SS. FRANCESCO GIL DE FEDERICH e MATTEO ALFONSO LECINIANA (1702-1745)

Sono i primi martiri domenicani del Tonchino orientale (Vietnam) ai quali fu decretato il titolo di Beati da S. Pio X il 15-4-1906.

Francesco nacque il 14-12-1702 a Tortosa, nella Catalogna (Spagna) da illustri genitori. A quindici anni fu ammesso al noviziato di Villa de Exemplo dei Frati Predicatori con il nome di Francesco, e alla professione solenne nel convento di Santa Caterina in Barcellona. Nel corso della sua formazione religiosa aveva concepito il disegno di darsi all’evangelizzazione dei pagani. Nel 1724, ancora studente in teologia a Orihuela, chiese di unirsi ad alcuni missionari domenicani diretti alle Isole Filippine. Ottenne di andarvi con ventiquattro compagni, tra cui P. Matteo Leciniana, soltanto nel 1730 dopo che, ordinato sacerdote (1727) era stato nominato per le sue virtù e l’intelligenza maestro dei frati studenti.
A Manila fu assegnato alla provincia di Pangasinan, di cui fu eletto segretario, ma non cessò di chiedere ai superiori che lo lasciassero partire per il Tonchino anche se sconvolto dalla persecuzione del re Vuéh-Hun ad istigazione del sacerdote pagano Thay-Thinh. Nella Casa di Dio di Luc-Thuy, specie di seminario in cui vivevano tutte le persone addette alla missione, studiò con tanto impegno la lingua annamita che dopo cinque mesi fu in grado di prendersi cura di una quarantina di cristiani, noncurante della pena di morte decretata per i missionari e dei pericoli cui doveva esporsi per visitarle. Un giorno, quantunque malato, volle recarsi al capezzale di un morente dicendo a chi cercava di dissuaderlo: “Quando Gesù in croce stava per morire, assolve dai peccati il buon ladrone; quanto più io che non mi trovo in così duromento, devo accorrere al capezzale dell’infermo”.
Due volte all’anno, dalla quaresima alla stagione delle messi, e dalla festa di S. Domenico all’Avvento, si recava ad amministrare i sacramenti ai suoi fedeli noncurante del caldo o del freddo, delle febbri o delle insidie dei pagani bramosi di catturare i missionari non tanto per ottemperare agli ordini del re, quanto per il lucro che si ripromettevano dal loro riscatto. Nella residenza P. Francesco attendeva sovente alle confessioni fino a mezzanotte. Di vita molto austera, praticava l’astinenza tutto l’anno, in quaresima non mangiava che una volta al giorno. Pur essendo di temperamento serio e grave si mostrava affabile con gli inferiori. Tutti lo amavano come un padre perché era sempre pronto ad aiutare quanti si trovavano in necessità per le carestie, le pestilenze e le sollevazioni. Alla carità il Santo sapeva accoppiare un giusto rigore. Quando i suoi domestici cadevano in colpe gravi, non esitava ad imporre loro di mangiare per terra soltanto un po’ di riso con sale. Non permetteva loro che si abbigliassero con troppo cura, che s’intrattenessero con donne o le introducessero in casa o che perdessero tempo. Egli stesso quando non era occupato a predicare e a confessare pregava o studiava.
Il 3-8-1737, dopo due anni di fecondo apostolato, in seguito alla delazione del sacerdote pagano Thuy-Thinh, P. Francesco fu arrestato dai soldati a Luc-Thuy e tradotto alle prigioni di Ket-Cho (Hanoi), capitale del regno. Una vecchia pagana desiderosa del battesimo, si prese cura di lui incapace di reggersi in piedi a causa delle febbri e degli stenti. Con mance date alle guardie, ella ottenne che il prigioniero potesse trascorrere in principio alcune ore in casa sua, e poi tutto il giorno. Poté così curare le piaghe che gli si erano formate alle gambe e ai piedi. Il Santo ne approfittò per attendere alto studio, ricevere i fedeli che accorrevano a visitarlo e rispondere ai missionari che gli si rivolgevano per consiglio.
