40. Romualdo incute timore ai potenti.
Romualdo, come la maggior parte dei santi, mette paura ai potenti, non ai ladruncoli (vedi capitoli 36).
Ranieri aveva ripudiato la moglie a motivo dei suoi parenti e si era unito con la moglie di un suo consanguineo, che egli stesso aveva ucciso, quasi involontariamente, mentre ne era inseguito. Per questa ragione, Romualdo, per non rendersi suo complice, non volle abitare gratuitamente in un suo possedimento e gli pagò una moneta d’oro per l’acqua e un’altra per la legna. Ranieri avrebbe voluto assolutamente rifiutarle, avrebbe preferito dare anziché ricevere qualcosa dal santo. Finì però con l’arrendersi e acconsentire piuttosto che vedere Romualdo andar via.
Dopo aver ottenuto il marchesato, Ranieri diceva: «Né l’imperatore né alcun altro mortale sono capaci di incutermi una paura pari al terrore che mi dà lo sguardo di Romualdo. Davanti a lui non so più cosa dire, non trovo più alcuna scusa con cui difendermi». E veramente il santo, per un dono divino, possedeva la grazia di far subito tremare, come davanti alla stessa maestà di Dio, qualunque peccatore si trovasse alla sua presenza, e specialmente i potenti del mondo. Era certamente lo Spirito santo, che abitava nel suo cuore, a infondere divinamente un tale terrore agli iniqui.
In quel periodo Romualdo curò la costruzione di un monastero non lontano da Massiliano.
41. L’abate di Classe tenta di strangolare Romualdo.
Di nuovo Romualdo si trova in conflitto con le autorità ecclesiastiche. Insieme con lui c’è Ingelberto, che verosimilmente è lo stesso che fu ordinato vescovo e partì con Romualdo per l’Ungheria (vedi capitoli 39, 56, 57). Però non è possibile determinare se l’episodio qui riferito avvenisse prima della loro partenza o dopo il loro ritorno.
Quando però venne a sapere che un veneziano si era impadronito dell’abbazia di Classe comprandola per simonia e che, per di più, peccava iniquamente nel suo corpo, il soldato di Cristo volle subito recarvisi senza perdere tempo e tentò in vari modi di purificare il monastero da quella persona. Ma quell’uomo dannato, preso dalla paura di perdere l’abbazia, non provò alcun timore a perpetrare un omicidio.
In una notte tempestosa, mente Romualdo riposava al sicuro nel suo letto, gli si avvicinò di nascosto e con le sua dita empie cominciò a stringergli la gola, sforzandosi crudelmente di soffocarlo. Il santo, non essendogli stato ancora tolto del tutto il respiro, si lamentava raucamente con il poco fiato che riusciva a tirar fuori. Svegliato dai rantoli del maestro, Ingelberto prese subito un tizzone dalla brace e così allontanò quel ministro del diavolo dal delitto nefando che aveva intrapreso.
42. Romualdo va a Parenzo, ma il papa lo richiama in Italia.
Si tratta dell’ultimo viaggio di Romualdo fuori d’Italia, verosimilmente con l’intenzione di predicare il vangelo, ad imitazione dei propri discepoli martiri.
Dopo questi fatti, Romualdo s’imbarcò ancora una volta per Parenzo. Ma il papa e i cittadini romani gli mandarono una delegazione per farlo tornare indietro. Gli promettevano di attenersi a tutte le sue prescrizioni, qualora fosse ritornato. In caso contrario, gli veniva comminata una sentenza di scomunica. Fu grazie a questo espediente che l’Italia discepola di lui, poté riavere il suo maestro Romualdo.
