap. 49 parlava degli «innumerevoli scandali e ingiurie» che Romualdo ebbe a patire dai suoi discepoli colà, citandone un esempio molto grave. Non abbiamo modo di risolvere la contraddizione fra questi due ritratti così diversi della medesima comunità.


 Il Damiano paragona Sitria a Nitria, una zona del deserto egiziano dove, nella seconda metà del quarto secolo, proliferavano gli eremiti. E da notare il coinvolgimento della popolazione locale nel cammino ascetico-contemplativo della comunità monastica (cf: anche cap. 37). Lungi dall’essere questo un fatto singolare, molte altre fondazioni romualdine sono state centri di animazione spirituale per i fedeli e per il clero. E’ certamente il caso dell’ultima sua fondazione, Camaldoli, una comunità contemplativa profondamente inserita nella chiesa locale, impegnata sin dalle origini nella direzione spirituale di chierici e laici e disponibile per l’accoglienza dei viaggiatori lungo la via romana che valicala l’Appennino sopra l’Eremo.


 Anche a Sitria Romualdo vuole che ci sia il monastero cenobitico e l’abate, ma quando in questo abate Romualdo comincia a vedere i soliti difetti, parte per Biforco, dove gli eremiti non vogliono neppure sentir parlare di abati (cf: cap. 34).


 



In Sitria allora veniva condotto un genere di vita tale che, per la somiglianza delle opere, oltre che del nome, sembrava una seconda Nitria. Tutti andavano scalzi, tutti erano incolti, pallidi e contenti della loro estrema povertà. Taluni avevano serrato le loro porte per recludersi e apparivano così morti al mondo come dei veri sepolti. Nessuno toccava vino, neanche nelle più gravi malattie. Ma perché parlare dei monaci, dal momento che perfino i servi dei monaci e i loro pastori digiunavano, osservavano il silenzio, si facevano la disciplina tra loro e chiedevano penitenza per qualsiasi parola inutile?


 Secolo d’oro, quello di Romualdo! «Quantunque non vi fossero le torture dei persecutori», non mancava però il martirio volontario! Secolo d’oro, che in mezzo agli animali selvatici dei monti e dei boschi alimentava tanti cittadini della Gerusalemme celeste!


 Quando i fratelli diventarono così numerosi che a stento potevano abitarvi tutti, Romualdo vi fece costruire un monastero e vi prepose un abate, e serbando inviolato il silenzio, si ritirò ad abitare a Biforco. Poiché anche a Sitria, per aver voluto che l’abate vivesse secondo lo spirito e tenesse la strada della rettitudine, ebbe a patire da lui molte persecuzioni umilianti.


 




65. Romualdo rimprovera ad Enrico Il la violenza e l’oppressione di cui è colpevole.


Di nuovo Romualdo, amico dei poveri, condanna prima con il silenzio poi con le parole i misfatti di un imperatore.


 L’incontro fra Romualdo ed Enrico II avvenne a Lucca, il 25 luglio 1022. All’invito dell’imperatore la prima reazione di Romualdo fu di respingerlo. Egli conosceva bene le guerre che l’imperatore «cristiano», con l’aiuto di eserciti pagani, conduceva contro i popoli cristiani in Polonia e in Puglia; era al corrente della sua ingerenza negli affari della Chiesa e dell’oppressione dei poveri nel suo regno. In nessun caso – nemmeno per avere in dono qualche monastero – Romualdo si sarebbe reso complice di tali crimini. Il colloquio fra i due, come ce lo descrive Pier Damiano, è unilaterale: è solo Romualdo che parla, castigando a lungo l’imperatore e poi chiedendogli la concessione di un monastero, meno l’abate.


 Dopo la morte di Enrico II, una leggenda crebbe attorno al suo nome; egli fu canonizzato nel 1146.


 


In quel periodo l’imperatore Enrico dai paesi d’oltralpe scese in Italia e mandò a Romualdo una sua delegazione a pregarlo che si degnasse di venire da lui. Gli prometteva di compiere qualsiasi suo comando, purché non gli rifiutasse questo colloquio.


 Romualdo dapprima si mostrò riluttante a infrangere il silenzio. Tutti i suoi discepoli, allora, si misero a supplicarlo unanimi: «Maestro, tu vedi bene che siamo così numerosi a seguirti che non possiamo più abitare convenientemente in questo luogo. Perciò, va’, per favore, chiedi all’imperatore un monastero più grande e colloca lì la moltitudine dei tuoi seguaci». Il santo, non saprei se per una precedente rivelazione o per un’improvvisa ispirazione di Dio, scrisse loro queste parole fiduciose: «Sappiate che avrete in dono dal re il monastero del monte Amiata. Preoccupatevi soltanto di doverne scegliere l’abate».