Ogni volta che P. Francesco veniva condotto davanti ai giudici, la plebaglia si divertiva a fabbricare croci di canna, a calpestarle alla sua presenza o a gettargliele addosso. Il Santo, rattristato da quei gesti sacrileghi, prendeva quelle croci, le baciava e cercava di disfarle per impedire altre irriverenze. La Ba-Gao, mossa a pietà dalle tristi condizioni di salute del missionario prostrato dalle ulceri e dalle emorroidi, riuscì a ottenergli la libertà anche per le ore notturne. Il martire ne approfittò per intensificare il suo ministero pastorale, confessare e celebrare la Messa nel cuore della notte in attesa della decapitazione.
Quando seppe di essere stato condannato a morte, scrisse il 24-11-1738 al Vicario Apostolico, Fra Ilario di Gesù, il quale gli aveva concesso tutte le facoltà necessarie per amministrare i sacramenti: “Il Signore mi conceda di giungere a tanta gloria”. Al P. Matteo, ancora libero, confidò un mese dopo di non vedere l’ora di “uscire dai peccati e dalle miserie di questo mondo” e si raccomandò alle sue preghiere per ottenere da Dio “umiltà, pazienza e costanza”. Poiché la conferma della sentenza di morte tardava a venire, egli scrisse al vicario provinciale: “Iddio è assai offeso da molti miei peccati e ingratitudini, motivo per cui non ottenni ancora quello che la mia superbia si era promesso”.
La ribellione scoppiata contro la famiglia regnante ritardò la fine del processo del missionario. Gl’interrogatori continuarono lo stesso, ma i giudici non riuscirono a sapere da lui dove era stato e chi lo aveva aiutato a propagare la fede nel Tonchino, nonostante fosse stato minacciato di essere battuto fino alla frattura delle ossa. Giacché si ostinava a tacere, gli fu ordinato di percuotere con un mazzuolo gli oggetti religiosi che gli avevano sequestrato. Il martire, indignato, prese lo strumento e lo scagliò lontano da sé. L’empio Thay-Thinh ebbe l’ordine di raccoglierlo e d’infrangere, sotto gli occhi del prigioniero, il crocifisso di metallo, la statuetta in avorio della Vergine SS. e di calpestare l’immagine della Madonna del Rosario. Fu tanto il dolore che il Santo ne provò che fu assalito da vomito e da nuova emorragia.
Giacché a causa dei rivolgimenti politici il processo non si concludeva, P. Francesco ne approfittò per intensificare il suo ministero dentro e fuori la capitale a favore di circa 6.000 fedeli rimasti senza assistenza spirituale. Erano migliaia le confessioni che riceveva ogni anno e centinaia i battesimi che amministrava. Nel 1743 fu di nuovo chiamato davanti al giudice. Non volendo fare dichiarazioni sulla sua cattura per non compromettere degli innocenti, gli fu imposto di calpestare la corona che portava in dosso con due medaglie. Essendosi egli rifiutato, il gesto sacrilego fu compiuto da Thay-Thinh. P. Francesco cercò di impedirglielo, ma fu trattenuto dal servo del magistrato che lo afferrò brutalmente per i capelli. Il Santo allora non temette di dire che il Tonchino era sconvolto dalle ribellioni e dalla fame e dalle pestilenze perché si perseguitavano ingiustamente i cristiani.
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Tra tante tribolazioni, P. Francesco venne a sapere nel mese di dicembre 1743 che il suo confratello, P. Matteo Leciniana, tradito da un letterato pagano da lui beneficato, era stato arrestato nella Casa di Dio di Luc-Thuy. I soldati fecero irruzione nella cappella mentre celebrava la santa Messa. P. Matteo cercò di fuggire verso la cucina portando l’ostia consacrata con sé. Avendo però dimenticato il calice sull’altare, un pagano se ne appropriò e rovesciò il vino consacrato per terra.