43. Romualdo costruisce un eremo fra i monti di Cagli.
Cagli è sulla via Flaminia, 20 chilometri a sud di Urbino; sempre sulla via Flamini verso il mare, a circa 15 chilometri da Cagli, si trova la gola e il passo del Furlo, cui sovrasta il Mons. Petranus, chiamato anche Pietralata o Petra Pertusa. All’inizio della grande gola, accanto al fiume Candigliano, si trova il monastero di S. Vincenzo, dove Pier Damiano ha iniziato a scrivere la VR.
Di nuovo Romualdo tratta con delicatezza un povero uomo costretto a rubare (cf: cap. 36).
In quel tempo Romualdo rimase per un certo periodo tra le gole dei monti di Cagli, poi si trasferì sul monte Petrano, non lontano dal monastero di S. Vincenzo presso il fiume Candigliano. Dovunque andasse il santo riportava sempre frutto, guadagnava sempre un numero via via crescente di anime e convertiva uomini dalla vita mondana. E come se si fosse tramutato in un fuoco, accendeva gli uomini al desiderio del cielo. Adesso voleva trovare un luogo idoneo a costruirvi un eremo.
A un prete che stava tornando a casa, chiese di portare del cibo per lui e per i suoi compagni. Cominciò quindi a perlustrare accuratamente quella montagna e, trovato finalmente un monaco che abitava presso una piccola chiesa, subito gli chiese di accompagnarlo e di mostrargli un posto dove ci fosse acqua. Quello naturalmente disse che non poteva lasciare la casa incustodita, per paura dei ladri. Romualdo gli garantì che, in una simile eventualità, lo avrebbe rimborsato per intero. E così, accollandosi un debito per danni altrui, poté condurre con sé quel monaco.
Mentre stavano andando in cerca del luogo, il prete, come gli era stato chiesto, venne a portare il pranzo. Ma ecco che trovò un ladro che stava per scassinare la casa, lo catturò e, fino al ritorno di Romualdo lo tenne sotto la sua sorveglianza.
Romualdo, quando trovò quell’uomo, cercò dapprima di riprenderlo con parole di paterna severità, poi lo ammonì con mitezza e gli permise di tornarsene a casa sano e salvo. Evidentemente, la divina provvidenza aveva voluto conservare intatto quanto era stato affidato alla custodia di Romualdo, sebbene assente.
44. Romualdo vede in spirito due ladri.
Un’altra volta, Romualdo era intento a costruire delle celle nella stessa zona. A una certa distanza, sotto un sasso era stata disposta la loro roba. Ad un tratto egli, con forza, fece accorrere là uno dei fratelli, ordinandogli di agire in tutta fretta. Costui vi sorprese dei ladri che stavano ormai tentando di rubare, tuttavia poté costatare che ancora non mancava nulla di ciò che vi era stato depositato. Se ne deduce, giustamente, che Romualdo aveva mandato là con tanta sollecitudine il fratello per impulso di una rivelazione divina, nel momento preciso in cui i ladri si avvicinavano alle loro cose incustodite.
45. Romualdo cerca di correggere l’abate di Val di Castro.
Come a Orvieto (cap. 39) e a Classe (41), Romualdo non può accettare che il superiore di un monastero si comporti alla maniera di un signore feudale.
In seguito Romualdo ritornò al monastero di Val di Castro. Qui esortò subito l’abate a governare gli altri senza per questo trascurare se stesso. Voleva, inoltre, che non abbandonasse affatto, con la scusa della sua carica, la sua solita cella, che vivesse al suo interno in solitudine e secondo lo spirito e si limitasse a visitare i fratelli nei giorni di festa per ammaestrarli.
Il modo di vivere che oggi vediamo prevalere fra gli abati rimaneva così odioso a Romualdo che il poter sottrarre alle loro mani un’abbazia gli procurava la stessa gioia di quando poteva introdurre alla vita monastica qualcuno dei secolari più potenti. Sennonché: «Aceto su una piaga viva, tali sono i canti per un cuore perverso», come dice Salomone[cf. Pr 25, 20]. Quell’abate, alla predicazione di Romualdo, diventò ancora peggiore. Si presentò ben presto alle contesse proprietarie del luogo e le persuase con sacrilega astuzia e far tagliare a pezzi il legname con cui si doveva costruire una cella per Romualdo. Fu così che questo alto cedro di paradiso venne cacciato dalle selve degli uomini terreni.
