Paolo VI, Discorso. Il Papa apre la seconda sessione del Concilio Vaticano II con un discorso sul rinnovamento della vita ecclesiale e l’unita’ dei cristiani sono le mete cui tendere
29 Settembre 1963
Salute a voi, fratelli in Cristo dilettissimi, che Noi abbiamo chiamato da tutte le parti del mondo, da dove la santa chiesa cattolica ha esteso il suo ordinamento gerarchico. Salute a voi, che accogliendo il Nostro invito siete accorsi per celebrare insieme con Noi la seconda sessione del concilio ecumenico Vaticano II, la quale, oggi, sotto l’egida dell’arcangelo san Michele, celeste protettore del popolo di Dio, Noi abbiamo la gioia di inaugurare.
Oh, veramente si conviene a questa solenne e fraterna assemblea, coadunata dall’oriente e dall’occidente, dalle plaghe australi a quelle settentrionali, il nome fatidico di “ecclesia”, ossia di congregazione, di convocazione! Oh, veramente qui in nuovo modo si realizza la parola che viene ora alla Nostra memoria: “Per tutta la terra risuonò la voce, e fino agli estremi della terra abitata arrivò il messaggio!” (Rm 10,18; Sal 19,5). Oh, veramente un mistero di unità risplende sopra altro mistero di cattolicità; e questo spettacolo di universalità richiama l’origine apostolica, qui fedelissimamente riflessa e celebrata, richiama la finalità santificatrice della nostra dilettissima chiesa di Dio. Rifulgono le sue note caratteristiche, risplende il volto della sposa di Cristo, s’inebriano i nostri animi d’una notissima, ma sempre arcana esperienza, quella che ci fa sentire essere noi corpo mistico di Cristo e ci fa gustare la gioia ignota al mondo profano del “quanto è soave che i fratelli vivano insieme” (Sal 133,1). Non è vano accogliere nel nostro spirito, fino da questo momento, l’avvertenza del fenomeno umano e divino, che noi stiamo effettuando: ci troviamo qui nuovamente, quasi in un cenacolo, reso ristretto, non dalla misura amplissima della sua mole, ma dalla moltitudine di quanti vi sono adunati; qui, certamente dal cielo la vergine Madre di Cristo ci assiste; qui, d’intorno all’ultimo nel tempo e nel merito, ma al primo apostolo identico nell’autorità e nella missione, successore di Pietro, voi vi siete raccolti, o venerabili fratelli, apostoli anche voi, dal collegio apostolico provenienti e suoi autentici continuatori; qui, insieme oranti e insieme unificati dalla stessa fede e dalla stessa carità; qui, noi godremo dell’immancabile carisma dello Spirito Santo, presente, animante, docente, corroborante; qui tutte le lingue saranno una voce sola, e una voce sola sarà messaggio all’orbe universo; qua giunge con franco passo, dopo quasi venti secoli di cammino, la chiesa peregrinante, qui tutta insieme si ristora alla fonte che sazia ogni sete, e ogni nuova sete ridesta, la chiesa apostolica riunita da tutto il mondo e di qui riprenderà fidente la via nel mondo e nel tempo verso la meta ch’è oltre la terra e oltre il secolo.
Salute, fratelli! Così vi accoglie il più piccolo fra di voi, il servo dei servi di Dio, anche se carico delle somme chiavi consegnate a Pietro da Cristo Signore; così egli vi ringrazia delle testimonianze di obbedienza e di fiducia che la vostra presenza gli porta; così vi dimostra col fatto voler egli con voi pregare, con voi parlare, con voi deliberare, con voi operare. Oh, il Signore ci è testimone quando Noi, e fin da questo momento iniziale della seconda sessione del grande sinodo, vi diciamo non essere nel Nostro animo alcun proposito di umano dominio, alcuna gelosia di esclusivo potere; ma solo desiderio e volontà d’esercitare il divino mandato che tra voi e di voi, fratelli, Ci fa sommo pastore, e che da voi chiede ciò che forma il suo “gaudio” e la sua “corona” (cf. Fil 4,1), la “comunione dei santi”, la vostra fedeltà, la vostra adesione, la vostra collaborazione; e a voi offre ciò che maggiormente lo allieta donare, la sua venerazione, la sua stima, la sua fiducia, la sua carità.
Era Nostro pensiero, come una sacra abitudine Ci prescrive, inviare a voi tutti la Nostra prima lettera enciclica; ma perché, Ci siamo detti, affidare allo scritto ciò che, per una felicissima e singolarissima occasione – per questo concilio ecumenico cioè – possiamo esprimere a voce? Non certo possiamo adesso dire a voce tutto ciò che abbiamo nel cuore e che per iscritto è più facile effondere. Ma valga questa volta la presente allocuzione quasi preludio non soltanto a questo concilio, ma al Nostro pontificato altresì. La parola viva sostituisca la lettera enciclica che, a Dio piacendo, trascorsi questi giorni laboriosi, speriamo poi di indirizzarvi.
