9. Anni dopo il Maestro Romualdo insegna la via della discrezione.
Con questo capitolo Pier Damiano abbandona l’ordine cronologico e ci porta avanti almeno quindici anni (vedi il capitolo precedente); siamo al tempo della piena maturità del Maestro Romualdo, fra il 993 e il 998, nel monastero di S. Apollinare in Classe o in un luogo vicino (vedi cap. 19). Il contenuto del cap. 9 è tratto quasi per intero dalle grandi fonti monastiche.
Tempo dopo, Romualdo lesse che S. Silvestro, vescovo di Roma, aveva introdotto l’uso del digiuno al sabato, giorno di vigilia della santa pasqua. Subito, allora, egli spostò dal sabato al giovedì la sospensione del digiuno. Venendo così incontro alla debolezza degli infermi, con giusto senso di misura rese più facile il protrarsi del digiuno e a tutti coloro che praticano la vita solitaria fissò questa norma: ciascuno riconosca di aver soddisfatto al digiuno eremitico se durante la settimana rispetterà l’astinenza dei tre e due giorni consecutivi, mentre il giovedì e la domenica potrà cibarsi, con azione di grazie, di verdure e di qualsiasi liquido vegetale, fuorché nelle due quaresime dell’anno, quando sia lui che quasi tutti i suoi discepoli erano soliti estendere il digiuno a tutta la settimana.
Era veramente conveniente che un uomo sempre desideroso di lodare Dio con cori e timpani, facesse risuonare alle orecchie della luce infinita le più belle consonanze musicali di ottava, di quinta e di quarta.
Quanto al digiuno totale, consistente nel passare la giornata senza cibarsi di nulla, sebbene egli lo praticasse molto spesso, agli altri lo proibì in modo assoluto 20. Se uno tende alla preghiera, diceva, è quanto mai conveniente che mangi ogni giorno e conservi sempre un po’ di fame. Prendendo quest’abitudine, la carne sopporterà con leggerezza ciò che sembra pesante ai novizi all’inizio della loro conversione. Secondo lui, valeva poco impegnarsi temporaneamente in grandi cose, se poi uno non vi perseverava con generosità.
Insegnava ad avere temperanza e grande discrezione nelle veglie 21, perché non accadesse di cedere all’assopimento proprio dopo gli uffici notturni. Il sant’uomo era così poco indulgente con il sonno del mattino, che se uno gli confessava di essersi addormentato dopo la veglia dei dodici salmi o, peggio, verso l’alba, non poteva ricevere da lui il permesso di celebrare quel giorno la santa Messa.
Diceva anche che è meglio, se possibile, cantare un solo salmo di cuore e con compunzione, piuttosto che sciorinarne cento fantasticando 22. Ma se a uno questa grazia non era stata donata compiutamente, egli lo esortava a non perderne la speranza e, tanto meno, ad allentare il ritmo dell’esercizio corporale, nell’attesa che colui che aveva dato la volontà, donasse un giorno anche la possibilità effettiva.
L’intenzione della mente, una volta fissata su Dio, sia l’unica custode dell’incenso della preghiera, che la brezza dei pensieri provenienti dall’esterno perturberebbe. Perché quando l’intenzione è retta, un pensiero sopraggiunto involontariamente non fa troppa paura 23.
10. Romualdo difende i diritti di un povero contadino, suo amico.
Torniamo ai tempi in cui Romualdo era a Cuixá. Due temi importanti emergono in questo capitolo: Romualdo sta sempre dalla parte dei poveri, contro coloro che detengono il potere politico ed economico; Dio interviene nella storia di ogni uomo per «ricolmare di beni gli affamati e rimandare i ricchi a mani vuote» (cf. Luca 1, 53).
Vedi episodi simili ai capitoli 36, 43, 54, 65, 71.
Sempre durante il suo soggiorno in Catalogna, Romualdo aveva stretto familiarità con un agricoltore, che a volte gli fabbricava gli attrezzi necessari per la cella e, in caso di bisogno pur nella sua povertà, gli forniva con gioia il necessario, ricco com’era di carità, più che di beni.
