L’OSSERVATORE ROMANO, Giovedì 9 Ottobre 1997
Il messaggio del Priore Generale dei Fatebenefratelli
Parola viva per ognuno di noi.
PASCUAL PILES FERRANDO
Priore Generale dei Fatebenefratelli
San Riccardo Pampuri è stato uno degli interpreti migliori del Carisma del Fondatore dell’Ordine ospedaliero dei Fatebenefratelli, san Giovanni di Dio, e con lui l’ospitalità ha raggiunto le più alte vette.
La santità di Riccardo Pampuri è una santità fortemente voluta, in una persona con una grande personalità che nella sua breve vita ha attraversato strade non sempre facili, terreni spesso sconnessi ma sempre intrisi di speranza cristiana e di grande fiducia in Dio.
San Riccardo, oltre ad essere stato un laico secondo il Concilio Vaticano II molto prima dello stesso Concilio, fu un cittadino esemplare sia come studente, sia sotto le armi nella prima guerra mondiale, sia come medico prima e come religioso poi.
Per i nostri giorni è certamente un grande esempio di coerenza civile e morale. San Riccardo ci ha proposto con la sua vita un grande esempio di servizio alla persona malata, soprattutto si pone oggi come richiamo forte a chi fa una professione sanitaria perché non ne faccia strumento di oppressione per il povero e per il debole..
San Riccardo è un forte richiamo verso l’autenticità del servizio al malato che può fare dell’operatore sanitario un autentico benefattore dell’umanità sofferente. È giusto ricordare nel primo centenario della sua nascita, le popolazioni pavesi di Trivolzio, di Torrino, di Morimondo perché sono stati gli uomini e le donne di queste e altre località che hanno forgiato il Pampuri per consegnarlo alla nostra Famiglia religiosa come un dono e perché fosse per tutti i religiosi un esempio vivente e permanente da pregare e imitare.
Abbiamo bisogno di esempi da imitare e come queste terre un giorno ci consegnarono Fra Riccardo perché diventasse un apostolo dell’ospitalità, oggi l’Ordine lo riconsegna idealmente a tutti gli uomini perché per tutti possa essere luce che illumina, esempio che trascina, santità che affascina.
San Riccardo Pampuri è un esempio vivo per la nuova ospitalità che siamo chiamati a vivere oggi.
Siamo di fronte a innumerevoli sfide legate al carisma dell’ospitalità. Siamo presenti in 46 Paesi dei cinque continenti, con esigenze molto diverse, anche se ovunque cerchiamo di essere fedeli a quanto il nostro mondo della salute ci sta chiedendo. Siamo presenti in luoghi dove realizziamo il nostro servizio agli ammalati e bisognosi con l’appoggio dell’organizzazione sanitaria e sociale pubblica esistente; in altri posti cercando di supplire le carenze della stessa società.
Condividiamo l’ospitalità con regimi politici di differenti ideologie. Con il nostro servizio cerchiamo di assistere i bisogni legati da sempre alla malattia e di rispondere ai nuovi bisogni che la nostra società oggi crea.
Cerchiamo di svolgerlo con professionalità e con il calore umano di cui la persona ha più bisogno durante la sua malattia. Stiamo portando avanti un movimento per condividere la missione con tutti i Collaboratori delle nostre Istituzioni, che esige da una parte accogliere la ricchezza e i doni che ognuno di loro ha, ma anche di approfondire l’essenza del carisma dell’ospitalità come lo hanno vissuto Giovanni di Dio e Riccardo Pampuri, e che noi dobbiamo vivere nell’oggi.
La nostra missione ci mette a contatto con tante persone ammalate e bisognose. Coloro che stanno nei centri assistenziali e a contatto diretto seguono i loro processi, conoscono le loro angosce, le loro attese. Nel nome di Giovanni di Dio e Riccardo Pampuri rivolgo ai malati il mio messaggio di speranza.