Ossequio alla memoria di Giovanni XXIII
Ecco dunque che Noi a voi, che ora abbiamo salutati, Ci presentiamo. Siamo infatti nuovi all’ufficio pontificale che stiamo esercitando, anzi, vorremmo dire, inaugurando. Sapete infatti che il sacro collegio cardinalizio, che qui presente vogliamo ancora una volta onorare della Nostra cordiale venerazione, non guardando ai Nostri demeriti e alla Nostra pochezza, il giorno 21 giugno scorso, giorno per cara coincidenza dedicato a festeggiare quest’anno il Cuore santissimo di Cristo, Ci ha voluto eleggere alla sede episcopale di Roma e perciò al sommo pontificato nella chiesa universale.
Non possiamo ricordare questo avvenimento senza ricordare il Nostro predecessore di felice immortale memoria, da Noi amatissimo, Giovanni XXIII. Il suo nome rievoca in Noi e certamente in quanti di voi ebbero la fortuna di vederlo, qui a questo Nostro stesso posto, la sua amabile e ieratica figura, quando apriva, il giorno 11 ottobre dello scorso anno, la prima sessione di questo secondo concilio ecumenico Vaticano, e pronunciava quel discorso, che parve alla chiesa e al mondo voce profetica per il nostro secolo, e che ancora echeggia nella nostra memoria e nella nostra coscienza per tracciare al concilio il sentiero da percorrere e per francare i nostri animi da ogni dubbio, da ogni stanchezza, che nel non facile intrapreso cammino, ci sorprendesse. Oh, caro e venerato papa Giovanni; siano rese grazie, siano rese lodi a te, che per divina ispirazione, è da credere, hai voluto e hai convocato questo concilio, aprendo alla chiesa nuovi sentieri, e facendo scaturire sulla terra onde nuove di acque sepolte e freschissime della dottrina e della grazia di Cristo Signore. Tu, non sollecitato da alcun terreno stimolo, da alcuna particolare cogente circostanza, ma quasi divinando i consigli celesti e penetrando negli oscuri e tormentati bisogni dell’età moderna, hai raccolto il filo spezzato del concilio Vaticano I, e hai così disingannato spontaneamente la diffidenza a torto da alcuni derivata da quello, quasi bastassero oramai i supremi poteri riconosciuti come conferiti da Cristo al romano pontefice per governare la chiesa senza l’aiuto dei concili ecumenici.
Hai chiamato i fratelli, successori degli apostoli, non solo a continuare lo studio interrotto e la legislazione sospesa, ma a sentirsi col papa uniti in un corpo unitario per essere da lui diretti “affinché il sacro deposito della dottrina cristiana sia custodito e insegnato in forma più efficace” (AAS 1962, p. 790; EV 1/45*). Ma tu, indicando così il più alto scopo del concilio, gli hai anteposto un altro scopo più urgente e ora più salutare, lo scopo pastorale, affermando: “Lo scopo principale di questo concilio non è, quindi, la discussione di questo o quel tema della dottrina fondamentale della chiesa…”, ma soprattutto che questa dottrina “sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo” (AAS 1962, pp. 791-792; EV 1/54*-55*). Hai ravvisato nella coscienza del magistero ecclesiastico la persuasione dover essere la dottrina cristiana non soltanto verità da investigare con la ragione illuminata dalla fede, ma parola generatrice di vita e di azione, e non soltanto doversi limitare l’autorità della chiesa a condannare gli errori che la offendono, ma doversi estendere a proclamare gli insegnamenti positivi e vitali, onde essa è feconda. Né solo teorico, né solo negativo, l’ufficio del magistero ecclesiastico deve in questo concilio vieppiù manifestare la virtù vivificante del messaggio di Cristo, che disse: “Le parole che io vi ho detto sono spirito e vita” (Gv 6,64).
Non saranno dimenticate perciò da noi le norme che tu, primo padre di questo concilio, hai per esso sapientemente tracciato e che qui giova ripetere: “Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso – cioè la dottrina cattolica -, come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera che la nostra età esige, proseguendo così il cammino, che la chiesa compie da quasi venti secoli”. Perciò: “occorre tutto misurare nelle forme e proporzioni di un magistero a carattere prevalentemente pastorale” (AAS 1962, pp. 791-792; EV 1/55).
Né sarà da noi trascurata la grande questione dell’unificazione in un solo ovile di quanti credono in Cristo e ambiscono essere membri della sua chiesa, che tu, Giovanni, hai additato come la casa del padre aperta a tutti, in modo che lo svolgimento di questa sessione del concilio, da te promosso e inaugurato, proceda con fedele coerenza sui sentieri da te segnati, e possa con l’aiuto di Dio giungere alle mete da te tanto ardentemente desiderate e sperate.
Il principio, la via e lo scopo del concilio
Riprendiamo, o fratelli, adunque il cammino. Questo ovvio proposito richiama al Nostro spirito un altro pensiero; e questo, così capitale e così luminoso, da obbligarCi a comunicarlo a questa assemblea, anche se essa già ne è tutta informata e illuminata.
Donde parte il nostro cammino, o fratelli? quale via intende percorrere, se piuttosto che alle indicazioni pratiche testé ricordate noi poniamo attenzione alle norme divine a cui deve obbedire? e quale meta, o fratelli, vorrà proporsi il nostro itinerario, da segnarsi, sì, sul piano della storia terrena, nel tempo e nel modo di questa nostra vita presente, ma da orientarsi al traguardo finale e supremo che sappiamo non dover mancare al termine del nostro pellegrinaggio?