Il contadino aveva una vacca, che un conte superbo e borioso fece rapire dai suoi servi, con barbara prepotenza. Poi, con ingordigia, se ne fece preparare la carne per il pranzo. Il contadino si recò in fretta alla cella di Romualdo, con grida strazianti gli fece conoscere la sua disgrazia, lamentandosi che la speranza sua e della sua famiglia gli era stata portata via. San Romualdo inviò subito dal conte un suo messaggero e gli fece chiedere, con umili suppliche, di restituire al povero il suo animale. Ma il conte, gradasso e ostinato, si fece beffe di quelle preghiere e affermò: «Questo stesso giorno intendo assaggiare il sapore dei grassi lombi di quella vacca!».
All’ora di pranzo, fu apparecchiata la mensa e fu servita la carne della vacca. Ma ormai si era avvicinata l’esecuzione del castigo divino. Proprio mentre cominciava a mangiare, il conte staccò un boccone dalla lombata e se lo mise in bocca. Questo gli rimase attaccato alla gola e, nonostante gli sforzi, egli non riuscì né a ingerirlo né a sputarlo.
Così, essendo otturate le vie respiratorie, finì di morte terribile sotto gli occhi dei suoi. Ciò di cui avrebbe voluto saziarsi contro il desiderio del servo di Dio, per giusta sentenza di Dio gli fece perdere la vita carnale, ancora a digiuno 24.
11. Un conte si confessa da Romualdo.
Oliba Cabreta (il «Conte Olibano» di Pier Damiano) era figlio di Mirone e fratello di Seniofredo, conti di Barcellona. Si confessa da Romualdo, ormai sacerdote, che gli impone come penitenza di ritirarsi in monastero. Nel febbraio del 988 il conte fa tre importanti donazioni ai monasteri catalani (la congregazione monastica presieduta dall’abate Guarino); siamo verso la fine della permanenza di Romualdo a Cuixá.
In quelle terre c’era anche un altro conte, di nome Olibano, sotto la cui giurisdizione era anche il monastero dell’abate Guarino. Sebbene elevato a un’altissima dignità terrena, egli era gravato dal peso di molti peccati. Un giorno andò a visitare Romualdo. Lasciò fuori della cella le altre persone e prese a narrargli solo a solo, a mo’ di confessione, tutta la serie dei suoi trascorsi. Romualdo ascoltò tutto e gli rispose: «Per te non c’è altro modo di essere salvato che lasciare il mondo ed entrare in un monastero».
Lì per lì il conte si sentì turbato e disse «Gli uomini spirituali che mi conoscono bene sono di tutt’altro parere. Non mi avrebbero mai consigliato qualcosa di tanto insopportabile». Così, fece venire i vescovi e gli abati che l’avevano accompagnato e, riunitili, cominciò a chiedere se le cose stessero davvero come attestava il servo di Dio. Tutti, a una sola voce, confermarono il parere di Romualdo e si scusarono di non averne mai parlato fino allora al conte perché impauriti. Il conte allora li fece allontanare tutti e, in gran segreto, stabilì con Romualdo di recarsi a Montecassino con la scusa di un pellegrinaggio e di porsi irrevocabilmente al servizio di Dio nel monastero di S. Benedetto.
12. Sergio, dopo il suo esodo dal peccato, vuole tornare alla schiavitù di prima.
Anche il padre di Romualdo si fa “converso” nel monastero di S. Severo vicino Ravenna. La metafora sottostante la sua scelta monastica è l’esodo degli Israeliti dalla schiavitù d’Egitto; di conseguenza il monastero viene visto come il deserto della prova, ma secondo la visione dei profeti d’Israele il deserto è anche il luogo della libertà e dell’intimità con Dio, e il tempo della prova è anche il tempo del fidanzamento.