Il P. Leciniana nacque il 26-11-1702 a Nava del Rey, nella diocesi di Valladolld (Spagna). Si fece domenicano noi convento di Santa Croce a Segovia, dove emise i voti nel 1723 e compi gli studi letterari e teologici. Nella pace del chiostro sentì nascere in sé la vocazione missionaria. Chiese perciò di essere aggregato alla provincia domenicana del SS. Rosario delle Filippine, dove giunse con P. Francesco nel 1730. Dopo due anni salpò con altri due confratelli per il Tonchino orientale.
Per undici anni il Santo annunzio il Vangelo in mezzo a difficoltà di ogni genere, senza residenza fissa, sfuggendo più volte miracolosamente alla cattura ordita dal sacerdote pagano Thay-Thinh, I domestici talvolta cercavano di dissuaderlo dal recarsi in certi villaggi dove i cristiani erano in minoranza, ma egli rispondeva loro: “Se dovessi tralasciare di recarmi ad amministrare i sacramenti per timore di essere preso, a che scopo sarei venuto in questo regno?” Non di rado si mise in cammino da solo perché i suoi familiari si rifiutavano di seguirlo per timore della vita. Pur di essere utile ai fedeli affrontava fatiche di ogni genere. Una volta si salvò dalla cattura fuggendo attraverso i campi ancora rivestito dei sacri paramenti. Trascorreva notti intere seduto al tribunale della penitenza. Teneva sempre presso di sé una borsa di denaro per il sollievo dei bisognosi. In tempo di carestia i poveri accorrevano numerosi a lui perché sapevano di ricevere per lo meno una scodella di riso.
Dopo la cattura, P. Matteo fu spogliato delle vesti e percosso fino al sangue. Per campi e per ruscelli fu condotto all’alloggio del sottoprefetto che risiedeva a Vi-Hoang. Costui credeva che il prigioniero fosse uno dei ribelli al giovane re Can-Hung, ed invece si accorse di avere in mano “un maestro della fede portoghese”, cioè un missionario. Non lo fece imprigionare, ma lo lasciò esposto al pubblico affinchè i cristiani potessero avvicinarlo a piacimento. Una suora terziaria, fingendosi un’accattona, si prese cura di lui che ora era custodito in una barca, ora era lasciato allo scoperto sopra un poco di paglia, legato ad un palo e con il ceppo ad un piede.
Dopo una quindicina di giorni il martire fu tradotto con la canga al collo davanti al tribunale della capitale. Mentre pazientemente attendeva di essere giudicato, i monelli gli tiravano la barba e i capelli o gli facevano il solletico; gli adulti, invece, lo molestavano gettandogli addosso delle eroe fatte di canna che egli prendeva, baciava e s’ingegnava di disfare per impedirne la profanazione. Non mancarono i curiosi che gli rivolsero domande sulla sua persona e sulla sua religione, ed egli proclamò davanti a tutti di essere “maestro della legge”, cioè un banditore del Vangelo.
Il governatore della capitale, che aveva preso il missionario in consegna gli domandò: “Poiché il re vieta la tua legge nel regno, per qual ragione e è venuto e ti sei esposto a tali fatiche e pericoli?”. Il Santo gli rispose: “Per poter predicare la Legge di Dio, Signore del cielo, ed esortare gli uomini ad essere veraci, a battere la strada della virtù e ad allontanarsi da quella dei vizi”. P. Francesco appena seppe che il suo confratello si trovava nelle prigioni del governatore si affrettò a scrivergli di usare riguardi a non rivelare il luogo in cui era stato catturato per non compromettere i cristiani di Luc-Thay. P. Matteo gli rispose di stare tranquillo perché un fervente cristiano di quel villaggio si era dichiarato pronto ad attestare di avere chiamato il missionario in casa sua la notte prima della cattura per assistere un infermo.