Queste tre domande, semplicissime e capitali, hanno, ben lo sappiamo, una sola risposta, che qui, in quest’ora stessa, dobbiamo a noi stessi proclamare e al mondo che ci circonda annunciare: Cristo! Cristo, nostro principio! Cristo, nostra via e nostra guida! Cristo, nostra speranza e nostro termine!
Oh! abbia questo concilio piena avvertenza di questo molteplice e unico, fisso e stimolante, misterioso e chiarissimo, stringente e beatificante rapporto tra noi e Gesù benedetto, fra questa santa e viva chiesa, che noi siamo, e Cristo, da cui veniamo, per cui viviamo, e a cui andiamo. Nessuna altra luce sia librata su questa adunanza, che non sia Cristo, luce del mondo; nessuna altra verità interessi gli animi nostri, che non siano le parole del Signore, unico nostro maestro; nessuna altra aspirazione ci guidi, che non sia il desiderio d’esser a lui assolutamente fedeli; nessuna altra fiducia ci sostenga, se non quella che fiancheggia, mediante la parola di lui, la nostra desolata debolezza: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo” (Mt 28,20).
Oh! fossimo noi in quest’ora capaci di elevare a nostro Signore Gesù Cristo una voce degna di lui! Prendiamo le parole della sacra liturgia: “Te, Christe, solum novimus; – te mente pura et simplici – flendo et canendo quaesumus – intende nostris sensibus!” (“O Cristo, noi conosciamo soltanto te; – tra lacrime e inni impariamo a supplicarti – con animo semplice e puro; – penetra i nostri sentimenti!”: Breviario romano, Inno delle lodi del venerdì). E così esclamando pare a Noi si presenti lui stesso al Nostro sguardo rapito e smarrito, nella maestà propria del Pantocrator delle vostre basiliche, o fratelli delle chiese orientali, e delle occidentali altresì. Noi Ci vediamo raffigurati nell’umilissimo adoratore, il Nostro predecessore Onorio III, che, rappresentato nello splendente mosaico dell’abside della basilica di San Paolo fuori le mura, piccolo e quasi annichilito per terra, bacia il piede al Cristo, dalle gigantesche dimensioni, che in atteggiamento di regale maestro domina e benedice l’assemblea raccolta nella basilica stessa, cioè la chiesa. La scena, a Noi pare, qui si riproduce ma non più in un’immagine disegnata e dipinta; sì bene in una realtà storica e umana, che riconosce in Cristo la sorgente dell’umanità redenta, della sua chiesa, e nella chiesa quasi l’emanazione e la continuazione altrettanto terrena quanto misteriosa; così che sembra disegnarsi al Nostro spirito la visione apocalittica di san Giovanni: “Mi mostrò poi un fiume d’acqua viva, limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello” (Ap 22,1).
È opportuno, a Nostro avviso, che questo concilio muova da questa visione, anzi da questa mistica celebrazione, che confessa lui, nostro Signore Gesù Cristo, essere il Verbo incarnato, il Figlio di Dio e il Figlio dell’uomo, redentore del mondo, cioè la speranza dell’umanità e il suo solo sommo maestro, lui il Pastore, lui il pane della vita, lui nostro pontefice e nostra vittima, lui l’unico mediatore fra Dio e gli uomini, lui il Salvatore della terra, lui il Re venturo del secolo eterno; e che dichiara essere noi suoi chiamati, suoi discepoli, suoi apostoli, suoi testimoni, suoi ministri, suoi rappresentanti, e con tutti gli altri fedeli sue vive membra, compaginati in quell’immenso unico corpo mistico, ch’egli, mediante la fede e i sacramenti, sta formandosi nel succedersi delle generazioni umane, la sua chiesa, spirituale e visibile, fraterna e gerarchica, oggi temporale e domani eterna.
Se noi, venerabili fratelli, poniamo davanti al nostro spirito questa sovrana concezione: essere Cristo nostro fondatore, nostro capo, invisibile, ma reale, e noi tutto ricevere da lui così da formare con lui quel “Christus totus” di cui parla sant’Agostino e la teologia della chiesa è tutta pervasa, possiamo meglio comprendere gli scopi principali di questo concilio, che per ragione di brevità e di migliore intelligenza Noi indicheremo in quattro punti: la conoscenza o, se così piace dire, la coscienza della chiesa, la sua riforma, la ricomposizione di tutti i cristiani nell’unità, il colloquio della chiesa col mondo contemporaneo.
