Di Divo Barsotti
La perfezione cristiana è la perfezione della carità. Come la fede è adesione pacifica e sicura alla verità e non comporta dubbi, così la carità è frutto dello Spirito e in ogni anche suo minimo grado importa un’adesione appreziativamente somma a Dio. Non vi è carità là dove Dio non è amato come bene supremo: se l’uomo crede di spartire con altri il suo amore, non ama. L’ordine della carità è che si debba amare Dio di un amore totale: con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutte le forze. E, certo, la fede che esclude ogni dubbio è dono di Dio, e cosi dono di Dio è la carità che esclude ogni divisione.
Ma come è possibile allora un cammino spirituale se già fin dall’inizio del cammino l’uomo è in Dio? D’altra parte se non fosse in Dio, come potrebbe essere salvo un uomo che non avesse raggiunto la perfezione della carità? Ma è evidente che non è possibile una vita spirituale che non importi il superamento delle condizioni umane. Come potrebbe l’uomo trascendere cosi se medesimo e tutto il creato per raggiungere Dio e aderire a Lui nella fede e nell’amore? La fede è dono di Dio, e dono di Dio è la carità. Si deve allora capire come sia possibile un cammino di vita spirituale fino a una sua perfezione. Lo Spirito non opera nell’uomo come una forza estranea, al di fuori delle sue potenze, ma, nei suoi doni, Egli muove le sue potenze in tal modo che tutto l’uomo diviene strumento di Dio. L’uomo che sia in grazia è già in Dio, ma Dio richiede una cooperazione all’uomo alla sua azione, e la cooperazione dell’uomo all’azione di Dio è il suo consenso e la sua docilità all’azione dello Spirito.
Dio trasferisce in Se stesso l’uomo, ma l’uomo in Dio può compiere un “ suo ” cammino che può essere senza fine in un Dio che non ha fine. Avviene nella vita spirituale qualcosa di simile a quanto avviene nella vita umana. Con la sua nascita già l’uomo è uomo, ma quanto cammino deve ancora compiere per vivere come uomo! Il cammino dell’uomo nella vita spirituale dipende dalla sua docilità all’azione di Dio. L’esercizio delle virtù morali non è, ora, che l’espressione stessa di una vita spirituale perché l’esercizio di queste virtù, in dipendenza dall’azione dello Spirito, è come trasparente, è come lievitato dall’amore. Le virtù del cristiano infatti sono animate dalla carità: se non sono animate dalla carità non si possono dire cristiane. Si può dunque dire che le virtù sono quasi una certa incarnazione dell’amore, e come non vi è virtù cristiana senza l’amore, cosi non vi è carità nel cristiano senza le virtù, nelle quali vive la carità.
Vi è un cammino nelle virtù che dice il progresso dell’anima nella docilità allo Spirito. In questa docilità ogni comportamento umano viene trasformato. Cosi la vita spirituale importa tutte le virtù. Vi può essere una virtù senza l’altra nella vita morale umana, ma non vi può essere una virtù senza tutte le altre nella vita spirituale del cristiano.
Vi è una virtù nella vita spirituale del sacerdote che suppone tutte le altre, ma sembra tuttavia particolarmente significativa del suo stato e della sua missione; parlare della spiritualità del sacerdozio è considerare particolarmente questa virtù: è il celibato ecclesiastico.
Si può dunque riconoscere nell’esercizio di questa virtù il cammino proprio del sacerdote verso una sua perfezione nella carità? Potrebbe sembrare che il celibato non fosse espressione di amore; per sé sembra dire soltanto rinuncia di fatto, poi il celibato non è essenzialmente legato al sacerdozio. Il termine in realtà non è felice: “ celibato ” direttamente dice qualcosa di negativo, la rinuncia cioè al matrimonio, e potrebbe anche significare uno stato di vita che non importa amore e chiude l’uomo in se stesso. Al contrario, il celibato del sacerdote non vuole significare qualcosa di negativo: la Chiesa vuole, col celibato, la castità perfetta del sacerdote. La spiritualità sacerdotale ha precisamente nella castità perfetta la sua espressione più vera, perché la castità è, nel sacerdote, l’espressione stessa dalla sua carità.
Si è detto che una virtù suppone tutte le altre virtù, ma in ogni stato è una particolare virtù che sembra meglio esprimere e rivelare la carità. Se non fosse animata dalla carità, la castità sarebbe rifiuto all’amore. Ma col celibato la Chiesa manifesta al contrario di volere la santità dei suoi sacerdoti. La castità nel sacerdozio, al contrario di essere una difesa all’amore, è il carisma dell’amore perfetto, di un amore che, a somiglianza di quello di Dio, è preveniente e gratuito, ed è universale.