46. Romualdo guarisce un prete dal mal di denti.
Il «Monte Appennino» di cui si parla è situato nella provincia di Perugia, vicino ad altre fondazioni romualdine nelle alte Marche; di là Romualdo si sarebbe recato a Sitria (cap. 49).
Qui, come al cap. 51, Romualdo si sdegna con i discepoli ogni qualvolta tentano di attribuirgli miracoli o visioni.
Venuto via di là, stabilì la sua residenza nel luogo detto Acquabella, non lontano dal Monte Appennino. Mentre alcuni secolari stavano costruendo, insieme ai suoi discepoli, i tetti delle abitazioni, Romualdo, ormai impossibilitato al lavoro per la vecchiaia, se ne stava solo a guardia dell’ospizio.
Per un mal di denti insopportabile, un prete lasciò contro voglia il lavoro, chiese il permesso ai fratelli e si avviò verso casa lamentandosi miseramente. Quando, all’uscire, passò accanto a Romualdo, questi gli chiese perché se ne andasse e lui gli spiegò il motivo della sua sofferenza. E, mentre teneva aperta la bocca, Romualdo gli toccò con un dito il punto dov’era il dolore e gli disse: «Metti una lesina rovente su una canna, per non bruciare il labbro, e accostala qui. Il dolore passerà».
Il prete non aveva fatto nemmeno cinquanta metri quando improvvisamente il dolore cessò. Allora ritornò sano e salvo al lavoro abbandonato. Gridava a voce spiegata: «Ti rendiamo grazie, Dio onnipotente, perché ti sei degnato di visitare la nostra regione con lo splendore di un astro così grande. Veramente nella nostra terra è apparso un angelo di Dio, un profeta santo, una grande luce nascosta al mondo». Proclamava queste e molte altre lodi a Dio e a stento gli altri discepoli lo costrinsero a tacere. Infatti, se in qualche occasione giungevano alle orecchie di Romualdo parole di quel genere, il suo cuore ne restava ferito di gravissimo sdegno.
47. Un faggio, sovrastante la cella di Romualdo, abbattuto cade nella direzione opposta.
Un episodio né databile né localizzabile; nel secolo XIII alcuni manoscritti della VR specificano che il «miracolo del faggio» avvenne al Sacro Eremo di Camaldoli.
In un’altra circostanza, egli aveva dato ordine di tagliare un grande faggio che era vicino alla sua cella. Questo faggio era così inclinato e addossato alla cella che, se fosse caduto, a quel che si poteva presumere, avrebbe senz’altro distrutto di colpo tutto l’edificio. Nell’eseguire l’ordine, gli operai erano in apprensione per la caduta dell’albero. Quando, a forza di colpi di scure da un lato, ebbero raggiunto l’interno del tronco, l’albero, fuori d’ogni dubbio, minacciava ormai di cadere su di lui. Allora cominciarono a chiedergli e gridargli con insistenza e con foga di lasciar perdere la cella, di uscir fuori e mettersi in salvo.
Senza cedere per nulla alle loro urla, lui dette invece l’ordine di completare il lavoro iniziato. Il faggio cadde con un boato profondo, ma, per potenza divina, finì in un’altra direzione. Tra lo stupore di tutti la cella era rimasta completamente intatta. Meravigliati davanti a un miracolo così grande, tutti levarono al cielo le loro voci gioiose e resero a Dio grazie infinite.
48. Un contadino travolto dalla caduta di un leccio, rimane illeso.
Per associazione di idee, il Damiano racconta qui un altro aneddoto riguardante gli operai che assistono Romualdo nella costruzione di un eremo.