Una definizione più esatta e completa della chiesa
È fuori dubbio essere desiderio, bisogno, dovere della chiesa di dare finalmente di sé una più meditata definizione. Noi tutti ricordiamo le stupende immagini, con cui la sacra Scrittura ci fa pensare alla natura della chiesa, chiamata, a volta a volta, l’edificio costruito da Cristo, la casa di Dio, il tempio e il tabernacolo di Dio, il suo popolo, il suo gregge, la sua vigna, il suo campo, la sua città, la colonna della verità, e poi finalmente la sposa di Cristo, il suo corpo mistico. La ricchezza stessa di queste immagini luminose ha condotto la meditazione della chiesa a riconoscere se stessa come una società storica e visibile e gerarchicamente ordinata, ma misteriosamente animata. La celebre enciclica di papa Pio XII Mystici corporis ha in parte risposto alla brama che la chiesa aveva di esprimere finalmente se stessa in una completa dottrina, e in parte ha acuito il desiderio di dare a se stessa una più esauriente definizione. Il concilio ecumenico Vaticano I aveva già posto l’argomento e tante cause esteriori concorrevano a offrirlo allo studio religioso dentro e fuori la chiesa cattolica: come l’accresciuta socialità della civiltà temporale, lo sviluppo delle comunicazioni fra gli uomini, il bisogno di giudicare le varie denominazioni cristiane secondo la vera, univoca concezione contenuta nella divina rivelazione, ecc.
Non è da stupirsi se, dopo venti secoli di cristianesimo e di grande sviluppo storico e geografico della chiesa cattolica nonché delle confessioni religiose che si appellano al nome di Cristo e si ornano di quello di chiese, il concetto vero, profondo, completo della chiesa, quale Cristo fondò e gli apostoli cominciarono a costruire, ancora ha bisogno d’essere più precisamente enunciato. Mistero è la chiesa, cioè realtà imbevuta di divina presenza, e perciò sempre capace di nuove e più profonde esplorazioni.
Progressivo è il pensiero umano, che da verità empiricamente conosciuta trascorre a conoscenza scientifica più razionale; e che da una verità certa altra logicamente deduce; e che davanti a realtà complessa e permanente si sofferma a considerare ora un aspetto ora un altro, dando così uno svolgimento alla sua attività che la storia registra.
È venuta l’ora, a Noi sembra, in cui la verità circa la chiesa di Cristo deve essere esplorata, ordinata ed espressa, non forse con quelle solenni enunciazioni che si chiamano definizioni dogmatiche, ma con quelle dichiarazioni con le quali la chiesa con più esplicito e autorevole magistero dichiara ciò che essa pensa di sé.
È la coscienza della chiesa che si chiarisce nell’adesione fedelissima alle parole e al pensiero di Cristo, nel ricordo riverente dell’insegnamento autorevole della tradizione ecclesiastica e nella docilità all’interiore illuminazione dello Spirito Santo, il quale sembra appunto volere oggi dalla chiesa che essa faccia di tutto per essere riconosciuta qual è.
E Noi crediamo che in questo concilio ecumenico lo Spirito di verità accenda nel corpo docente della chiesa una luce più radiosa e ispiri una più completa dottrina sulla natura della chiesa, in modo che la Sposa di Cristo in lui si rispecchi e in lui, con vivacissimo amore, voglia scoprire la sua propria forma, quella bellezza, ch’egli vuole in lei risplendente.
Sarà perciò, a questo proposito, tema principale di questa sessione del presente concilio quello che riguarda la chiesa stessa e che intende esplorare l’intima essenza per darne, com’è possibile all’umano linguaggio, la sua definizione che meglio ci istruisca sulla reale e fondamentale costituzione della chiesa e ce ne mostri la sua molteplice e salvifica missione.
La dottrina teologica può avere perciò magnifici sviluppi, che meritano attenta considerazione anche da parte dei fratelli separati, e che, come Noi ardentemente desideriamo, offre ad essi sempre più facile il sentiero ad unitario consenso.
Fra i vari problemi, che questa meditazione, a cui il concilio si accinge, offrirà, sarà primo quello che riguarda voi tutti, venerabili fratelli, come vescovi della chiesa di Dio. Noi non esitiamo a dirvi che guardiamo con viva attesa e sincera fiducia a questa prossima trattazione, come quella che, salve restando le dichiarazioni dogmatiche del concilio ecumenico Vaticano I a riguardo del romano pontefice, dovrà ora approfondire la dottrina sull’episcopato, sulle sue funzioni e sui suoi rapporti con Pietro, e offrirà certamente a noi stessi i criteri dottrinali e pratici, per cui il Nostro apostolico ufficio, quantunque dotato da Cristo della pienezza e della sufficienza di potestà, che voi conoscete, possa essere meglio assistito e confortato, nei modi da stabilire, da una più valida e più responsabile collaborazione dei Nostri diletti e venerati fratelli nell’episcopato.
A tale chiarimento dottrinale dovrà poi seguire quello riguardante la varia composizione del corpo visibile e mistico, ch’è la chiesa, militante e pellegrina nel mondo, e cioè i sacerdoti, i religiosi, i fedeli, nonché i fratelli da noi separati, chiamati anch’essi ad aderirvi in maniera piena e completa.
A nessuno sfuggirà l’importanza di tale compito dottrinale del concilio, donde la chiesa può trarre luminosa, esaltante, santificante coscienza di sé. Voglia Dio che siano esaudite le nostre speranze!
Il rinnovamento della chiesa cattolica
Le quali speranze si rivolgono anche ad un altro principalissimo scopo di questo concilio; quello, come si dice, del rinnovamento della santa chiesa.