 Si recò quindi dal re senza violare il silenzio. Il re si alzò subito in piedi davanti a lui e con grande affetto del cuore esclamò: «Oh, se nel tuo corpo ci fosse la mia anima!». Subito lo supplicò di voler parlare, ma per quel giorno non poté essere esaudito.


Il giorno seguente, quando Romualdo venne a Palazzo, accorse a gara da ogni dove una moltitudine di tedeschi. In segno di saluto gli chinavano umilmente il capo, gli strappavano con avidità i peli della pelliccia che indossava e li mettevano premurosamente da parte per portarli in patria come reliquie sacre. A quella vista, Romualdo rimase così contristato che se ne sarebbe subito ritornato alla sua cella, e se non lo fece, fu per accondiscendere al desiderio dei discepoli. Entrato dal re, ebbe molto da dirgli sulla necessità di restituire i diritti delle chiese, sulla violenza dei potenti, sull’oppressione dei poveri. Dopo aver toccato parecchi argomenti, gli chiese un monastero per i suoi discepoli. Il re gli consegnò il monastero del monte Amiata e ne espulse l’abate, un uomo implicato in molte colpe. Quante avversità il santo dovette patire da parte non solo dell’abate destituito, ma anche da quello che lui stesso aveva scelto tra i suoi discepoli! Avversità che egli seppe sopportare con la più grande pazienza, ma che noi non saremmo in grado di descrivere nemmeno se avessimo facilità di parola.


Basti qui mostrare attraverso un solo esempio come Dio gli era di aiuto in ogni cosa, e ci si farà ragionevolmente un’idea di ciò che accadeva di solito.


 


66. Romualdo salva la vita a un monaco che vuole ucciderlo.


Ormai Romualdo, pieno dello Spirito «che è Signore e dà la vita», si trasforma totalmente nell’immagine di Cristo. «Oltraggiato non rispondeva con oltraggi, e soffrendo, non minacciava vendetta» (cf: 1 Pt 2,23), protegge e perdona il monaco che voleva procurargli la morte. Come ricordo del suo amore, lascia ai discepoli il pane (cap. 67) e il pesce (cap. 68).


 Mentre sta per morire, dà ai monaci che l’assistono l’appuntamento «al mattino sul far del giorno per celebrare insieme le lodi mattutine» (cap. 69); il transito di S. Romualdo è completamente avvolto nella luce pasquale della risurrezione.


 



Un monaco, agitato da furore forsennato contro di lui, aveva affilato di nascosto un coltello, poi l’aveva messo da parte e aspettava un’occasione propizia per ucciderlo. Durante la notte, mentre riposava vinto dal sonno, vide lo spirito maligno che lo assaliva spaventosamente, gli metteva intorno al collo un cappio e cercava di stringergli la gola con tanta ferocia da farlo ormai spirare.


 Allora il monaco, ridotto all’ultimo respiro, supplicò Romualdo di venire in suo soccorso. Costui – così sembrava al monaco – accorse subito in volo e lo strappò dalle mani del nemico iniquo. Subito egli si svegliò e andò a gettarsi in prostrazione ai suoi piedi, gli chiese di guardare i lividi intorno al collo e non si vergognò di confessare anche il suo delitto perverso. Infine lo ringraziò di avergli salvato la vita e accettò la penitenza per la sua grave colpa.


Così, lui che tramava di togliere la vita a Romualdo, poté invece conservare la propria grazie a quell’uomo santissimo. Scampò alla morte per l’aiuto dell’uomo che egli cercava di far morire.


 


67. Romualdo, circondato dalle acque, apprende per rivelazione che gli sarà portato il cibo.


Un capitolo carico di risonanze bibliche: come nell’esodo di Israele dall’Egitto, il popolo uscito nel deserto si trova circondato dalle acque ma ne viene salvato.


E’ la domenica, la pasqua settimanale, e non può mancare il cibo; «il Signore dà il cibo a chi lo teme, si ricorda sempre della sua alleanza» (Sal 110, 5). Anche S. Benedetto si trova in solitudine il giorno di Pasqua, e il prete Romano gli porta da mangiare; dice Benedetto, «So che è Pasqua, perché ci sei tu» (Gregorio Magno, Dialoghi 2,1).


