Del P. R.-Th. Calmel O.P. Nella misura in cui la nuova generazione non sa o non vuol conservare che le cose formali ed esteriori, la civiltà cristiana diventa anemica, svuotata della propria linfa ed esposta ai mali peggiori …
(Titolo originale: Della civiltà cristiana. Appendice a Per una teologia della storia, Borla 1967)
In uno dei suoi grandi pamphlets, di cui non riusciremo ad esaurire la sostanza tanto presto, Georges Bernanos ci ha indicato “il gregge delle grandezze umane che la cattedrale aveva un tempo raccolto attorno ai suoi fianchi giganteschi prima di lanciare verso il cielo, come un grido trionfale, la sua guglia vertiginosa… L’uomo d’altri tempi trovava la Chiesa unita a tutte le grandezze del mondo visibile, accanto al principe che aveva consacrato, all’artista che ispirava, al giudice che essa aveva investito di una specie di mandato o al soldato di cui aveva ricevuto il giuramento. Dalla più alta carica al più umile di quei mestieri onorati dalla protezione dei santi, non esisteva diritto o dovere per quanto umile che essa non avesse benedetto” (La grande peur des bien-pensants, Grasset, Parigi 1932; trad. it.: La grande paura dei bempensanti, Dell’Albero, Torino 1964). Possiamo meditare a lungo questa evocazione della civiltà cristiana poiché essa va in fondo alle cose. In effetti, non esiste civiltà senza il concerto gerarchizzato delle grandezze di questo mondo: le lettere, le arti, le scuole, ma anche l’esercito e la magistratura, i contadini, le diverse industrie, infine lo stato e tutti coloro “qui nos potestate regunt“, come canta l’Exultet nella invocazione ecumenica della vigilia pasquale. Queste grandezze umane incominciano ad essere una civiltà soltanto quando sono rette nel senso del diritto naturale.
Esse si sono costituite laboriosamente come un patrimonio del più alto valore, si trasmettono come un’eredità; l’importante è che non solo l’eredità venga custodita intatta, ma che la sua trasmissione sia viva e che la nuova generazione faccia veramente suoi, animandoli con la propria vita, i beni migliori che le sono stati lasciati dalla generazione precedente.
Nella misura in cui la nuova generazione non sa o non vuol conservare che le cose formali, esteriori, cioè quanto convenuto dalla tradizione e dalle istituzioni, la civiltà cristiana diventa anemica, svuotata della propria linfa ed esposta ai mali peggiori; in parte, è perché non hanno ricevuto l’eredità in una maniera così viva, che i cristiani del secolo XVI precipitarono nelle crisi più pericolose.
La civiltà cristiana non è mai in atteggiamento di riposo: il suo movimento non ha mai l’incoerenza dell’anarchia, ma il ritmo degli esseri viventi. Stabilità e tradizione la caratterizzano; ma si tratta di una stabilità di vita in cui gli organi più nobili rimangono sani per l’instancabile afflusso di un sangue generoso; è la tradizione vivente in cui i veri tesori, le autentiche virtualità – e soltanto quelle – contenuti nel pensiero e nelle istituzioni delle generazioni di ieri, sono individuati con diligenza, piamente raccolti e messi in opera dalle nuove generazioni.
Ma oltre le grandezze umane, pur elevate al massimo secondo il diritto naturale, patrimonio, eredità e trasmissione viva ci sono altre cose nella civiltà cristiana; esistono ancora e prima di tutto, e ininterrottamente, l’assistenza dottrinale e sacramentale e l’intervento – basato sul diritto divino – della nostra madre, la santa Chiesa.