Nel frattempo Sergio, padre di Romualdo, si era fatto monaco. Ma, poco tempo dopo, istigato dal diavolo, si era pentito della sua conversione e stava cercando di ritornare in Egitto. I monaci del cenobio di S. Severo, non lontano dalla città di Ravenna, dove Sergio abitava – sebbene con il corpo, ma non con il cuore – trovarono il modo di informare Romualdo tramite un messaggero.
Egli rimase scosso dal sinistro annuncio e giudicò necessario che fossero l’abate Guarino e Giovanni Gradenigo ad accompagnare il conte nel suo cammino di conversione, mentre lui correrebbe in aiuto di suo padre che andava verso la perdizione. Il doge Pietro aveva già concluso felicemente i suoi giorni. Pertanto, Romualdo affidava il conte a quei due e raccomandava più in particolare a Giovanni, di cui era superiore: «Per obbedienza, non ti separare mai dal conte, anche se Guarino si dovesse allontanare di là».
13. Romualdo si finge pazzo; riporta a sano consiglio il padre.
In un’epoca così violenta non era impensabile l’omicidio “devozionale”, l’uccisione di un sant’uomo per averne le reliquie. Se Romualdo è deciso di partire, allora unico modo di trattenerlo anella valle di Cuixá è farlo morire.
Questo capitolo si situa probabilmente nel 988 – forse in quaresima – poco dopo la morte di Pietro Orseolo. La finta pazzia di Davide (I Samuele 21,13-14) è citata da Cassiano 25, ma non come esempio da imitare, mentre sia Cassiano che le Vite dei padri vedono l’avidità simulata come un’espressione di umiltà…26
Quando sentirono dire che Romualdo si preparava a partire, gli abitanti di quella regione ne rimasero fortemente contrariati. Ragionarono tra loro sul modo di impedirgli di attuare il suo progetto e, nella loro empia venerazione, conclusero che la cosa migliore era mandare dei sicari ad ucciderlo. Visto che non si poteva trattenerlo vivo, almeno avrebbero avuto, con il suo cadavere, un protettore per la loro terra.
Romualdo venne però a saperlo. Allora si rase completamente il capo e, quando gli esecutori del piano si avvicinarono alla sua cella, sebbene fosse appena l’alba, si mise a mangiare ostentando ingordigia. A quella vista, lo credettero impazzito e pensando a una lesione della mente, non si azzardarono a ledere il corpo. Ecco in che modo la prudente pazzia di questo Davide spirituale sconfisse la stolta astuzia dei sapienti secondo la carne. Aveva trattenuto chi voleva peccare e, non temendo la morte, aveva stornato il rischio della morte aggiungendolo al numero dei suoi meriti.
Così ormai gli fu lasciata libertà di azione. Non a cavallo o su un veicolo; ma con in mano soltanto un bastone e a piedi, dall’interno della Catalogna arrivò fino a Ravenna. Qui trovò il padre ormai intenzionato a ritornare al mondo. Allora gli strinse forte i piedi ai ceppi, e lo legò con catene pesanti, lo colpì con dure percosse e, con pio rigore, domò il suo corpo fino a che, con l’aiuto risanatore di Dio, non ebbe riportato la sua mente alla salute.
14. Sergio vede lo Spirito santo.
Al racconto della finta pazzia di Romualdo segue questo aneddoto, pieno di humour, sulla demenza santa del padre. Il vecchio convertito compie le sue devozioni davanti a un’icona «del Salvatore» – probabilmente una rappresentazione della Trasfigurazione di Gesù. La scena evoca uno stile di pietà che oggi si identifica con la Chiesa d’oriente; ricordiamo i forti legami di Ravenna con Bisanzio, sia sul piano culturale sia sul piano politico.
Sergio, ritornato finalmente a sano consiglio, progrediva speditamente nella vita monastica e si correggeva in tutto ciò che prima aveva trascurato con il suo voler tornare indietro. Tra l’altro ora aveva l’abitudine di sostare spesso davanti a un’immagine del Salvatore e, quando era lì solo, pregava con lacrime abbondanti e grande compunzione del cuore.