Desideriamo che quest’anno sia, per tutti i membri della Provincia LombardoVeneta e dell’Ordine, un anno di crescita della nostra identità; un anno per conoscere meglio la figura di san Riccardo, e sentire la protezione della sua presenza tra noi.
Sappiamo che è molto vicino alle situazioni di tanta gente. Lo vedo in cielo, vicino a san Giovanni di Dio, a san Giovanni Grande, a tutti i nostri beati: siano loro la garanzia della continuità nella missione che abbiamo iniziato per il bene dei malati e dei bisognosi. Facciamo in modo che tutti possiamo avere la capacità di essere fedeli ai principi dell’ospitalità come Loro la testimoniarono nel loro tempo.
La sua carità operosa verso i malati non conosceva limiti
GABRIELE RUSSOTTO
16 maggio 1951. Fin dalle prime ore del mattino, nelle strade di Trivolzio — paesino agricolo con più di mille abitanti, nel Pavese — si notava un insolito movimento di gente accorsa dai paesi e dalle frazioni vicine. I vari gruppi man mano diventavano folla ed avevano per meta il piccolo cimitero locale. Nessuno li aveva convocati.
La Postulazione e le autorità ecclesiastiche avevano concordato che l’esumazione e la traslazione della salma di Fra Riccardo Pampuri avvenisse in forma molto riservata: non fu possibile.
La notizia trapelò e si sparse in un baleno: centinaia di persone d’ogni condizione ed età volevano assistere all’evento.
Quando apparve la cassa fu impossibile poter trattenere la folla: tutti facevano ressa per poterla toccare e poggiarvi oggetti di devozione. Il carro funebre che la trasportava, camminava molto lentamente per la gente che lo precedeva e quella che lo seguiva recitando il santo Rosario. Nella Chiesa parrocchiale vi era appena lo spazio necessario per collocare la cassa. Dopo la Santa Messa la cassa venne seppellita nel pavimento della Chiesa e sul marmo vennero incise le sole parole: «Fra Riccardo Pampuri dei Fatebenefratelli, medico chirurgo, 18971930». Ma chi era questo giovane medico, divenuto Fratello Ospedaliero, il cui ricordo dopo tanti anni era ancora vivo nel cuore di questa gente?
Eppure il suo curriculum vitae è breve e molto semplice. Decimo di undici figli egli nacque il 2 agosto 1897 a Trivolzio in provincia di Pavia: nel battesimo ricevette i nomi di Erminio Filippo.
Rimasto orfano di madre all’età di tre anni, venne accolto in casa degli zii materni a Torrino, a circa tre chilometri dal suo paese natale. Sotto la guida dello zio Carlo, medicochirurgo, e della zia Maria, cominciò ben presto ad aprire la mente e il cuore agli ideali della santità e dell’apostolato. Ricevette la Cresima il 10 luglio 1904 e la prima Comunione il 5 aprile 1906. Compiute le scuole elementari a Trovo e a Castrate Primo, frequentò la prima ginnasio presso il Liceo «Manzoni» di Milano, ospite di suo fratello Ferdinando. Alla fine dell’anno scolastico (19081909), tornò a Torrino e gli zii decisero di fargli completare gli studi liceali nel Collegio Convitto «Sant’Agostino» di Pavia.
Dal 1915 al 1921 studiò medicina nell’Università pavese, con l’interruzione del periodo di servizio militare in zona di combattimento durante la prima guerra mondiale.
Socio assiduo e zelante del Circolo Universitario «Severino Boezio» e delle Conferenze di San Vincenzo de’ Paoli, primo presidente dell’Associazione giovanile di Azione Cattolica «Don Bosco» di Trivolzio, nel 1921 s’iscrisse al terz’Ordine di San Francesco.