“Siete il sale della terra“. È anche per la civiltà, per la terra civilizzata, che è stata detta questa parola del Sermone della montagna. La Chiesa non può tollerare che le grandezze di questo mondo siano sviate dai loro fini, falsificate e pervertite. Quando vengono abbandonate a se stesse, e in una condizione di “neutralità”, per usare una espressione assurda, divengono incapaci di mantenersi ritte, si deformano e si corrompono. La Chiesa, a immagine del suo Maestro, sa troppo bene ciò che si agita nel cuore dell’uomo. D’altronde, è troppo attenta alle esigenze totali del culto che deve essere reso al Redentore degli uomini nello spirito e nella verità per lasciare che l’opera dell’uomo, in ciò che ha di più grande, la civiltà, si sottragga a Dio, trincerandosi orgogliosamente in quel famoso stato di “neutralità” che è insieme una chimera e un’impostura. Ecco perché la Chiesa non rinuncerà mai a dichiarare il suo diritto naturale al principe e al soldato, al giudice e all’artista, al medico e allo studioso, al pensatore e all’imprenditore.
Potrete dirmi: “qualunque siano le grandezze umane, la Chiesa non deve forse preoccuparsi degli umili, dei poveri, degli offesi e degli umiliati? Evangelizare pauperibus misit me“. Ebbene, è proprio perché il cuore della Chiesa, come quello del suo Sposo, è dilaniato dalla compassione per gli umili e i poveri, che essa non si rassegnerà mai al fatto che le grandezze umane, tradendo la loro finalità, scandalizzino gli infelici. È per il povero, e non solo per il principe, che avvicinerà quest’ultimo per dichiarargli ciò che è giusto in una città composta da riscattati dal peccato, che lo affronterà per rimproverargli le sue durezze o i suoi tradimenti, e persino per scomunicarlo. È per il povero, e non soltanto per il soldato, che benedirà le armi; detterà le regole della guerra giusta, canterà il “Te Deum” delle vittorie, porrà sotto il patronato particolare di un santo o di una santa il popolo vinto, la nazione occupata.
Ma, vorrei chiedervi; chi credete che sia il povero? Pensate che qualche privilegio lo abbia reso esente dal peccato originale, lo credete necessariamente più agguerrito verso i tranelli del demonio dei solitari dell’antico Egitto?
Non è soltanto la Chiesa, ma sono anche le grandezze umane, quando sono cristiane e fedeli al loro battesimo, che riescono a creare, per gli sfortunati nella vita, un’atmosfera sana e respirabile. Fuori di simile atmosfera essi sono terribilmente esposti a lasciarsi prendere dalle trappole più maligne, a cedere alle provocazioni delle peggiori canaglie.
Osserviamo piuttosto quelle città, sorte improvvisamente in virtù degli arbitrari decreti della tecnocrazia moderna. Percorriamo i quartieri, entriamo nelle case sovrappopolate in cui si agita una folla di poveri esseri venuti dai quattro angoli del paese. Davanti a un simile straziante spettacolo, comprenderemo ben presto il ruolo indispensabile delle grandezze umane gradite a Gesù Cristo. E desidereremo l’applicazione, da parte dei grandi che ne sono i primi responsabili, della dottrina della Chiesa sul lavoro e il salario, sul vero significato del godimento. Le grandezze umane gradite a Gesù Cristo riusciranno a creare per i poveri condizioni normali per vivere decentemente nella loro famiglia, daranno loro un lavoro che non li disumanizzi, troveranno degli svaghi che li elevino. È per amore dei poveri, è perché essi – come diceva Le Play – sono le prime vittime di un mondo in cui le autorità sociali sono estranee alla religione cristiana, che la santa Chiesa si rivolge alle grandezze terrene per convertirle e renderle cristiane.
Non è quindi una seria argomentazione chiamare in causa l’amore dei poveri per indurre la Chiesa a non occuparsi delle grandezze umane; e l’argomentazione non si rivela migliore anche quando si vuole chiamare in causa l’umiltà di Gesù Cristo.