La dedizione del sacerdote al suo ministero non infatti una risposta all’amore dei fratelli: anche il sacerdote, come il Signore, deve amare per primo. Se conosce un motivo al suo amore, è perché è particolarmente attirato dalla miseria di coloro che egli deve salvare. Certo, l’unico Salvatore di tutti è Gesù figlio di Dio, ma la salvezza che Egli ha meritato per tutti raggiunge di fatto ogni uomo per il servizio sacerdotale di coloro che il Cristo associa alla sua missione.
Per i fratelli egli dona la sua vita; l’ordinazione sacerdotale lo consacra a un servizio dal quale mai più potrà liberarsi, ed è un servizio che richiede il dono totale di sé. E a nessuno per sé può rifiutare il suo amore.
Come potrebbe il sacerdote vivere questo amore se in lui non vivesse Gesù? Il sacerdozio esige e suppone nello stesso tempo la più intima unione, anzi una certa unità col Cristo: è il Cristo medesimo che deve vivere in lui, e la vita del Cristo è l’amore fino al sacrificio, fino alla morte. Questa unità col Cristo, per cui una sola è la vita e uno solo l’amore, non potrebbe essere vissuta senza la castità perfetta. La castità sacerdotale è pertanto come il segno sacramentale dell’unione del sacerdote col Cristo.
Sì è detto tante volte e sì è ripetuto che il sacerdote è un “ altro Cristo ”. Per l’esercizio del sacerdozio ogni sacerdote opera nella persona del Cristo, ma quello che avviene per il potere che gli è conferito con l’ordinazione, se assicura per sé’ l’efficacia degli atti sacramentali, esige tuttavia, perché non sia menzogna, che la vita del sacerdote sia una sola con la vita del Cristo.
Nella castità così il sacerdote, al contrario di vivere un suo rifiuto all’amore, realizza quell’unione nuziale che, secondo i più grandi maestri, è precisamente la perfezione stessa della vita spirituale. Se non fosse così, la castità non potrebbe essere condizione all’amore e potrebbe divenire condizione invece a un egoismo che potrebbe chiudere l’anima e il cuore del sacerdote, rendendo vuota e sterile la sua vita. Di fatto il matrimonio è stato elevato da Cristo a dignità di sacramento, perché nell’amore dell’uomo e della donna già in figura si faceva presente il mistero dell’unione del Cristo e della Chiesa. La castità perfetta nel sacerdote non è più soltanto figura di quell’unione, ma suo compimento più o meno perfetto. Solo cosi, divenendo un solo Spirito col Cristo, il sacerdote vivrà una partecipazione reale all’amore preveniente e gratuito del Cristo e sarà il Cristo medesimo a vivere in lui la sua stessa passione di amore, la sua missione di universale salvezza.
L’amore esclusivo per Cristo, per cui egli liberamente rinuncia a formarsi una sua famiglia, dilata cosi il suo cuore da farlo capace di un amore che non conosce confine. La sua famiglia è l’universo. Certo, i condizionamenti umani rimangono. Anche Gesù non è stato mandato che alle pecore perdute della casa d’Israele, ma questo non impedì che egli di fatto fosse il salvatore del mondo. Se sul piano visibile e sociale s’impone un limite all’attività dell’uomo, la carità non conosce altro limite che quello della sua imperfezione. Per questo anche il sacerdote riceve una missione canonica che è limitata nel tempo e nello spazio, ma la carità che lo anima non conosce per sé alcun limite, è eterna e non può escludere alcuno.
Unica e indivisibile è la missione del Cristo, e ogni cristiano la vive nello stato in cui l’ha posto il Signore e in quelle condizioni di tempo e di luogo che la Provvidenza ha assegnato alla sua vita. Ma più di ogni cristiano, nella castità che lo unisce a Cristo in una carità indivisibile, il sacerdote è impegnato a vivere la stessa missione del Cristo. E’ proprio la castità perfetta che lo apre a una carità universale: nulla e nessuno lo lega e lo divide dagli altri. Uno col Cristo, egli diviene uno con tutti.