 


Quando governava un monastero, il santo era solito, se non digiunava, venire a mensa ogni giorno con i fratelli. Mangiava una pietanza, poi stava attento alla lettura o a quello che succedeva a ciascuno e non prendeva altro cibo. In quaresima, se non era costretto da necessità inevitabili, rimaneva ininterrottamente in cella.


Nel periodo in cui Romualdo reggeva il cenobio sopra ricordato, all’avvicinarsi della quaresima si mise con i discepoli alla ricerca di un luogo dove costruire un eremo, tra i dintorni montuosi. La ricerca si protrasse a lungo e, a un certo punto, rimasero circondati da ogni parte dai torrenti che straripavano, cosicché non potevano più tornare indietro, e anche dal monastero non era possibile raggiungerli a guado. Vivevano con un po’ di castagne che avevano portato con sé.


Arrivò la domenica e ormai, non potendo contare su altro cibo, i fratelli avevano cominciato a sbucciare le ultime castagne rimaste. Nutrivano un certo timore che stessero così preparando l’ultimo loro pasto. Ma Romualdo, allegro come sempre, disse fiduciosamente che quel giorno non avrebbe mangiato affatto, se Dio non gli avesse fatto portare del pane da qualcuno. I discepoli si chiesero meravigliati su quale speranza potesse contare. Tuttavia, certi che il loro maestro non poteva far presagi senza un motivo, cominciarono ad aspettare con fiducia un cibo come si conveniva a un giorno di festa. Ed ecco arrivare, poco prima dell’ora sesta, tre uomini carichi di pane, di vino e di altri cibi. Dicevano di essere arrivati, dopo grande fatica, da paesi lontani. Pieni di gioia, tutti allora benedissero Dio, mangiarono insieme e capirono che il beato aveva saputo ciò per rivelazione celeste.


 


68. A Sitria, un monaco trova un pesce in un torrente secco, per dare da mangiare a Romualdo.


Alla fine della sua vita, Romualdo si riconcilia con le comunità che lo avevano ingiuriato, a Sitria il segno della riconciliazione è il pesce, che significa Eucaristia, che significa Cristo stesso. Poi si recherà a Val di Castro per chiudere il suo lungo cammino e lasciare alla comunità il suo corpo, diventato anch’esso Eucaristia.



Una volta Romualdo arrivò a Sitria. Era a digiuno e i fratelli, in quelle montagne poco praticabili, non avevano pesce da dargli da mangiare. Rimasero mortificati tra loro, e si chiesero preoccupati che cosa potessero procurarsi per un ospite tanto venerabile.


 Allora un fratello, credo ispirato da Dio, corse in fretta a un torrente quasi secco che scorreva nelle vicinanze. L’acqua, però, era scarsissima e nessuno vi aveva mai visto un pesce. Il fratello si mise a pregare devotamente Dio che, come aveva potuto dare acqua da una roccia arida al popolo d’Israele, così si degnasse di mostrargli un pesce in quel ruscello inaridito. E immediatamente mise una mano in quella poca acqua e vi trovò un pesce che fu più che sufficiente per il pranzo di Romualdo. Dio, evidentemente, provvedeva al nutrimento del suo servo e così, in una montagna sassosa e arida, si era trovato dove prendere il pesce, come in una valle pescosa.


Per quanto riguarda la vita del beato, abbiamo qui narrato poche cose tra le tante. Crediamo però che siano sufficienti e, pertanto, veniamo ora al suo transito.


 


69. Transito di Romualdo.


Lasciata Sitria, Romualdo, piegato sotto il peso degli anni, si reca per l’ultima volta in Toscana. Ad Arezzo si incontra con il nuovo vescovo Tedaldo, là cinque preti sono pronti a costituire, sotto la guida di Romualdo, una comunità monastico-eremitica a servizio della chiesa locale. Siamo verso il 1025.


 S. Pier Damiano non parla della fondazione di Camaldoli, perché al tempo in cui scrive l’ultima comunità romualdina è ancora di così poca importanza che non vale la pena di ricordarla esplicitamente. Ma nel 1080, il quarto priore dell’Eremo di Camaldoli, Rodolfo, ne racconta la fondazione nelle sue Consuetudines.