Non insisteremo mai abbastanza sull’umiltà del Vangelo, non solo perché questa è una delle sue caratteristiche distintive irriducibili, ma anche perché all’orgoglio della creatura decaduta ripugna naturalmente l'”humiliavit semetipsum” (e tuttavia giungeremo al Vangelo soltanto attraverso questa porta degli umili: “Se non diventerete come bambini non entrerete nel regno dei cieli”). Non sottolineeremo mai abbastanza che Gesù Cristo non ha voluto regnare alla maniera dei re di questo mondo: “Vollero farlo re, ma egli si ritirò tutto solo sulla montagna… Se il mio regno fosse di questo mondo, avrei avuto dei soldati per difendermi”. Non ricorderemo mai con sufficiente devozione l’origine modesta dei dodici apostoli, il mestiere di semplice pescatore che fu quello del primo vicario del Figlio di Dio fatto uomo. Tuttavia, queste considerazioni fondamentali non devono farci dimenticare che Gesù Cristo si è rivolto ai grandi del popolo ebreo, agli scribi e ai farisei di Gerusalemme, e non soltanto alle folle della Galilea, e che il Vangelo è dato agli uomini per crescere e svilupparsi; di modo che, quel granello all’origine, divenga poi quel grande albero su cui riparino gli uccelli del cielo.
Il Signore, nel suo amore per gli uomini accecati, doveva, rivelandosi a essi, prevenire ogni equivoco. Se fosse venuto come un principe e sotto le spoglie gloriose dei grandi della civiltà, gli uomini non si sarebbero attaccati a lui che in apparenza, non l’avrebbero amato che in modo imperfetto; sarebbero stati il prestigio e i vantaggi di un regno terreno che li avrebbero attirati e non la santità, l’esigenza di conversione, la purezza dell’amore. Ritroviamo qui la lezione di capitale importanza in cui Blaise Pascal è nostro venerato maestro: Gesù Cristo si è manifestato agli uomini “come un Dio nascosto: è venuto nello splendore del suo ordine”.
È vero. Ma a misura che il Vangelo estendeva nel mondo le sue conquiste – ed è una legge primaria del Vangelo quella di estendere le sue conquiste (“Sono venuto a gettare un fuoco sulla terra”) – era impossibile che rimanesse estraneo alle grandezze umane. Bisognava che le purificasse, che le amasse e desse loro uno spirito nuovo: uno spirito di umiltà e di carità in virtù della fede nel Signore crocifisso.
Non v’è dubbio che la prima missione della Chiesa è di salvare le anime, guarirle dal peccato e unirle a Dio con la fede e i sacramenti della fede; la prima missione della Chiesa non è di far nascere una civiltà. Ed è forse ciò che intendeva dire il grande filosofo Jacques Maritain in una frase abbastanza aspra dei “Degrés du savoir” (p. 35): “La Chiesa non porta ai popoli i benefici della civiltà, ma il sangue di Cristo e la beatitudine soprannaturale”.
Non è però conveniente stabilire un’antinomia fra le grazie della redenzione e i benefici della civiltà, come se vi fosse un’incompatibilità fra il superbo fiume e i piccoli corsi d’acqua che esso alimenta, e che permettono di irrigare i prati e i campi circostanti. Desidero vivamente – e penso di non essere l’ultimo a farlo – che agli uomini di Chiesa venga raccomandato di non usurpare il posto del laico e di non sostituirsi alla sua missione che investe le grandezze terrene e le cose di Cesare; ma al contrario, che il clero s’impegni a fondo nella sua missione, nel fare il proprio mestiere (dato che mestiere ha lo stesso significato di ministero), nell’esercitare i poteri santificatori di cui ha il privilegio. Ma che io sappia, tale missione non comporta il denigrare la civiltà cristiana né contestarne la necessità e gli insostituibili benefici.
Non ignoro le obiezioni che possono essere avanzate, a partire dalle collusioni, talvolta vergognose, che si sono verificate – e che ancora si verificheranno – fra alcuni uomini di Chiesa leggeri o malvagi e taluni potenti di questo mondo, dispotici o criminali; le numerose complicità di prelati prevaricatori nei confronti di principi concubini, avidi e crudeli; i “Te Deum” solenni cantati in seguito a vittorie più degne dei Mori e dei Turchi che di combattenti battezzati; i favori e le immunità accordate ad artisti indegni. Sarebbe troppo lungo e fastidioso elencare tutti i rimproveri che si potrebbero formulare contro la cristianità, contro ciò che è semplicemente la normale espressione, ma sempre da purificare, della religione cristiana in seno alle istituzioni della città. Da questa requisitoria, il cristiano semplice di cuore, modesto fedele o profondo teologo, non si lascerà turbare: anche il fanciullo che studia il catechismo conosce già la risposta: alcuni prelati, o un gruppo di prelati, non sono la Chiesa.