Conseguita la laurea in medicina e chirurgia il 6 luglio dello stesso anno, dopo un breve tirocinio presso lo zio, accettò la condotta medica di Moribondo in provincia di Milano, a 15 chilometri da Torrino. Questa formò l’amato campo del suo lavoro professionale per sei anni consecutivi (1921-1927), nel quale profuse largamente i tesori della sua scienza medica e del suo cuore apostolico.
Morimondo, una volta importante per il suo celebre e antico monastero cistercense, è un centro molto piccolo: allora contava appena 1.470 abitanti in tutto il Comune; ma la condotta medica, scomoda ed impervia, si estendeva per circa 16 chilometri ed abbracciava una ventina tra frazioni e cascine, alcune distanti anche più di sei chilometri dalla sede del medico. Alla missione di medico e di apostolo, egli si era andato preparando diligentemente ed intensamente da lunghi anni. Ora che l’aveva raggiunta pregava il Signore che «la superbia, l’egoismo o qualsiasi altra passione» non gli avessero bendato gli occhi ed impedito di vedere, curare e confortare Gesù sofferente in ogni infermo. Alle persone care, specialmente a sua sorella Suor Longina, chiedeva che l’aiutassero in ciò con le preghiere. «Prega pure per i miei ammalati, affinché con l’aiuto di Dio io possa tornare loro di reale giovamento» (20 aprile 1922).
«Tu manifesti molta fiducia nell’opera mia di propaganda religiosa presso i miei ammalati, ma purtroppo la fiamma della carità è sempre troppo languida per poter comunicare agli altri il proprio calore» (28 aprile 1923).
«Mi raccomando quindi più che mai alle tue preghiere per ottenere da Dio di non venir mai meno ai miei doveri professionali, ed affinché il Divin Cuore di Gesù, ardentissimo di amore per noi, abbia da accendere, da infiammare anche il mio povero cuore, tanto freddo ed insensibile, della fiamma della Carità» (30 marzo 1924).
«Per me poi dovrebbe tornare ancora più facile pensare sempre a Lui (Gesù Bambino), potendo per la mia professione vederne riflessa la infinita bellezza e bontà attraverso le grandi pupille ingenue di tanti piccoli e graziosi innocenti» (18 dicembre 1926).
La sua carità, perciò, verso i malati non conosceva limiti: non si risparmiava in nulla, pur non avendo una forte costituzione fisica. Dava loro gratuitamente medicine, denaro, viveri, coperte ed indumenti.
Li visitava più volte al giorno, qualunque fosse la distanza, e spesso, passava la notte al loro capezzale, mettendo così in pratica uno dei suoi più importanti propositi spirituali: «Voglio servirti, o mio Dio, per l’avvenire con perseveranza ed amore sommo: … nei malati tuoi prediletti: dammi la grazia di servirli come servirei Te».
Fondatore e presidente dell’Associazione Giovanile d’Azione Cattolica, segretario e cassiere della Commissione Missionaria parrocchiale di Morimondo, oltre ad essere il più valido collaboratore del Parroco, era il consigliere, l’amico, il fratello ed il missionario dei poveri, degli operai e di quanti lo avvicinavano. Con l’aiuto materiale, dava anche quello morale e religioso: organizzava turni di esercizi spirituali; ore di adorazione eucaristica e comunioni collettive; teneva conferenze ascetiche o sul Vangelo o sulla religione; insegnava e spiegava la dottrina cristiana. Per i giovani dell’Azione Cattolica spendeva le migliori energie, attingendo alle sue inesauribili e geniali risorse che gli facevano escogitare ed attuare innumerevoli iniziative apostoliche. Nell’esercizio della professione medica e nelle molteplici opere di carità e di apostolato, ebbe lo spirito d’un contemplativo. In una lettera scriveva: «Ho bisogno di raccogliermi un po’ in me stesso alla presenza del Signore, perché l’anima mia non si inaridisca e perda in sterili e dannose preoccupazioni esterne» (15 marzo 1925).