Un giorno si era soffermato in orazione con un’attenzione maggiore del solito, quand’ecco una cosa nuova e sconosciuta ai nostri giorni. Ad un tratto, non saprei sotto quale aspetto, gli apparve lo Spirito Santo 27. Sergio gli chiese: «Chi sei?», ed egli gli rispose chiaramente: «Sono lo Spirito Santo». E di colpo, come dirigendosi altrove, si sottrasse al suo sguardo.
Rapito in estasi, ardendo del fuoco di colui che aveva visto, Sergio prese subito a rincorrerlo velocemente nel chiostro del monastero. Ai fratelli che si trovavano lì chiedeva con intenso fervore: «Dove è andato lo Spirito Santo?». Quelli pensarono che fosse impazzito e lo sgridavano con durezza. Ma Sergio affermava di aver visto, senza possibilità di dubbio, lo Spirito Santo e che questi era passato visibilmente davanti ai suoi occhi.
Subito dopo, colpito da indebolimento dovette mettersi a letto e, nel giro di pochi giorni, chiuse felicemente la sua vita. Ciò senz’altro è una conferma delle parole che Dio disse a Mosè «Un uomo non potrà vedermi e vivere» [Esodo 33,20]. E Daniele quando riferisce di aver contemplato non Dio, ma una visione di Dio, aggiunge: «Rimasi sfinito e mi sentii male per vari giorni» [Daniele 8,27]. Ecco, dunque Sergio, dopo aver visto la vita eterna, cioè Dio, in breve tempo venne meno alla vita temporale.
15. Giovanni Gradenigo va a Montecassino; si stabilisce nell’eremo accanto al monastero.
Di Giovanni Gradenigo parla S. Bruno Bonifacio di Querfurt nella Vita dei cinque fratelli, cap. 2. Come a Cuixá, così anche a Montecassino c’era accanto al cenobio una colonia di eremiti. Nell’eremo cassinese Giovanni aveva come compagno un ex-abate del monastero, fatto che dimostra quanto la prassi eremitica di S. Romualdo era in armonia con l’ideale benedettino vissuto nelle abbazie riformate dei suoi tempi.
Il conte Olibano, intanto, lasciò i suoi beni al figlio. Poi, fece caricare di abbondanti ricchezze quindici bestie da soma e, accompagnato da Guarino, da Giovanni e dallo stesso Marino, si recò al monastero di S. Benedetto. Qui salutò e congedò le persone che erano venute con lui e che si affliggevano con molti lamenti e con amare lacrime, poiché fino all’ultimo non avevano sospettato nulla della sua decisione.
Poco tempo dopo, Marino si recò in Puglia e vi abitò nella solitudine. Ma, ben presto, fu ucciso dai pirati Saraceni.
Ancora dopo un breve periodo, Guarino che era solito pellegrinare per motivi di preghiera e Giovanni, spinto dall’esempio di lui a imitarne quella pratica religiosa decisero concordemente di andare a Gerusalemme. Olibano appena lo seppe, rammaricandosi, si mise a supplicarli piamente e piangendo di non andarsene così, contro la parola data, ma di assisterlo nel servizio di Dio, come era stato ordinato dal beato Romualdo. E aggiungeva: «Almeno tu, Giovanni, ricordati che il tuo maestro mi ha affidato di buon cuore alla tua tutela e ti ha parlato esplicitamente di disobbedienza, qualora tu te ne andassi».
Quelli però insistettero con ostinazione nel loro proposito, lasciarono Olibano e si avviarono in pellegrinaggio. Stavano scendendo dal monte ed erano ormai verso la pianura, quando si fermarono a discutere di cose riguardanti quella circostanza. Nel frattempo il cavallo di Guarino, infuriato, si impennò di scatto e nonostante i tentativi del suo cavaliere, si voltò indietro e con il ferro dello zoccolo colpì Giovanni spezzandogli la tibia.