Dovrebbe essere, a Nostro giudizio, anche questo scopo derivato dalla nostra consapevolezza della relazione che unisce Cristo alla sua chiesa. Dicevamo voler la chiesa rispecchiarsi in lui; che se alcuna ombra, alcun difetto da tale confronto apparisse sul volto della chiesa, sulla sua veste nuziale, che cosa istintivamente, coraggiosamente dovrebbe essa fare? È chiaro: riformarsi, correggersi, sforzarsi di riportare se stessa a quella conformità col suo divino modello che costituisce il suo fondamentale dovere.
Ricordiamo le parole del Signore, nella sua preghiera sacerdotale, all’appressarsi dell’imminente passione: “Io consacro me stesso, perché siano anch’essi consacrati nella verità” (Gv 17,19).
Il concilio ecumenico Vaticano II deve porsi, a Nostro avviso, in quest’ordine essenziale voluto da Cristo. Solamente dopo questa opera di interna santificazione, la chiesa potrà mostrare il suo volto al mondo intero, dicendo: chi vede me, vede il Cristo; così come Cristo aveva detto di sé: “Chi vede me, vede anche il Padre” (Gv 14,9).
Sotto questo aspetto il concilio vuol essere un primaverile risveglio d’immense energie spirituali e morali, quasi latenti nel seno della chiesa; esso si manifesta come il risoluto proposito d’un ringiovanimento, sia delle sue forze interiori, sia delle norme che regolano le sue strutture canoniche e le sue forme rituali. Cioè il concilio tende ad accrescere alla chiesa quella venustà di perfezione e di santità, che solo l’imitazione di Cristo e la mistica unione con lui, nello Spirito Santo, le possono conferire.
Sì, il concilio tende ad un rinnovamento. Facciamo attenzione; non è che, così dicendo e desiderando, Noi riconosciamo che la chiesa cattolica di oggi possa essere accusata di sostanziale infedeltà al pensiero del suo divino fondatore, ché anzi la approfondita scoperta della sua sostanziale fedeltà la riempie di gratitudine e di umiltà, e le infonde coraggio a correggere quelle imperfezioni, che sono proprie della debolezza umana. Non è dunque la riforma, a cui mira il concilio, un sovvertimento della vita presente della chiesa, ovvero una rottura con la sua tradizione in ciò ch’essa ha di essenziale e di venerabile, ma piuttosto un omaggio a tale tradizione, nell’atto stesso che la vuole spogliare d’ogni caduca e difettosa manifestazione per renderla genuina e feconda.
Non disse Gesù ai discepoli: “Io sono la vera vite e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, Egli lo recide; e ogni tralcio, che porta frutto, lo rimonda, affinché ne porti ancora di più” (Gv 15,1-2)? Basta questo accenno evangelico per prospettarci i capitoli principali di quel perfezionamento a cui oggi aspira la chiesa: il primo riguarda la sua vitalità interiore ed esteriore. A Cristo vivo risponda la chiesa viva. Se la fede e la carità sono i principi della sua vita, è chiaro che nulla dovrà essere trascurato per dare alla fede gaudiosa sicurezza e nuovo alimento e per rendere efficace l’iniziazione e la pedagogia cristiana a tale indispensabile scopo. Uno studio più assiduo e un culto più devoto della divina verità saranno certamente fondamento di questo rinnovamento. E l’educazione alla carità avrà successivamente il posto d’onore. Dobbiamo protenderci verso la “chiesa della carità”, se vogliamo che essa sia in grado di rinnovare in profondità il mondo intorno a sé: immenso compito! Anche perché, com’è noto, la carità è la regina e la radice delle altre virtù cristiane: l’umiltà, la povertà, la religiosità, lo spirito di sacrificio, il coraggio della verità e l’amore della giustizia, e d’ogni altra forza operativa dell’uomo nuovo.
II programma del concilio qui spazia in immensi campi: uno di questi, elettissimo e tutto fiorente di carità, è la sacra liturgia, alla quale la prima sessione ha dedicato lunghe discussioni e alla quale speriamo che la seconda riservi felicissime conclusioni. Altri settori avranno certamente la medesima appassionata attenzione dei padri conciliari, sebbene temiamo che la brevità del tempo a noi disponibile non ci conceda di esplorarli tutti come si converrebbe, e che perciò essi ci offrano lavoro per una futura sessione.
La ricomposizione dell’unità fra tutti i cristiani
E vi è un terzo scopo che interessa questo concilio e ne costituisce, in un certo senso, il suo dramma spirituale; ed è quello, parimenti a noi prefisso da papa Giovanni XXIII, che riguarda “gli altri cristiani”, coloro cioè che credono in Cristo, ma che noi non abbiamo la fortuna di annoverare con noi compaginati nella perfetta unità di Cristo, che solo la chiesa cattolica può loro offrire, mentre col battesimo di per sé sarebbe già dovuta ed è da loro virtualmente già desiderata.