Tale «bisogno» lo teneva sempre unito ed assorto in Dio anche in mezzo alle opere esteriori; gli faceva passare ore intere in adorazione, spesso in contemplazione, dinanzi al SS. Sacramento, recitare più volte il santo Rosario mentre si recava a visitare gli infermi da una cascina all’altra, praticare austerità, digiuni e mortificazioni con l’umiltà e col fervore dei più rigidi penitenti.
Fin da ragazzo, insieme con l’attrattiva alla sanità e all’apostolato, aveva sentito anche quella alla vita missionaria e religiosa, ma ne era stato dissuaso a motivo della sua gracile salute.
Nel 1927, dopo aver molto pregato, chiesto consiglio e riflettuto, entrò nell’Ordine ospedaliero di San Giovanni di Dio in Milano. Vestito da novizio in Brescia il 21 ottobre col nome di Fra Riccardo, vi emise i voti religiosi il 24 ottobre dell’anno seguente.
Il periodo di tre anni, l’ultimo della sua breve vita, passato tra i Fatebenefratelli fu per lui come la salita della cima più alta d’una montagna che già da tempo aveva cominciato a scalare. Egli intraprese il cammino della perfezione religiosa con generosità e con filiale fiducia nell’aiuto del Signore. Nei primi giorni della nuova vita scriveva: «Mi appoggerò al Suo SS. Cuore, mi metterò sotto la sicura protezione delle ali del suo infinito amore ed Egli mi prenderà per mano… e mi condurrà sicuro oltre ogni scoglio nel porto della salute» (23 agosto 1927).
E giunse al «porto della salute» prima ancora che egli stesso avesse potuto pensare. Per lui, medico e molto innanzi nella perfezione cristiana, non fu difficile acquistare lo spirito proprio dell’Ordine ospedaliero, tanto da divenire ben presto un modello perfetto dei figli di san Giovanni di Dio. Amò con entusiasmo la sua nuova famiglia e ne zelò le opere con filiale gratitudine.
Il 28 ottobre 1928 scriveva alla sorella suora: «Non so come degnamente ringraziare il Signore per tanta immeritata grazia, e solo cercherò di farlo col mantenermi a Lui fedele nel compiere sempre meglio che mi sarà possibile, con prontezza ed amore, la sua SS. Volontà».
Intanto la pleurite — che, contratta durante il servizio militare in seguito alla fatica e allo strapazzo in zona di guerra, minava subdolamente la sua esistenza — si riacutizzò, degenerando in broncopolmonite specifica, e ben presto lo ridusse in fin di vita. Trasportato da Brescia a Milano il 18 aprile 1930, il primo maggio spirò. Aveva amato e servito il Signore fin dai più teneri anni con fervore, naturalezza e semplicità, edificando altamente i suoi compagni di collegio, d’università e d’arme, i suoi colleghi, i suoi malati, i suoi confratelli e quanti lo conobbero. L’ideachiave della sua santità era stata d’una limpidezza cristallina: «Quello che vuole il Signore, lo voglio anch’io»; «Sarò fedele al Signore in tutte le occasioni e circostanze delle quali è intessuta la vita di ogni giorno: farò le piccole cose con grande amore».
Ciò gli diede tanta serenità e tanta pace in punto di morte, alla quale andò incontro col suo abituale sorriso come a colei che lo introduceva nella patria celeste dopo l’esilio terreno. Qualche giorno prima aveva detto a sua zia: «Son contento e felice di aver fatto la volontà di Dio. Che cosa abbiamo su questa terra? Siamo sulla via del cielo, ed io, ora che mi vedo vicino a raggiungerlo, sono felice»; ed al sacerdote, che lo aveva guidato nella vocazione religiosa: «Padre, come mi accoglierà Iddio?»; poi, alzando gli occhi al cielo, aggiungeva: «L’ho amato tanto e l’amo tanto!».