Perché parlare di come Dio custodiva quell’uomo di Dio, dal momento che è risaputo che spesso anche altre persone venivano salvate da gravi pericoli grazie alla sua presenza? Basterà, adesso, ricordare uno di questi fatti e il lettore avveduto si renderà conto che ve ne dovettero essere molti altri.
Una volta, sul monte Petrano, trattenendosi egli stesso con gli operai, faceva tagliare un leccio enorme. L’albero, che pendeva sopra un dirupo, andava inclinandosi verso il basso. Poco sotto, però, c’era un contadino. L’albero, una volta tagliato, crollò pesantemente, rotolò lungo la china finendo nel precipizio, travolse di sorpresa il contadino e lo trascinò in basso. Tutti si misero subito a gridare addolorati. Pensavano che l’uomo fosse morto e, addirittura, che il suo corpo fosse rimasto interamente dilaniato. Ma la potenza divina fu stupefacente.
Quell’uomo venne subito ritrovato sano e salvo, come se gli fosse cascata addosso una foglia, anziché tutto l’albero. Si può capire da ciò il grande peso che avevano presso Dio i meriti del santo: alla sua presenza l’enorme mole di quell’albero aveva perduto ogni peso.
49. Romualdo subisce un’infame calunnia da parte degli eremiti di Sitria.
Il caso di un monaco che indulge in pratiche omosessuali non doveva essere cosa inaudita ai tempi di S. Pier Damiano. Nel corso dei secoli XI e XII diventeranno sempre più frequenti le condanne di ogni permissivismo in questioni di rapporti ambigui fra persone del medesimo sesso. Il Damiano si meraviglia che i monaci di Sitria abbiano potuto credere che Romualdo stesso fosse coinvolto in un tale rapporto. Noi pure ci meravigliamo, leggendo quanto dice l’autore, al capitolo 64, sull’estremo rigore ascetico osservato nell’eremo di Sitria. Ma non dovremmo meravigliarci più di tanto: non c’è bisogno della psicologia scientifica moderna per rendersi conto di come la mortificazione indiscreta del corpo e degli affetti può suscitare reazioni estreme in senso opposto.
E’ forse a partire da questa triste esperienza che Romualdo abbandona definitivamente la sua consuetudine di condividere la cella con un compagno (vedi nota al cap. 6). Infatti a Camaldoli egli vorrà che i monaci vivano separatamente, ognuno nella propria casetta.
Dopo qualche tempo, Romualdo lasciò l’Appennino e andò ad abitare sul monte di Sitria. Sentendo parlare di tutti questi spostamenti del santo, si badi però di non attribuire al vizio della leggerezza quanto proveniva invece dalla gravità della sua attività religiosa. Indiscutibilmente, i suoi spostamenti erano motivati dal fatto che, dovunque l’uomo di Dio si fermasse, accorreva da lui una turba quasi innumerevole di persone. Il buon senso esigeva dunque che, una volta constatato che un luogo era ormai pieno e nominato il priore, si affrettava a riempire un altro luogo. Saremmo incapaci di esporre tutte le ingiurie e gli scandali che egli subì in Sitria da parte dei suoi discepoli. Ne segnaliamo uno, tralasciando gli altri per brevità.
C’era un discepolo di nome Romano, di stirpe nobile, ma affatto degenerato nel suo agire. Il santo, oltre a rimproverarlo a parole per la sua impurità carnale, spesso lo puniva con le più gravi percosse. Quell’uomo diabolico, allora, ebbe l’ardire di accusarlo della sua stessa colpa. Imprudentemente latrò con la sua bocca sacrilega contro quel tempio dello Spirito Santo e disse che il santo si era macchiato con lui del suo stesso peccato.