Perché i movimenti recenti, e tuttora in pieno sviluppo in seno alle comunità cristiane da noi separate dimostrano all’evidenza due cose: che la chiesa di Cristo è una sola, e perciò dev’essere unica; e che questa misteriosa e visibile unione non si può raggiungere che nell’identità della fede, nella partecipazione ai medesimi sacramenti e nell’armonia organica, anche se ciò può avvenire col rispetto ad una larga varietà di espressioni linguistiche, di forme rituali, di tradizioni storiche, di prerogative locali, di correnti spirituali, di istituzioni legittime, di attività preferite.
Qual è l’atteggiamento del concilio a riguardo di queste immense schiere di fratelli separati e di questo possibile pluralismo nell’esplicazione dell’unità? È chiaro. La convocazione di questo concilio è caratteristica anche sotto questo aspetto. Esso tende ad una ecumenicità, che vorrebbe essere totale, universale. Almeno nel desiderio, almeno nell’invocazione, almeno nella preparazione. Oggi nella speranza, perché sia domani nella realtà. Cioè, questo concilio, mentre chiama e conta e chiude nell’ovile di Cristo le pecore che lo compongono e gli appartengono a titolo giusto e pieno, apre le porte, alza la voce, attende ansioso le tante pecore di Cristo, che nell’unico ovile tuttora non sono. È un concilio, perciò, di invito, di attesa, di fiducia verso una più larga e più fraterna partecipazione alla sua autentica ecumenicità.
Qui il Nostro discorso si rivolge con riverenza ai rappresentanti delle denominazioni cristiane separate dalla chiesa cattolica, i quali però sono stati da esse inviati per assistere, in qualità di osservatori, a questa solenne assemblea.
Noi li salutiamo di cuore.
Noi li ringraziamo di questo intervento.
Noi mandiamo attraverso la loro presenza il Nostro messaggio di paternità e fraternità alle venerabili comunità cristiane, che essi qui rappresentano.
La Nostra voce trema, il Nostro cuore palpita, perché tanto la loro odierna vicinanza è per Noi ineffabile consolazione e dolcissima speranza, quanto la loro persistente separazione profondamente Ci addolora.
Se alcuna colpa fosse a noi imputabile per tale separazione, noi ne chiediamo a Dio umilmente perdono e domandiamo venia altresì ai fratelli che si sentissero da noi offesi; e siamo pronti, per quanto ci riguarda, a condonare le offese, di cui la chiesa cattolica è stata oggetto, e a dimenticare il dolore che le è stato recato nella lunga serie di dissensi e separazioni.
Che il Padre celeste accolga questa nostra dichiarazione e tutti ci restituisca ad una pace veramente fraterna!
Restano, lo sappiamo, gravi e complicate questioni obiettive da studiare, da trattare e da risolvere. Vorremmo che ciò subito fosse, a causa della carità di Cristo che “ci spinge”; ma siamo persuasi che simili problemi esigono molte condizioni per essere appianati e risolti; condizioni oggi non ancora mature; e noi non abbiamo timore di attendere pazientemente l’ora benedetta della perfetta riconciliazione.
Ma intanto vogliamo confermare agli osservatori presenti, perché ne siano latori alle loro rispettive comunità cristiane, e perché la nostra voce giunga anche alle altre venerabili comunità cristiane, da noi separate, le quali non hanno accolto il Nostro invito ad assistere, pur senza alcun reciproco impegno, a questo concilio, alcuni criteri a cui si ispira il Nostro atteggiamento in ordine alla ricomposizione dell’unità ecclesiastica con i fratelli separati. Essi già conoscono, Noi crediamo, tali criteri; ma qui proferirli può essere salutare.
Il Nostro linguaggio verso di loro è pacifico e assolutamente sincero. Non nasconde insidie, non temporali interessi. Noi dobbiamo alla nostra fede, che crediamo divina, la più schietta e la più ferma adesione; ma siamo convinti che essa non è un ostacolo all’intesa auspicata con i fratelli separati, appunto perché è verità del Signore, e perciò principio d’unione e non di distinzione o di separazione. Ad ogni modo noi non vogliamo fare della nostra fede motivo di polemica verso di loro.
In secondo luogo guardiamo con riverenza al patrimonio religioso originario e comune, conservato e in parte anche bene sviluppato presso i fratelli separati. Vediamo con compiacenza lo studio di coloro che cercano onestamente di mettere in evidenza e in onore tesori di verità e di vita spirituale autentici, posseduti dai medesimi fratelli separati, allo scopo di migliorare i rapporti nostri con loro. Vogliamo sperare che essi pure con pari desiderio vorranno studiare meglio la nostra dottrina e la sua logica derivazione dal deposito della divina rivelazione, come vorranno conoscere meglio la nostra storia e la nostra vita religiosa.
Diremo infine a questo riguardo che, consapevoli delle enormi difficoltà tuttora frapposte all’unificazione desiderata, noi poniamo umilmente la nostra confidenza in Dio. Continueremo a pregare. Cercheremo di meglio testimoniare il nostro sforzo di genuina vita cristiana e di fraterna carità. E ricorderemo, quando la realtà storica cercasse di disilludere la nostra speranza, le parole confortatrici di Cristo: “Ciò che è impossibile agli uomini è possibile a Dio” (Lc 18,27).