 «Sappiate dunque, o fratelli carissimi, che l’Eremo di Camaldoli, per ispirazione dello Spirito Santo e a preghiera del reverendissimo Tedaldo vescovo di Arezzo, fu edificato dal santo padre Romualdo eremita… Il santo, edificatevi cinque celle, vi pose cinque religiosi fratelli…e dette loro per regola di digiunare, di tacere e di rimanere in cella. Ciò fatto, trovò un altro luogo più in basso che si chiama Fontebono e vi costruì una casa. Vi mise poi un monaco con tre conversi per ricevere gli ospiti e dar loro dolce risposta e caritatevole refezione, affinché l’eremo sovrastante restasse sempre nascosto e lontano dai rumori del mondo… All’ultimo il beato Romualdo, dopo aver ammonito tutti con molta diligenza, li abbracciò con le lacrime agli occhi e partì per Val di Castro. In quella valle aveva pure costruito un monastero e quivi rese lo spirito a Dio; dopo che Cristo ebbe per mezzo suo manifestato molti miracoli, tanto durante la sua vita come dopo la morte, come riferisce la storia di lui, scritta da Pietro Damiano, uomo cattolico e vescovo e cardinale di Santa Romana Chiesa: miracoli mostrati dal Signore non solo in quei luoghi, ma in molti altri ancora».


 



Molti altri furono i luoghi in cui il santo abitò e i mali che subì specialmente dai suoi discepoli e molti anche i miracoli da lui compiuti, che noi però tralasceremo per evitare una narrazione troppo prolissa. Alla fine di tutti i suoi vari soggiorni, quando ormai aveva la percezione dell’imminenza della sua fine, ritornò al monastero che aveva costruito in Val di Castro. E mentre attendeva, senza esitazioni, l’avvicinarsi del trapasso, volle farsi costruire una cella dotata di oratorio, in cui rinchiudersi e osservare il silenzio fino alla morte.


 Vent’anni prima di morire aveva già predetto apertamente ai discepoli che sarebbe morto in quel monastero e che sarebbe spirato senza che nessuno fosse presente o gli pagasse il funerale. Quando la costruzione della cella fu terminata, mentre la sua mente era presa dal pensiero di chiudervisi presto, il suo corpo cominciò ad essere sempre più aggravato da incomodi e a scendere la china, non tanto per la malattia quanto per la sua vecchiaia decrepita. Ormai da mezzo anno emetteva catarro troppo abbondante insieme agli umori del polmone malato; la tosse lo tormentava rendendogli la respirazione affannosa. Con tutto ciò, il santo non aveva acconsentito né a mettersi a letto né, per quanto poteva, ad allentare il rigore del digiuno.


 Un giorno cominciò a poco a poco a perdere vigore e a risentire più gravemente degli attacchi del suo male. Poi, verso il tramonto, ordinò ai fratelli che lo assistevano di uscire, di chiudere dietro di sé la porta della cella e di tornare all’alba per celebrare con lui le lodi mattutine. Inquieti per la sua fine, quelli uscirono a malincuore, e invece di andar subito a riposare, preoccupati che il maestro non avesse a morire, si appostarono presso la cella a spiare di nascosto quel talento del tesoro prezioso. Dopo essere rimasti là per un certo tempo, ascoltarono con orecchio sempre più attento e, non percependo più movimenti del corpo né voce, indovinarono l’accaduto. Spinsero la porta e si precipitarono rapidamente, accesero il lume e trovarono il santo cadavere che giaceva supino, mentre l’anima beata era stata rapita in cielo. La perla celeste giaceva come appena abbandonata per essere poi riposta con onore nel tesoro del sommo Re. Morto nel modo che aveva predetto, è certamente entrato dove aveva sperato.


 Romualdo era vissuto centovent’anni, di cui venti nel mondo, tre in un monastero e novantasette nella vita eremitica. Ora risplende in modo inesprimibile fra le pietre vive della Gerusalemme celeste, esulta nelle schiere fiammeggianti degli spiriti beati, è vestito della stola candidissima dell’immortalità ed è incoronato di un diadema sfolgorante per sempre dallo stesso Re dei re.


 


70. Un pezzetto del cilizio di Romualdo guarisce un uomo posseduto dal demonio.


Romualdo viene sepolto a Val di Castro. Il monastero diventa subito luogo di pellegrinaggio, e Romualdo è venerato come un nuovo S. Benedetto: vedi Dialoghi 2,38.


 


Riguardo ai segni miracolosi che Dio mostrò per mezzo di quell’uomo venerabile, dopo la sua santa morte, chi sentirebbe il bisogno di leggere il racconto, dal momento che è possibile vederne spesso di nuovi? Del resto, i miracoli che si hanno presso il suo sepolcro sono così frequenti che ci sembra sia meglio ometterli del tutto piuttosto che narrarne anche pochi. Qui ci basti esporne soltanto due, compiuti però altrove.