Questa unità non si compie che in Cristo e importa che tutta l’umanità, tutta la creazione, sia in qualche modo assunta dal Verbo e divenga in Lui un solo Cristo. Cosi la Persona del Verbo per cui tutte le cose furono create, diviene il principio di una unità di tutto il genere umano, anzi della creazione intera; ma tutto questo non avviene senza il sacerdozio. Cosi il sacerdozio è strumento di Dio al compimento di questo disegno mirabile. Certo, precipuamente lo è coi sacramenti che amministra, ma prima ancora con la testimonianza di tutta la sua vita.
Si insegna che l’Ordine sacro imprime un sigillo nella natura del sacerdote. Il carattere non trasforma radicalmente la natura dell’uomo, ma fa si che ogni attività di questa natura non possa non essere un’attività sacerdotale. Con tutta la sua vita il sacerdote è a servizio del Verbo per ricondurre a Lui gli uomini e il mondo. Per questa operazione è necessario che il mondo fisico venga sottomesso allo spirito e lo spirito a Dio. La castità è la forza che riporta la sensibilità umana all’obbedienza dello spirito; pertanto è nella castità il primo mezzo per liberare l’uomo dalla schiavitù dei sensi e ordinarlo alla vita spirituale. Di questa liberazione il sacerdote deve dare l’esempio in se stesso, e deve essere guida. Per la castità infatti tutti gli uomini sono chiamati a iniziare un loro cammino di risanamento della natura umana disgregata dal peccato. Di qui l’importanza che ha la castità nella vita di ogni cristiano, ma anche di qui l’importanza eccezionale che deve avere questa virtù nella vita del sacerdote, che più direttamente è chiamato a vivere la missione del Cristo, perché tutta la natura anche fisica si ordini a Dio.
Questa salvezza che doveva risanare la rottura dell’uomo da Dio, dell’uomo dagli uomini, dell’uomo dalla creazione e finalmente dell’uomo in se stesso che il peccato aveva compiuto doveva esigere che si ricomponesse prima di tutto 1’unità dell’uomo in se medesimo. Come potrebbe il sacerdote essere il messaggero e il testimone della salvezza, se egli non dimostrasse con la sua vita di essere egli stesso salvato? Sottomessa la carne allo spirito, ora l’uomo può ordinarsi a Dio e in Dio essere salvo.
Ma la salvezza non può isolare, dividere l’uomo dagli altri fratelli, e per la missione sacerdotale tanto meno può dividere il sacerdote da tutti coloro ai quali è stato mandato. La castità che risana la natura dell’uomo divisa dal peccato è nel sacerdote anche un impegno a risanare la divisione che il peccato ha compiuto tra uomo e uomo, tra l’uomo e la creazione. La castità perfetta è quella forza divina che solleva non soltanto l’uomo a Dio, ma solleva tutta quanta la creazione ordinandola a Lui. Importante per la sua santificazione, la castità è sommamente importante per il ministero del sacerdote. Nella liberazione da ogni legame familiare, egli è totalmente disponibile al suo ministero: nulla può o deve sottrarlo a quella dedizione di sé cui si consacrò con l’ordinazione sacerdotale. Non può vivere più una sua vita, una sua professione, non ha più un suo nome: non appartiene che a Cristo. E Cristo vive in lui una missione che il sacerdote può dire di avere adempiuto se gli chiederà il dono di tutta la vita. Il celibato che la Chiesa vuole da lui sarebbe una mutilazione se non fosse, al contrario, la condizione perché si facesse presente in lui il mistero del Cristo, della sua vita e della sua morte per la salvezza del mondo. Negare che sul piano naturale non sia un sacrificio, è negare l’evidenza; ma il celibato del sacerdote non è solitudine se è unione col Cristo, non e sterilità se è servizio di amore.
Se comunque è unione con Cristo, la fedeltà all’impegno del celibato esige la preghiera che alimenta l’amore, una preghiera viva. nel rapporto personale del sacerdote col Cristo. Se è servizio di amore, è necessario che il sacerdote non si chiuda in se stesso, ma senta sempre più che egli vive per gli altri, che gli altri sono la sua vita.
Questa dunque ci appare la spiritualità del sacerdote: egli deve vivere una intima unione con Cristo per essere con Lui una sola lode al Padre, ed essere insieme una sola cosa con gli altri. Vivrà la sua unione col Cristo nella sua stessa dedizione ai fratelli. La santità e la missione saranno cosi inseparabili e la loro unità sarà frutto di un amore casto. Il celibato, che poteva sembrare isolarlo, diviene il segno dì un amore che unendolo a Cristo lo fa anche uno con tutti.