Gettatosi subito a terra per il troppo dolore, costui si ricordò, ormai tardi, del comando del suo maestro e confessò apertamente: «E’ tutto colpa mia; sono stato perfido e disobbediente». Dalla frattura di una gamba, comprese di aver peccato infrangendo il suo impegno. Lui, dotato di ragione, senza badare alla propria incolumità, era stato disobbediente al maestro e ora un animale privo di ragione non aveva saputo obbedire al suo cavaliere. Allora tornò indietro, chiese di costruirsi una cella vicino al monastero, e rimase lì per una trentina d’anni, ossia finché visse, conducendo vita eremitica.
Ci furono in lui molta carità, umiltà ammirevole, astinenza assai rigorosa, sì, ma anche discreta, tanto che perfino nel monastero nessuno avrebbe saputo dire che genere di digiuno fosse praticato dal sant’uomo.
Tra le altre virtù, aveva in forte antipatia il vizio della diffamazione: ogni volta che qualcuno apriva bocca alla maldicenza, questa immediatamente si rivolgeva contro lui stesso, come quando una freccia, colpito un duro sasso, rimbalza indietro.
Dopo la sua morte, Dio compì alcuni miracoli per sua intercessione.
16. Romualdo, eremita presso Classe, vince la paura del demonio.
Ecco altri due capitoli che ricalcano la Vita di S. Antonio. Romualdo vive nella solitudine, ma sul terreno appartenente alla sua abbazia; conduce una vita ritmata dalla preghiera liturgica delle Ore. Si noti l’espressione «stava cantando compieta, dum completorium caneret» (Compieta è l’ultima delle sette Ore diurne dell’Ufficio): la salmodia di Romualdo è sempre un canto, mai una “recita”, sia che si tratti dei Salteri devozionali sia della salmodia liturgica secondo la Regola di S. Benedetto, capitoli 8-20.
Dopo aver provveduto alla correzione del padre, si era fabbricata una cella nella palude di Classe, in località Ponte di Pietro e lì abitava. Ma dopo un certo periodo, non per paura di ammalarsi o per il fastidio del fetore, ma per non indebolirsi e dover diminuire il rigore dell’astinenza, si trasferì in una tenuta di Classe, presso la chiesa di S. Martino in Selva.
Qui, una volta, stava cantando compieta, e siccome quel luogo un tempo era servito da cimitero, il suo pensiero, come spesso succede, ad un tratto si soffermò su questo fatto. Le fantasticherie più orride gli invasero ben presto l’animo. E mentre la sua mente andava così rimuginando, fecero irruzione nella sua cella degli spiriti maligni che subito lo fecero stramazzare a terra, lo straziarono di botte, vibrarono colpi durissimi sulle sue membra esauste per il continuo digiunare. E in quello scatenarsi di percosse, Romualdo, preso dal pensiero della grazia divina, esclamò: «Caro Gesù, amato Gesù, perché mi hai abbandonato? Mi hai forse consegnato interamente alle mani dei nemici?».
A queste parole, tutti gli spiriti malvagi furono messi in fuga dalla potenza divina. E immediatamente il petto di Romualdo si infiammò di una compunzione così grande dell’amore divino che il suo cuore, come cera, si struggeva in lacrime e, nonostante il suo corpo fosse piagato da tutti quei colpi, non sentiva alcun dolore. Subito dopo, si rialzò da terra sano e vigoroso e, sebbene le sue ferite ancora sanguinassero, riprese il canto del salmo dal versetto stesso in cui lo aveva interrotto. Nel momento in cui i demoni erano entrati, gli aveva sbattuto sulla fronte la finestra della cella. In seguito gli si formò una cicatrice ben visibile, che fu, in tutta la vita del santo, una dimostrazione evidente della ferita subita.