 Un fratello che era stato discepolo del santo, aveva donato al monastero un piccolo oratorio in suffragio della propria anima. Aveva anche mandato, a quell’oratorio, un lembo di manica del suo cilicio e aveva ordinato che venisse riposto con onore sotto l’altare. L’uomo che l’aveva portato, invece, non si era curato di porlo sotto l’altare, come gli era stato ordinato. L’aveva messo incautamente in una fessura della parete e lì l’aveva lasciato.


 Tempo dopo, fu portato in quella chiesa un indemoniato. Stando in mezzo, girava la testa di qua e di là e scrutava ogni cosa intorno a sé. Alla fine, cominciò a fissare con terrore i suoi occhi torvi sulla parete e rivolto verso il punto in cui giaceva il frammento del santo cilicio, non cessava di gridare ripetendo spesso: «Lui mi sta cacciando! Lui mi sta cacciando!». E, ad un tratto, mentre gridava così, venne espulso da quell’uomo.


 Da questo fatto, si capisce quanto grande sia la sua personale intercessione presso la clemenza di Dio, se il demonio non poté resistere davanti a un piccolissimo frammento delle sue vesti. Se, pur assente, è capace di tali cose, che cosa non compirà con la sua presenza corporale?


 


71. Un fattore rapisce la vacca di una povera donna e all’istante muore.


Romualdo, povero e amico dei poveri, opera in loro favore dopo la morte come durante la sua vita: cf cap. 10.


 



In un’altra circostanza, un fattore sottrasse di prepotenza la mucca di una donna povera, sordo alle sue grida e alle sue molte suppliche. Lei, allora, corse subito a portare due pollastri alla chiesa di cui abbiamo parlato sopra, li gettò davanti all’altare e, prostrandosi, si mise a esclamare piangendo: «San Romualdo, esaudisci questa misera, non disprezzare questa donna desolata! Ridammi il mio sostentamento che mi è stato rubato ingiustamente». Ed ecco un fatto sorprendente. Il fattore, con la sua refurtiva, si era allontanato appena un tiro di freccia dalla casa della donna, quando improvvisamente si sentì male. Lasciò la mucca sul posto, andò a casa e subito morì.


 




72. Il corpo di Romualdo viene trovato intatto dopo cinque anni.


Il corpo di S. Romualdo fu custodito sotto l’altare a Val di Castro fino al 1481, quando fu trafugato da ladri che lo volevano portare a Ravenna. Scoperto il furto, le ossa del santo furono trasferite a Fabriano nella chiesa di S. Biagio, dove riposano tuttora.


 



Cinque anni dopo la morte del santo, la sede apostolica concesse ai monaci il permesso di costruire un altare sopra il suo corpo venerabile. Un certo fratello Azone allora andò nel bosco poiché voleva preparare una piccola cassa, che potesse contenere soltanto le ossa e la polvere del santo confessore.


 La notte seguente, ad un fratello che dormiva apparve un vecchio che, per cominciare, gli domandò: «Dov’è il priore di questo monastero?». L’altro gli rispose che non lo sapeva. E subito il vecchio aggiunse: «Si è dato premura di andare nel bosco per approntare una cassa, ma in un cofanetto così piccolo il corpo del beato non potrà entrarci».


 Il giorno dopo, preparata la cassa, il priore fece ritorno. Il fratello che aveva avuto la visione gli chiese subito cosa era andato a fare nel bosco. Lui, con la scusa che era stanco, non gli volle rispondere. Il fratello allora gli disse il motivo di quel viaggio e gli espose dettagliatamente la sua visione, senza nascondere nulla. Quando fu scavata la fossa, il corpo del santo fu trovato pressoché intatto e incorrotto come quando era stato seppellito. Soltanto, su qualche parte, si notava qualche leggera lanugine di muffa. Fu perciò scartata la piccola cassa già pronta e fu subito preparata un’arca della misura del beato corpo. Qui furono riposte le sante reliquie e su di esse fu consacrato solennemente un altare.


Il Beato Romualdo era morto il diciannove giugno [1027] 35, regnando il Signore nostro Gesù Cristo che, con il Padre e con lo Spirito Santo, vive nella gloria per gli infiniti secoli dei secoli. Amen.


 


Note:


35 L’anno si desume dalla carta del vescovo Teobaldo di Arezzo, scritta nell’agosto 1027 in occasione della consacrazione della chiesa dell’Eremo di Camaldoli, che parla del Padre Romualdo recentemente scomparso.