Sulla terra P. Matteo non desiderava altra grazia che quella di rivedere il P. Francesco per confessarsi, giacché riteneva di non avere mai fatto nessun progresso nel servizio di Dio durante la vita. Ai due martiri fu dato di vedersi in una casa fuori del carcere e consolarsi reciprocamente. I cristiani con i superiori dei due missionari avrebbero pagato volentieri una forte somma di denaro pur di ottenere che P. Matteo fosse rimesso in libertà. Negli interrogatori anche a lui furono fatte domande sulle immagini sacre, gli arredi ed i libri liturgici che gli erano stati sequestrati, ed egli rispose in maniera da illuminare quei pagani sulle principali verità della fede e della morale, sui sacramenti e sulle più belle preghiere cristiane.
Dopo che P. Matteo fu condannato alla decapitazione, gli fu concesso di passare gli ultimi mesi di vita con P. Francesco e beneficiare cosi dell’assistenza della caritatevole Ba-Gao, celebrare la Messa e confortare spiritualmente i fedeli che da tutte le parti accorrevano nella casa di lei. Siccome le calamità continuavano ad affliggere il regno, il sovrano, convinto che il cielo fosse corrucciato per la condanna di tanti innocenti, volle che fossero riesaminate definitivamente le cause ancora pendenti. Nel 1744 per P. Francesco fu chiesta la pena di morte e per il P. Matteo il carcere perpetuo anziché la decapitazione.
Appena la notizia si diffuse tra i cristiani, essi fecero visita ai due martiri per ricevere da loro le ultime raccomandazioni, baciare piangendo le loro catene e supplicarli che chiedessero grazia al re. P. Francesco non ne volle sapere. Dichiarò, infatti, di non essere disposto a dare “la minima moneta per essere sottratto alla morte”. P. Matteo per conto suo aveva preparato un’istanza, ma il confratello lo dissuase dall’inoltrarla al re dicendogli: “Mi trovo da otto anni in carcere. Dio si è mosso a compassione di me permettendomi di soffrire per lui, e voi vorreste impedirlo?”
A mezzogiorno del 22-1-1745 alla presenza del popolo fu di nuovo letta la condanna a morte del P. Francesco. Allora alcuni soldati si avvicinarono al P. Matteo per dirgli che era giunto il momento di chiedere grazia al re per il compagno, ma egli si mise a gridare: “Siamo fratelli e chiediamo di vivere o di morire insieme. Se s’indulge con uno, s’indulga anche con l’altro; se uno è condotto a morte, si uccida anche l’altro; soltanto così saremo contenti”.
I magistrati condannarono anche lui alla decapitazione, ma avrebbero preferito che entrambi chiedessero grazia al re perché gliela avrebbe concessa. I due campioni della fede approfittarono invece di quel momento per rendere testimonianza della divinità di Cristo Gesù.
Giunti al luogo del supplizio, un mandarino pose dinanzi agli occhi dei due condannati a morte, assorti in preghiera, una croce fatta di canne, e disse: “Vi lasceremo andare liberi se calpesterete questa croce; diversamente vi decapiteremo”. I due intrepidi martiri gli risposero: “Fa’ come meglio ti pare; noi non calpesteremo la croce”. Consegnarono ad un cristiano 600 monete perché le donasse ai loro carnefici, si diedero reciprocamente l’assoluzione e poi, mansueti come agnelli, si lasciarono legare ai pali. Le loro teste caddero contemporaneamente ad un segnale del comandante, mentre i cristiani gridavano: “Ah, padri! Ah, padri!”.
I soldati furono impotenti a trattenere la folla che si riversò con pannolini e bambagia a raccogliere il sangue delle vittime, i cui corpi furono trasportati e seppelliti a Luc-Thuy con grande solennità. I due martiri sono stati canonizzati da Giovanni Paolo II nel 1988 con altri 115 testimoni della fede nel Vietnam.
 
 Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 1, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 266-271.
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