17. Romualdo caccia via il Maligno.
Di fronte ai demoni Romualdo è un «soldato di Cristo» come S. Antonio Abate e come S. Benedetto 28
Irrobustito da frequenti combattimenti, il soldato di Cristo si impegnava ogni giorno a progredire maggiormente, a crescere di vigore in vigore. Migliorando di continuo le proprie forze, ormai non aveva più motivo di temere gli agguati del suo estenuato nemico. A volte, mentre se ne stava in cella, si poteva notare la presenza di spiriti malvagi, costretti ad aspettare a distanza, come intorno a un cadavere ben sorvegliato. Non osavano avvicinarsi ed erano in forma di corvi o di avvoltoi orrendi. Altre volte si presentavano nell’aspetto di un uomo 29 o di differenti animali. L’insigne trionfatore del Cristo li insultava dicendo: «Eccomi, sono pronto, venite! Mostrate il vostro valore, se ne avete! Siete proprio sfiniti? Siete stati sconfitti? Non avete più nessun ordigno per combattere contro questo povero servo di Dio?». Svergognava gli spiriti malvagi con parole come queste e, come fossero state altrettanti giavellotti, li metteva presto in fuga.
Allora il diavolo, visto che non poteva prevalere direttamente sul servo di Dio, ripiegò su metodi più insidiosi. Dovunque il santo si recasse, egli istigava contro di lui l’animo dei suoi discepoli. Se non era stato possibile smorzare l’impeto ardente del suo fervore, avrebbe così potuto mettere un freno alla sua sollecitudine per la salvezza altrui. E se non era possibile che Romualdo si arrendesse al nemico, per lo meno non gli avrebbe impedito di ottenere vittoria sugli altri.
18. Romualdo edifica un monastero, ma i monaci lo cacciano via a bastonate.
«Dovunque il santo si recasse, [il demonio] istigava contro di lui l’animo dei suoi discepoli». Nel capitolo presente, il Damiano racconta un episodio che illustra tale insidio diabolico.
Dopo il suo rientro in Italia, Romualdo costruisce un monastero in una località vicino a Bagno di Romagna che si chiama Varghereto 30. Pier Damiano lo presenta come la prima fondazione di Romualdo e come un fallimento totale. Pare che Romualdo non ne sia il superiore canonico: questa sarà la sua prassi abituale nelle comunità da lui fondate o riformate. Alla sua riluttanza di governare gli altri fece una sola eccezione, nel 998, quando per ordine dell’imperatore Ottone III egli accettò di essere eletto abate del suo monastero di professione, S. Apollinare in Classe. Ma terrà l’ufficio solo per pochi mesi; anche lì, non potendo far nulla a beneficio degli altri e temendo di perdere la propria anima, rinunziò all’incarico (cf. Vita dei cinque fratelli, cap. 2). Pier Damiano, invece, reputa la preoccupazione di Romualdo per la propria anima come una gravissima tentazione: chiudersi in sé e infischiarsi degli altri lo avrebbe portato davvero alla dannazione.
Una volta Romualdo si trasferì presso la località detta Bagno, nel territorio di Sarsina. Vi rimase non poco tempo, vi costruì un monastero intitolato al beato arcangelo Michele 31 e, non lontano, fissò la sua dimora in una cella.
Fu lì che il marchese Ugo gli fece recapitare, per eventuali necessità, sette libbre di monete, che egli accettò, per poterle poi dispensare con larghezza e misericordia. E infatti, quando venne a sapere che un incendio aveva distrutto il monastero di Palazzolo, inviò come aiuto a quei fratelli sessanta soldi, serbando la somma rimanente per scopi analoghi.
I monaci però di S. Michele, avendolo saputo si infuriarono come belve contro di lui, sia perché da un pezzo egli si mostrava contrario su molte cose alle loro abitudini, sia perché, quando gli venivano portate delle offerte, ne spendeva una parte per altri, anziché spenderle tutte per loro. Dopo aver complottato tra loro, irruppero tutti insieme nella sua cella con randelli e stanghe, gli dettero molte percosse, si impadronirono di tutto e lo cacciarono dalle loro terre, dopo averlo coperto d’ignominia.
Messo così al bando, mentre se ne andava e una intensa tristezza calava nella sua mente, concepì dentro di sé questa risoluzione: per l’avvenire avrebbe smesso completamente di curarsi della salvezza altrui, contento soltanto della propria. Ma dopo aver avuto questo pensiero, gli invase l’animo una paura grande: temeva di perire ed essere condannato dal giudizio divino, se davvero si fosse ostinato nella sua risoluzione.