Tutti i suoi discepoli furono subito presi contro di lui da ira e da ostilità. Chi gridava di impiccare quel vecchio scellerato, chi giudicava di doverlo bruciare insieme alla sua cella. La cosa che più lasciava stupiti è che uomini particolarmente spirituali potessero credere a un crimine così nefando da parte di un vecchio decrepito e più che centenario. Quand’anche lo avesse voluto, la natura, la fragilità e la sterilità del suo corpo svigorito gliel’avrebbero reso impossibile. Piuttosto, è da credere che tutto questo, pur nella sua gravità, avvenisse per volere celeste per accrescere i meriti del santo. Del resto, egli stesso asseriva di aver avuto conoscenza di ciò già all’eremo in cui era stato in precedenza e di esser venuto prontamente appunto per subire questo disonore.
Quanto al reprobo sarabaita che aveva accusato di delitto il santo, in seguito acquistò con eresia simoniaca l’episcopato di Nocera e lo tenne per due anni. Durante il primo, vide bruciata, come meritava, la sua abitazione, insieme con i libri, le campane e i paramenti sacri. Durante il secondo anno, colpito da sentenza divina, perse dignità e vita.
50. Gli eremiti di Sitria sospendono Romualdo a divinis
Di nuovo vediamo come la coscienza ipersensibile di Romualdo lo conduce a comportamenti poco logici. Contro le accuse di abusi sessuali non si difende, né gli importa l’opinione che i propri discepoli hanno di lui. Egli assume su di sé lo stigma della trasgressione che non ha commesso e si sottomette alla pena che non merita. E’ poco logico tale comportamento, ma la coscienza veramente libera, come lo Spirito Santo, non segue la logica lineare delle leggi umane o ecclesiastiche.
Però a volte Romualdo eccede, come in questo caso, e la sua voce interiore gli rimprovera la sua «indiscreta semplicità».Gli ordina di riprendere la vita monastica normale e di continuare il suo servizio agli altri scrivendo un commentario sui Salmi. Alla fine fa l’esperienza di un’estasi silenziosa, da confrontare con il giubilo al capitolo 31.
Come se avesse commesso davvero quel delitto, i discepoli imposero al santo una penitenza e gli tolsero del tutto il permesso di celebrare i sacri misteri. Egli abbracciò volentieri quel provvedimento pregiudiziale, si attenne alla penitenza come se fosse stato veramente colpevole e per circa sei mesi non si azzardò ad accostarsi al santo altare. Finalmente, però, come riferì egli stesso ai suoi discepoli, gli venne comandato da Dio di mettere risolutamente da parte la sua eccessiva ingenuità e di celebrare con piena fiducia i sacri misteri della messa, se gli premeva di non perdere la grazia divina.
Così, il giorno dopo incominciò a celebrare. Giunto alla preghiera eucaristica, fu rapito in estasi e rimase a lungo in silenzio fra lo stupore di tutti i presenti. Gli fu chiesto, poi, il perché di tutte quelle pause fuori del suo solito durante l’offerta del sacrificio. Rispose: «Sono stato rapito in cielo e presentato davanti a Dio. E immediatamente mi è stato comandato da voce divina di spiegare i salmi secondo l’intelligenza che Dio mi ha dato e di farlo per scritto, ordinatamente, secondo la mia comprensione. Io mi sentivo oppresso da un terrore enorme e inesprimibile e non ho potuto rispondere altro che: Fiat! fiat!».
Per questo il santo, in seguito, curò un’eccellente commento di tutto il salterio e di alcuni cantici dei profeti, e sebbene sbagliasse quanto alla grammatica, ne azzeccava sempre il significato.
51. L’anima di Romualdo viene portata davanti a Dio candida come la neve.
Un apoftegma di Romualdo associato al capitolo precedente per il riferimento dell’estasi. Romualdo parla di sé come fa S. Paolo in II Corinzi 12,2-4.