Colloquio della chiesa con il mondo contemporaneo
Poi e da ultimo, il concilio cercherà di lanciare un ponte verso il mondo contemporaneo. Singolare fenomeno: mentre la chiesa, cercando di animare la sua interiore vitalità con l’aiuto dello Spirito Santo, si distingue e si stacca dalla società profana, in cui è immersa, viene al tempo stesso qualificandosi come fermento vivificante e strumento di salvezza del mondo medesimo, e scoprendo e corroborando la sua vocazione missionaria, ch’è quanto dire la sua essenziale destinazione a fare dell’umanità, in qualunque condizione essa si trovi, l’oggetto dell’appassionata sua missione evangelizzatrice.
Voi stessi, venerabili fratelli, avete sperimentato questo prodigio. Voi infatti, iniziando i lavori della prima sessione, e quasi infiammati dalla parola inaugurale di papa Giovanni XXIII, avete immediatamente sentito il bisogno di aprire, per così dire, le porte di quest’assemblea, e di subito gridare al mondo, dalle soglie spalancate, un messaggio di saluto, di fraternità e di speranza. Singolare gesto, ma mirabile! Il carisma profetico, si direbbe, della santa chiesa è subito esploso; e come Pietro nel giorno della pentecoste ha sentito l’impulso di levare immantinente la sua voce e di parlare al popolo, così voi avete subito voluto non già trattare le vostre cose, ma quelle del mondo, non già aprire il dialogo fra voi stessi, ma aprirlo col mondo!
Questo significa, fratelli venerati, che il presente concilio è caratterizzato dall’amore, dall’amore che pensa agli altri ancor prima che a sé, dall’amore universale di Cristo!
Questo amore ora ci sostiene, perché aprendo la nostra visione sulla scena della vita umana contemporanea noi dovremmo essere spaventati, piuttosto che confortati; addolorati, piuttosto che rallegrati; sollecitati alla difesa e alla condanna, piuttosto che alla fiducia e all’amicizia.
Noi dobbiamo essere realisti, non celando la ferita che da non poche regioni viene anche a questo sinodo universale. Possiamo essere ciechi, e non avvertire che molti posti di questa assemblea sono vuoti? Dove sono i nostri fratelli di nazioni, nelle quali la chiesa è avversata, e in quali condizioni si trova la religione in tali territori? Il Nostro pensiero, a tale ricordo, si aggrava per quanto sappiamo e ancor più per quanto non Ci è dato a sapere riguardo alla sacra gerarchia, a religiosi e religiose, e a tanti Nostri figli sottoposti a timori, a vessazioni, a privazioni, a oppressioni a causa della loro fedeltà a Cristo e alla chiesa. Quanta tristezza per questi dolori, e quale dispiacere nel vedere che in certi paesi la libertà religiosa, come altri fondamentali diritti dell’uomo, sono sopraffatti da principi e da metodi di intolleranza politica, razziale o antireligiosa. Duole il cuore il dover osservare come nel mondo siano ancora tante ingiustizie contro l’onesta e libera professione della propria fede religiosa. Ma la Nostra deplorazione, piuttosto che in acerbe parole, vuole esprimersi ancora in franca e umana esortazione a quanti fossero di ciò responsabili a deporre nobilmente la loro ingiustificata ostilità verso la religione cattolica, i cui seguaci non come nemici o come cittadini infedeli devono essere considerati, ma piuttosto come membri onesti e laboriosi della società civile a cui appartengono. Ai cattolici poi che soffrono per ragione della loro fede mandiamo, anche in questa occasione, il Nostro affettuoso saluto e invochiamo per loro particolare divino conforto.
Né la Nostra amarezza finisce qui. Lo sguardo sul mondo Ci riempie d’immensa tristezza per tanti altri mali: l’ateismo invade parte dell’umanità e trae dietro a sé lo squilibrio dell’ordine intellettuale, morale e sociale di cui il mondo perde la vera nozione. Mentre la luce della scienza delle cose cresce, si diffonde l’oscurità sulla scienza di Dio e di conseguenza sulla vera scienza dell’uomo. Mentre il progresso perfeziona mirabilmente gli strumenti di ogni genere di cui l’uomo dispone, il suo cuore declina verso il vuoto, la tristezza, la disperazione.
Avremmo cento cose da dire su queste complicate e, per tante ragioni, tristi condizioni dell’uomo moderno, ma non adesso. Ora, dicevamo, l’amore riempie il cuore Nostro e quello della chiesa riunita a concilio. Noi guardiamo al nostro tempo e alle sue varie e contrastanti manifestazioni con immensa simpatia e con immenso desiderio di offrire agli uomini di oggi il messaggio di amicizia, di salvezza e di speranza che Cristo ha recato nel mondo: “Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui” (Gv 3,17).
Lo sappia il mondo: la chiesa guarda ad esso con profonda comprensione, con sincera ammirazione e con schietto proposito non di conquistarlo, ma di valorizzarlo; non di condannarlo, ma di confortarlo e di salvarlo.