Intanto i monaci, ora che avevano mandato ad effetto la vendetta così a lungo desiderata e si erano come sbarazzati di un grave peso, si elogiavano a vicenda per quello che avevano fatto al servo di Dio e, sedotti da questa gioia, si sfogavano con scherzi e risate sfrenate. E ancora, per festeggiare con la massima allegria la loro soddisfazione, vollero procurarsi cibi di lusso raffinati e abbondanti per farne un banchetto. Ma era d’inverno (cosa che, del resto, ben si addiceva non tanto al cielo stagionale quanto alla loro stessa freddezza). Così uno di loro, che era stato particolarmente crudele verso il soldato di Cristo, pensò di andare a comprare il miele per preparare ai commensali del vino melato. E mentre attraversava il fiume Savio, inciampò sulle assi, cadde giù dal ponte e finì trascinato nel fondo dai gorghi. Giusto giudizio di Dio: fu saziato a morte dall’acqua torbida colui che bramava la dolcezza del miele per un’azione di cui avrebbe dovuto piangere.
La notte, poi, mentre tutti, come di consueto, stavano dormendo, una nevicata abbondante fece improvvisamente crollare su di loro tutto l’edificio, spezzando loro il capo o le braccia o le gambe o altre membra. Uno di loro perse un occhio e dovette giustamente sopportare questa privazione della luce corporea, poiché dividendosi dal prossimo, aveva perduto una delle due luci della carità, seppure aveva conservato l’altra 32.
19. S. Apollinare ordina a Romualdo di tornare nel monastero di Classe.
L’anno è quasi certamente il 993 (vedi più avanti, cap. 22). Questa nuova visione di S. Apollinare costituisce la seconda vocazione di Romualdo, l’apertura di una nuova fase del suo cammino spirituale e della sua missione di fondatore di comunità, una missione cominciata con insuccesso a Verghereto.
A questo punto andrebbe riletto il cap. 9. La seconda permanenza a Classe fu per Romualdo un periodo di studio e di riflessione; in base a nuove letture egli modifica il proprio modo di vivere e adotta una regola per il digiuno diversa da quella osservata per più di quindici anni. Romualdo, sempre sensibile e impulsivo di carattere, ha ormai acquisito quella virtù che la tradizione monastica considera la madre di tutte le virtù: la discrezione; e con questa ha acquisita la libertà.
Una volta il santo abitò non lontano dal Catria. Mentre si trovava lì da diverso tempo, gli apparve il beato Apollinare e con grande autorità gli ordinò di recarsi al suo monastero e di abitarvi. Il santo ritenne giusto non trascurare quel comando; senza indugio abbandonò il luogo in cui abitava e si diresse prontamente dove era stato inviato.
20. Romualdo dimora nelle Valli di Comacchio.
Invece di parlare della permanenza di Romualdo a Classe o nei pressi del suo monastero, Pier Damiano inserisce qui due aneddoti non databili, localizzandoli in luoghi confinanti con le paludi di Comacchio. Ormai un uomo di mezz’età, Romualdo non sopporta più il clima umido e si ammala. La malattia di Romualdo è probabilmente la malaria; ne avrà altri attacchi nella sua vita (vedi cap. 26).
L’area è stata bonificata nel corso di questo secolo, ma qua e là si vedono delle zone del genere ambientale che Romualdo vedeva ai suoi tempi. Una leggenda locale ci dice che Romualdo piantò rose intorno alla sua cella, le quali fiorivano ancora secoli dopo la sua morte.
Per un certo tempo, Romualdo stette recluso in una palude di Comacchio detta Origario. Poco dopo, a causa dell’eccessivo fetore della melma palustre e dell’aria insalubre, ne venne via completamente tumefatto e depilato, tanto che il suo aspetto non era più affatto quello di quando vi si era rinchiuso. La sua carnagione era diventata tutta verdastra, quasi come un ramarro.