Una volta i discepoli gli domandarono: «Maestro, di che età è l’aspetto di un’anima? e sotto quale forma viene presentata al giudizio?» Egli rispose: «Conosco un uomo in Cristo, la cui anima fu presentata davanti a Dio splendente come neve, in forma umana e con la statura propria dell’età perfetta».
Gli dissero allora chi fosse quell’uomo, e lui, sdegnato, li rimproverò dicendo: «Non voglio dirlo!». Ma i discepoli, parlandone fra di loro, attribuirono quel fatto a lui stesso, come infatti realmente era, e capirono dalla sicurezza di quella spiegazione che quell’uomo era lui.
52. A Sitria Romualdo vive in grande austerità, ad imitazione di S. Ilarione.
Di Ilarione, come di Romualdo, si dice che visse tacente lingua, praedicante vita. E nelle Vite dei padri IV si parla di un anziano che avendo desiderato gustare un cocomero, ne procurò uno e lo appese davanti ai suoi occhi, senza mangiarlo, per vincere il vizio della gola.
In Sitria, Romualdo rimase recluso per circa sette anni, osservando un silenzio continuo senza eccezioni. Tuttavia, tacendo con la lingua e predicando con la vita, poté impegnarsi, come quasi mai in passato, sia con gli uomini che volevano convertirsi sia con quelli che accorrevano a penitenza. Lui viveva in grande austerità, nonostante l’avanzare della vecchiaia, quando ormai anche gli uomini perfetti sogliono vivere con una certa libertà e alleggerire il rigore dei loro proponimenti.
Per tutta la durata di una quaresima non ebbe altro cibo e bevanda che un brodo di poca farina e di qualche erba, a imitazione di Ilarione. Per cinque settimane si limitò a un po’ di passato di ceci e non mangiò altro. E con molti altri metodi di vita, Romualdo metteva alla prova le capacità della sua virtù, esercitandosi senza interruzione nell’uno e nell’altro. Con discrezione, questo soldato di Cristo si teneva sempre pronto per qualche nuova battaglia. Ma quando era sul punto di non reggere più, subito ricorreva alla misericordia e risollevava il corpo vacillante.
Portava due, e talvolta tre, cilici contro l’insorgere di molestie del corpo. E non permetteva che venissero lavati; li lasciava sotto la pioggia e li cambiava di solito ogni trenta giorni. Non lascio mai passare un rasoio sulla sua testa. Solo di rado, quando i capelli e la barba erano cresciuti troppo, soleva tagliarseli da sé con le forbici.
A volte, quando il vizio della gola lo solleticava verso qualche ghiottoneria, se lo faceva subito cucinare accuratamente, lo accostava alla bocca e al naso, si limitava a sentirne l’odore e diceva: «Gola, gola! quanto ti sarebbe dolce e gradevole questo cibo! Peggio per te! Tu non lo assaggerai mai!». E lo rimandava intatto al dispensiere 34.
53. Romualdo guarisce Gregorio soffiandogli in fronte.
Romualdo mostra un volto sempre ilare come S. Antonio Abate (cf. Vita di Antonio 40). Qui e al cap. 55 Pier Damiano torna a parlare di Gregorio uno dei due discepoli fatti consacrare vescovi al tempo della spedizione missionaria in Ungheria (cap. 39). Può sembrare inverosimile che entrambi (cf. anche Ingelberto ai cap. 56 e 57) siano tornati insieme a Romualdo. Per cui si può supporre che gli episodi qui raccontati siano avvenuti prima del 1010. Della località degli episodi riguardanti Gregorio possiamo dire soltanto che non fu Sitria ma forse Val di Castro od Orvieto.
Le guarigioni operate da Romualdo hanno un carattere quasi sacramentale-liturgico. I malanni di Gregorio sono guariti o con il soffio dello Spirito (con allusione a Gesù che alitò sui discepoli in Gv 20,22) o con l ‘acqua (allusione al battesimo). Anche il pazzo al cap. 54 sente un «vento gagliardo» come i discepoli del Signore nel giorno di Pentecoste (cf: At 2,2).