Per questo suo grande amor di Dio, tradotto nel più generoso amore del prossimo, il ricordo del dottor Erminio Pampuri, dell’umile Fra Riccardo dei Fatebenefratelli, dopo tanti anni dalla morte è ancora vivissimo non solo in mezzo al suo popolo, ma anche in mezzo a quelli d’altre lingue ed altre nazioni.
Il 1° aprile 1949 viene aperto il suo processo di canonizzazione dal Card. Schuster. Il 4 ottobre 1981 è dichiarato beato, mentre otto anni più tardi, il 1° novembre 1989, il dottorino di Moribondo viene iscritto nell’albo dei santi.
Dal 16 maggio 1951 le sue spoglie mortali riposano nella chiesa parrocchiale di Trivolzio.
Il religioso esemplare fedele al carisma del Fondatore
MARCO BELLADELLI
È importante, per ripercorrere la vita di san Riccardo Pampuri, prendere in considerazione il suo epistolario e in particolare le 66 lettere indirizzate alla sorella maggiore, Suor Longina, missionaria francescana in Egitto. Fin dai primi scritti possiamo vedere come Erminio si aprisse a lei con una confidenza che andava ben oltre il semplice rapporto parentale, per configurarsi sempre più come un vero e proprio dialogo spirituale.
Nelle lettere è il santo stesso che si fa interprete del suo vissuto e ci guida sempre più nella profondità del suo animo.
Molte di esse sono vere e proprie pagine di profonda spiritualità nelle quali ritroviamo anticipati nel vissuto del Pampuri temi teologici che diverranno poi tanto attuali nel dibattito del futuro Concilio Vaticano II.
In quella del giugno del ’29, scrive: «Eccoci tutti tuoi per sempre, ti rendiamo il tesoro della libertà che ci hai donato con la vita, perché tu ce la custodisca per la vita eterna, fa di noi per mano dei superiori tutto quello che ti pare e piace, noi siamo cosa tua, solo tua, non più nostra né dei nostri parenti od amici, a noi e ad essi abbiamo rinunciato completamente e per sempre, su questa terra, sicuri che così potremo un giorno cantare con loro le tue infinite misericordie, le tue glorie eternamente in Cielo».
Si tratta di un passo molto significativo, perché manifesta con chiarezza, come egli intendesse la sua consacrazione a Dio nella vita religiosa, quello che con buone ragioni possiamo ritenere il vertice di tutta la sua vita spirituale e di uomo.
La lettera prende spunto dalla devozione al Sacro Cuore, tanto raccomandata dalla Chiesa nel mese di giugno.
Per lui, il coroncino e le litanie al Sacro Cuore sono un’ulteriore occasione per riflettere sulle «meraviglie dell’infinito amore di Gesù per noi». Egli mette in evidenza come il Verbo Divino, dopo essersi incarnato, continua ad abbandonarsi nelle mani della divina giustizia per la nostra salvezza.
Tutta la sua esistenza terrena è stata mossa dal desiderio di immolarsi per noi, «per me e per te in modo particolare, o carissima Sorella, tutto il suo Divin Sangue fino all’ultima goccia». La riflessione a questo punto diventa personalissima.
La sua consacrazione e quella della sorella sono la risposta all’atto di amore che Gesù ha rivolto a ciascuno di loro personalmente e direttamente, e non in modo generico. Quello della sorella, missionaria in Egitto, è uno slancio di generosità, mentre la sua consacrazione è «per un sentimento di riconoscenza per avermi strappato dall’inferno le mille volte aperto sotto i miei piedi dalle mie iniquità». A questo punto san Riccardo fa seguire una riflessione, nella quale egli esprime qual è per lui il senso ultimo della sua consacrazione alla vita religiosa.