Note:
20 Cf. Cassiano, Conferenze 2,17: «Conviene, all’ora stabilita, prendere cibo e sonno, nonostante si possa averne ripugnanza…La caduta è più grave per un digiuno immoderato che per un appetito soddisfatto. Da questo si può, intervenendo una salutare compunzione, risalire alla misura dell’austerità; dall’altro [cioè dal digiuno immoderato] è impossibile». S. Pier Damiano, in Opuscolo XLIX, 9, riferisce questa massima di Romualdo: «Fratelli, quando sedete a mensa, ovunque vi troviate, lasciate che gli altri incomincino a mangiare, e voi aspettate; poi quando essi avranno soddisfatto in parte il naturale appetito, incominciate anche voi: così eviterete la taccia d’ipocriti e serberete senza ammirazione la regola della sobrietà».
21 Cassiano, Conferenze 9,36: «Le nostre preghiere devono essere frequenti, ma brevi per il timore che, se si prolungano, chi ci spia [cioè il diavolo] non abbia la facoltà di inserirvi qualche distrazione. Questo infatti è il vero sacrificio: “il sacrificio di Dio è un cuore contrito” [Salmo 50(51),19]». Sulla preghiera vedi anche la Regola di S. Benedetto, cap. 20.
22 Qui la dipendenza da Cassiano è diretta: «E’ più opportuno cantare dieci versetti soltanto di un salmo con la concentrazione della mente, piuttosto che scorrere tutto il salmo distrattamente» (Istituzioni 2,11).
23 Cf. la «Piccola Regola di S. Romualdo» in Vita dei cinque fratelli, cap. 19.
24 Romualdo è ancora giovane; intercede per l’amico contadino, ma non riesce a fargli riavere la vacca. Anni dopo, reso perfetto con la morte santa, lo farà per la povera donna cui viene portata via la vacca: vedi sotto, cap. 71.
25 Cassiano, Conferenze 17,18.
26 Conferenze 17,24; Vite de Padri 24,8,4.
27 Nella tradizione agiografica di Ravenna si parla di apparizioni dello Spirito Santo – sotto forma di colomba – in ben altro contesto: tali apparizioni accompagnarono l’elezione dei primi dodici vescovi della città.
28 Dice san Gregorio Magno di S. Benedetto: «L’antico nemico non poté tollerare questa attività [l’evangelizzazione della gente intorno a Monte Cassino] e non più occultamente o in sogno, ma con palesi apparizioni prese a disturbare la tranquillità di Benedetto. Con alte grida [il demonio] si lamentava della violenza che subiva e i suoi urli giungevano alle orecchie dei fratelli, pur senza vederne la figura… Ma di queste lotte del nemico contro il servo di Dio ne dovremo vedere ancora parecchie altre. Esso gli scatenò contro con tutte le forze una spietatissima guerra, senza accorgersi che, suo malgrado, gli prestò l’occasione di altrettante vittorie» (Gregorio Magno, Dialoghi 2,8).
29 Pier Damiano chiama i demoni «Etiopi», ed è difficile difenderlo dall’accusa del razzismo; al massimo possiamo scusare la sua identificazione del “diverso” con il “diabolico” come un caso di ignoranza invincibile.
30 E’ ancora viva fra la popolazione di Verghereto la memoria di Romualdo; a quanto dice Pier Damiano sulla fondazione del monastero di S. Michele, la tradizione orale locale aggiunge alcuni particolari di non poco interesse – come, ad esempio, il potere pacificatore dell’eremita su due bovini inselvatichiti.
31 Romualdo fa dedicare il monastero di Verghereto a S. Michele Arcangelo, come l’abbazia di Cuixá; infatti l’Appennino tosco-romagnolo è di aspetto molto simile ai Pirenei orientali. Romualdo sente nostalgia per l’eremo presso il monastero di Cuixá, dove ha trascorso il periodo più felice della sua vita..
32 Cf. Matteo 22,37-40.