Quantunque il santo usasse verso di sé tanta austerità, mostrava però sempre un volto allegro, un aspetto sereno. Una volta, un fratello di nome Gregorio, si doleva per un gravissimo mal di capo. Con grandi lamenti arrivò alla sua cella, dove si trovavano anche altri fratelli. Romualdo, appena lo vide, attribuì senza esitazione quel dolore non ad uno squilibrio di umori, ma a un artificio dell’antico nemico. Subito, quasi prendendosi gioco di lui, con la sua consueta allegria, soffiò sulla sua fronte dalla finestra della cella e fece cenno agli altri presenti di fare altrettanto. Quando ebbero fatto ciò, quello fu guarito, al punto che in testa non avvertiva più la minima traccia di dolore.
Personalmente sono del parere che se il santo volle compiere quel gesto, fu perché credette che il grande nemico malefico, apportatore del dolore, doveva essere cacciato in virtù dello Spirito Santo che regnava nel suo cuore. Per non attirarsene le lodi, finse di scherzare e si cercò dei collaboratori. Si legge, del resto, che anche il nostro Redentore soffiò quando è detto che donò agli apostoli lo Spirito Santo [cf. Giovanni 20, 22].
54. Romualdo guarisce un pazzo con un bacio.
Per una pazza guarita per intercessione di S. Benedetto vedi Gregorio Magno, Dialoghi 2,38; altri pazzi e indemoniati guariti da Romualdo ai capitoli 59, 60, 70.
Un uomo soffriva di follia e aveva perduto la ragione fino al punto che non sapeva mai del tutto cosa stesse facendo o dicendo. A lui Romualdo non fece altro che dargli un bacio e lo riportò immediatamente alla sanità di un tempo. Offrendo la pace a quell’uomo irrequieto, lo ricondusse alla pace della mente.
In seguito, l’uomo che era stato così risanato, riferiva: «Nel momento stesso che toccai le sue labbra sante, sentii uscire dalla sua bocca come un vento gagliardo che soffiandomi su tutta la faccia e intorno al capo, subito spense il fuoco che ardeva nel mio cervello».
55. Gregorio è liberato da una grave malattia con acqua fresca.
In un’altra circostanza lo stesso Gregorio sopra ricordato soffriva alle gambe di una scabbia così virulenta e putrida da pensare che un gonfiore di quella gravità dovesse derivare da elefantiasi. A lui Romualdo prescrisse questo originale tipo di terapia, lavarsi le gambe con acqua fredda per tre giorni. Gli promise che in questa maniera avrebbe recuperato la salute. Quello si premurò di fare ciò più per dovere di obbedienza che per la fiducia di guarire. Ed ecco una meraviglia attribuibile soltanto alla potenza di Dio: il gonfiore delle gambe cessò improvvisamente, la putrefazione si prosciugò e il fratello fu guarito completamente da ogni malessere.
Si può credere, a ragione, che Romualdo, se comandò al discepolo di lavarsi tre volte le gambe gonfie nell’acqua, lo fece spinto con lo stesso spirito con cui Eliseo aveva comandato al lebbroso Naaman di lavarsi sette volte nel Giordano [cf. II Re 5, 10 ss].
Note:
34 Cf Vite dei padri IV: «Raccontarono di un anziano che un giorno ebbe desiderio di mangiare un cocomero; lo prese e se lo appese davanti agli occhi, e, pur non avendo ceduto al desiderio, faceva penitenza per domare se stesso, per il solo fatto che lo aveva desiderato». Ma si noti bene: Romualdo, con la solita sua discretio, sa distinguere bene l’appetito (in sé buono) e il vizio (fomes peccati, ma non ancora peccato); in Romualdo c’è troppo sense of humour per cadere nella penitenza indiscreta di certi “padri del deserto”.