La Chiesa non commette alcun peccato, ma guarisce tutti i peccati di tutti i suoi figli, compresi quelli più gravi di coloro che sono investiti delle più alte dignità. Quali possano essere i cedimenti individuali, anche se numerosi, la Chiesa annuncia infallibilmente una dottrina di salvezza, elargisce con un’inesauribile larghezza la grazia dei sacramenti; col suo insegnamento e i suoi sacramenti da’ sempre al principe, al soldato, allo studioso e al più umile degli operai la possibilità di esercitare il suo compito in piena conformità col diritto naturale cristiano.
Del resto, che cosa accade quando lo Stato, seppure con la connivenza di preti mediocri o illusi, impedisce a nostra madre Chiesa di occupare il suo posto, di compiere il proprio ministero, di esercitare i suoi poteri santificanti nelle cose della civiltà, accanto alle grandezze umane? Notiamo forse più giustizia, più tranquillità, una maggiore gioia di vivere, una libertà più estesa? In verità, sono Satana e i suoi angeli malvagi che si installano ufficialmente, in virtù di leggi e di regolamenti, senza che nessuno, alla luce del sole e in forza delle leggi, possa disputare loro il terreno. Ho appena ricordato la mancanza di umanità di certe città brutalmente edificate dalla civiltà moderna, industrializzate fino all’estremo limite. Pensate forse che, quando la Chiesa sarà ascoltata, la stessa industria e le città industriali non troveranno la dimensione dell’uomo riscattato? E non pensate che la Chiesa sarebbe maggiormente ascoltata senza l’opposizione sorniona o aperta di uno stato laico che persegue da due secoli, con l’aiuto di certi preti intimiditi, ingenui o sleali, il suo invariabile disegno di respingere la Chiesa sempre più lontano dalla vita degli uomini battezzati, al fine di ricacciarla nel recesso più oscuro del santuario?
Quando la Chiesa, com’è suo pieno diritto, ispira e vivifica le grandezze umane, lungi dal renderle oppressive e implacabili per gli sprovveduti e i deboli, le distende, le apre alla dolcezza di Cristo, le indirizza dalla parte dei poveri. Una civiltà animata dalla Chiesa sarà sempre agli antipodi del totalitarismo, del cesaro-papismo, È inesatto parlare di uno stato cristiano totalitario. Ricorderò qui il meraviglioso paragone, pieno di freschezza e di esattezza, di Jacques Maritain: “Il regno di Dio (potrebbe) avanzare come un re di umiltà montato su un asinello, intendo dire sul temporale cristiano, e salutato dagli osanna” (Question de conscience, Desclée de Brouwer, Parigi 1938, p. 20).
V’è nulla di più contrario al clericalismo di questo re di umiltà? La Chiesa non si comporta altrimenti dal re suo Sposo; “specie tua et pulchritudine tua intende, prospere procede et regna“.
In tutti i tempi la Chiesa possiede quanto è necessario per scongiurare il flagello del clericalismo con la saggezza e la santità; con la saggezza del clero e del laico; con la santità dell’uno e dell’altro; o, perlomeno, con la saggezza e la santità di uno di essi, in mancanza dell’altro. Rileggiamo la storia di san Luigi. Il clericalismo non venne forse vinto dal buon senso e dalla saggezza evangelica di quel re illuminato? Per trionfarne, si guardò bene dal ricorrere, come doveva fare poco dopo Filippo il Bello, alle tenebrose macchinazioni del nascente laicismo.
Non posso fare a meno di trovare alquanto ristretta e davvero inumana la concezione di quei preti che, col pretesto di evitare il clericalismo, ritengono che la Chiesa debba ignorare il temporale, ritirarsi, lasciarlo vacante.
L’officina diventerebbe forse più umana se il vostro sindacato rifiutasse ogni designazione cristiana, ogni riferimento agli insegnamenti pontifici? L’artista troverebbe forse un miglior equilibrio, una vita meno incoerente, se gli fosse impedito di lavorare per il santuario, di lavorarvi col cuore puro, di ricorrere ai sacramenti, tanto più che edifica il tempio in cui è celebrata l’eucaristia?