Ad alcune categorie di persone guarda la chiesa dalla finestra del concilio, spalancata sul mondo, con particolare interesse: guarda ai poveri, ai bisognosi, agli afflitti, agli affamati, ai sofferenti, ai carcerati, cioè guarda a tutta l’umanità che soffre e che piange: essa le appartiene, per diritto evangelico; e ama ripetere a quanti la compongono: “Venite a me, voi tutti” (Mt 11,28).
Guarda agli uomini della cultura, agli studiosi, agli scienziati, agli artisti; e anche per questi la chiesa ha grandissima stima e grandissimo desiderio di accogliere le loro esperienze, di confortare il loro pensiero, di tutelare la loro libertà, di allargare gioiosamente nelle sfere luminose della parola e della grazia divina la dilatazione del loro spirito tormentato.
Guarda ai lavoratori, alla dignità delle loro persone e delle loro fatiche, alla legittimità delle loro speranze, al bisogno di miglioramento sociale e di elevazione interiore che ancora tanto l’affligge, alla missione che può essere loro riconosciuta, se buona, se cristiana, di creare un mondo nuovo, di uomini liberi e fratelli. La chiesa, madre e maestra, è loro vicina!
Guarda alle guide dei popoli. E alle parole gravi e ammonitrici che la chiesa deve loro sovente rivolgere sostituisce oggi una parola di incoraggiamento e di fiducia: Coraggio, reggitori delle nazioni; voi potete dare oggi alle nostre genti molti beni di cui la vita ha bisogno: il pane, l’istruzione, il lavoro, l’ordine, la dignità di cittadini liberi e concordi, solo che conosciate veramente chi è l’uomo, e solo la sapienza cristiana ve lo può dire con luce completa; voi potete, insieme, operando nella giustizia e nell’amore, creare la pace, questo massimo bene tanto sospirato e dalla chiesa tanto difeso e promosso, e fare dell’umanità una città sola; Dio sia con voi!
E poi la chiesa cattolica guarda più in là, oltre i confini dell’orizzonte cristiano: come potrebbe mettere limiti al suo amore, se essa deve far suo quello di Dio Padre, che piove su tutti le sue grazie (cf. Mt 5,45), e che così ha amato il mondo da dare per esso il suo unigenito Figlio? (cf. Gv 3,16). Guarda dunque oltre la propria sfera; e vede quelle altre religioni, che conservano il senso e il concetto di Dio, unico, creatore, provvido, sommo e trascendente, che professano il culto a Dio con atti di sincera pietà e sulle quali credenze e pratiche fondano i principi della vita morale e sociale.
La chiesa cattolica scorge indubbiamente, e con suo dolore, lacune, insufficienze ed errori in tante espressioni religiose come quelle indicate, ma non può fare a meno di rivolgere anche ad esse un suo pensiero, per ricordare loro che la religione cattolica tiene nella dovuta stima tutto ciò che in esse è di vero, di buono e di umano, e che per conservare nella società moderna il senso religioso e il culto di Dio – dovere e bisogno della vera civiltà – essa è in prima linea come la più valida sostenitrice dei diritti di Dio sull’umanità.
E ancora l’occhio della chiesa si distende su altri immensi campi umani: quelli delle nuove generazioni di gioventù che salgono nel desiderio di vivere e di affermarsi, quelli dei popoli nuovi che stanno acquistando coscienza di sé e indipendenza e ordinamento civile, e quelli delle innumerevoli creature umane che si sentono sole pur nel turbine d’una società senza vera parola al loro spirito; e a tutti, a tutti lancia il suo grido di saluto e di speranza, a tutti augura e offre luce di verità, di vita e di salvezza, perché Dio “vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità” (1Tm 2,4).
Conclusione
Venerabili fratelli, la nostra missione di ministri della salvezza è grande e grave. Per meglio compierla siamo ora riuniti in questa solenne assemblea. La comunione dei nostri animi, profonda e fraterna, sia a noi guida e vigore. La comunione con la chiesa celeste ci sia propizia: così ci assistano i santi delle nostre diocesi e delle nostre famiglie religiose, ci assistano gli angeli e i santi tutti e specialmente i santi Pietro e Paolo, e san Giovanni Battista e in particolare s. Giuseppe, dichiarato patrono di questo concilio. Materna e potente ci sia l’assistenza di Maria santissima, che di cuore invochiamo; Cristo presieda; e tutto sia alla gloria di Dio, della santissima Trinità, la cui benedizione noi osiamo dare a voi tutti, nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo.
Saluto finale
Rivolgiamo un cordiale saluto ai cristiani della tradizione orientale con quella lingua greca che fu la lingua dei primi concili ecumenici e dei grandi padri e dottori della fede: Basilio Magno, Gregorio Nisseno, Gregorio il Teologo, Giovanni Crisostomo, Cirillo d’Alessandria, Giovanni Damasceno e tanti altri che illuminarono tutta quanta l’ecumene e sono rimasti una gloria per il pensiero cristiano.
Fratelli delle sante chiese d’oriente, preghiamo e lavoriamo per la gloria di Dio e per la dilatazione del suo regno nella fede e nell’amore.
Salutiamo anche i cristiani dei popoli slavi e li assicuriamo del Nostro desiderio di pregare e lavorare per la gloria di Dio e la diffusione del suo regno nella fede e nell’amore