La libera offerta della libertà diventa ampia disponibilità alla volontà dei superiori, nella sicurezza di appartenere a Dio e soltanto a Lui, senza temere che qualcosa possa andare perduto. Un aspetto che ricorda la persona e l’azione dello Spirito Santo all’interno della via intratrinitaria. È lo Spirito infatti che rende possibile al Verbo di assecondare la volontà del Padre, come il farsi uomo nel grembo verginale di Maria, il sottoporsi all’umiliazione della morte in croce, l’essere esaltato nella gloria della risurrezione, fino al farsi carico Lui stesso di continuare l’opera della redenzione, fino al suo compimento.
«Non più nostra, né dei nostri parenti od amici, a noi e ad essi abbiamo rinunciato completamente e per sempre su questa terra».
San Riccardo mette la mano in una delle ferite più dolorose del suo animo.
È la sofferenza più profonda che ha provocato a se stesso e a coloro che lo amavano. In questo caso egli parla espressamente di rinuncia: a che cosa?
Non certo agli affetti, perché anche nel periodo della sua vita religiosa egli li ha sempre coltivati e rafforzati. Egli intende rinunciare a quella forma di rapporto affettivo che si risolve in ricatto reciproco e costringe ad essere ciò che non si vuole essere. Gesù stesso nel Vangelo è arrivato a dire: «Chi ama suo padre e sua madre più di me non è degno di me» senza per questo voler contraddire il comandamento divino che raccomanda di onorare il padre e la madre.
Si apre davanti a noi una pista molto interessante per continuare ad approfondire il modo di intendere la vita consacrata, secondo san Riccardo. Si intravedono, tra l’altro, anche punti di contatto molto significativi con la recente esortazione apostolica Vita consecrata, nella quale si presenta la vita religiosa ad immagine della vita intratrinitaria divina.
Abbiamo già parlato del grande desiderio di san Riccardo di farsi Religioso.
Si può quasi disegnare una lenta marcia di avvicinamento alla meta: il suo ingresso nel Terz’Ordine Francescano è del marzo del ’21; il rifiuto da parte dei Gesuiti risale a due anni dopo, all’agosto del ’23; nel ’25 si presenta per al prima volta alla porta dei Fatebenefratelli, per esserne respinto, e quindi definitivamente accolto nel giugno del ’27.
Come mai tanta caparbietà? E perché alla fine ha scelto l’Ordine di san Giovanni di Dio: ripiego o segno provvidenziale?
Sappiamo bene che le ragioni dei reiterati responsi si devono trovare nelle sue compromesse condizioni di salute.
Fu quel giorno eroico compiuto al fronte che gli complicò tanto la vita, proprio su ciò che per lui andava sempre più acquisendo un’importanza decisiva. Il consacrarsi nella vita religiosa.
Anche l’orientamento verso i Fatebenefratelli sembra essere stato conseguenza di circostanze occasionali, guidate dalla mano provvidente di Dio, più che il frutto di una scelta maturata nel tempo.
È stato determinante l’incontro con don Riccardo Beretta. S’incontrarono nella primavera del ’23, quando questi era responsabile del Segretariato diocesano dell’Unione Missionaria del Clero per la propaganda in favore delle Missioni estere e il Pampuri era segretario della Commissione parrocchiale di Morimondo.
Nacque immediatamente per entrambi un interesse reciproco, a cui fece seguito una frequentazione sempre più assidua, motivata dal bisogno, da parte di Pampuri di essere spiritualmente sostenuto.
A detta del Sacerdote, il Medico era già in stato di avanzata maturità spirituale, anche se ancora non aveva realizzato ciò che sentiva essere la sua principale vocazione. Si trattava di portare a compimento l’opera che Dio aveva iniziato ed esso si realizzò con l’approdo all’Ordine Ospedaliero di san Giovanni di Dio. Infatti ciò che lo portò verso i Fatebenefratelli non fu tanto l’esercizio della professione medica, che avrebbe poi svolto anche da religioso, secondo le direttive dei Superiori, ma «il bisogno di una regola per poter continuare in una via buona senza pericolo di troppo gravi cadute».