Magari immaginerete che il demonio non metterà il suo “zampino” in queste posizioni temporali di primaria importanza che chiedete alla Chiesa di abbandonare. In tal caso dareste prova di una grande ignoranza sulle abitudini di Satana. Oppure penserete che, se la Chiesa tiene queste posizioni, il demonio vi si installerà altrettanto comodamente come se essa non vi fosse. In tal caso, misconoscereste l’immensa portata del potere santificante della Chiesa ovunque sia libera di parlare, di insegnare e di celebrare i misteri divini. Indubbiamente il demonio si introduce dappertutto; le grandezze umane non saranno al riparo dalle sue incursioni solo perché sono ispirate, vivificate e corrette dalla santa Chiesa. Saranno tuttavia sottratte alla sua presa di potere, alla sua padronanza legalizzata e istituzionalizzata. Potrà avvenire il sacrilegio, ma sappiamo che gli stessi sacramenti ci danno la grazia di sfuggire alla profanazione dei sacramenti.
Potrebbero incominciare a diffondersi dei costumi farisaici, ma è nella sostanza stessa del Vangelo quando viene accolto (ma come potrà venire accolto se non c’è la libertà di valutare, con tutte le sue conseguenze?) di far fiorire dei costumi di dirittura e d’onestà, di rendere passeggeri i costumi farisaici e di farli odiare.
L’atteggiamento di spirito che vorrebbe ricacciare la Chiesa lontano dalle grandezze terrene per evitare i sacrilegi e il farisaismo, è decisamente troppo meschino e pusillanime. Senza dubbio simili peccati sono terribili e dobbiamo fare quanto ci è possibile per evitarli e preservarne il prossimo. Ma come? Ascoltando i consigli della pusillanimità dell’uomo, oppure prendendo la strada eroica che ci viene additata dalla magnanimità di Dio?
Per abominevole che sia la profanazione dei sacramenti, il Signore ha preferito che gli uomini corrano tale rischio piuttosto di lasciarli senza sacramenti. Tocchiamo qui uno degli aspetti più mirabili delle leggi divine. Piuttosto di lasciare gli uomini in quella penombra della legge e della coscienza, in virtù della quale il loro peccato sarebbe stato meno grave, Gesù Cristo ha preferito dar loro la luce completa, poiché essa era indispensabile alla perfezione dell’amore, qualunque potesse essere il rischio del rifiuto, della rivolta e, diciamo la parola esatta, del peccato contro lo Spirito Santo. Piuttosto che lasciare gli uomini sprovvisti dei sacramenti, della Chiesa e del suo magistero, cioè in una situazione in cui l’abuso delle cose sacre e dei poteri divini sarebbe stato molto più difficile e raro, Gesù Cristo ha preferito istituire i sacramenti e stabilire un magistero, benché gli uomini fossero in tal modo esposti a mischiare le passioni più basse nell’uso dei sacramenti o nell’esercizio del magistero. È così che Cristo ha amato gli uomini e ha onorato la loro dignità. Non poteva renderli capaci di un amore più puro e più profondo, senza esporli ai più neri tradimenti, alle malvagità più deliberate e alle più sinistre menzogne. Quello che importa è che la possibilità dell’abuso delle cose sacre, divenuto un rischio inevitabile della civiltà cristiana, lungi dal farci proscrivere le cose sacre dalla vita pubblica, ci faccia desiderare ardentemente quella santità che sola può prevenire i sacrilegi o il fariseismo e arrestarne le velenose conseguenze. “Siate perfetti come il Padre celeste è perfetto”; che la nostra magnanimità sia dunque a immagine della sua; per sfuggire agli abusi nei sacramenti o nel magistero, non dobbiamo essere meschini al punto di rifiutare i sacramenti e il magistero. Tendiamo all’eroismo, poiché solo l’eroismo è all’altezza dei grandissimi rischi, inscindibili dai doni supremi che Dio ci ha fatto.