S. TOMMASO MORO (1478-1535)

Avvocato, scrittore e uomo politico inglese. È ricordato soprattutto perchè si oppose alla rivendicazione di Enrico VIII di farsi capo supremo della Chiesa d\’Inghilterra.  A causa di ciò ebbe fine la sua carriera politica e fu condannato alla pena capitale con l\’accusa di tradimento. Nel 1935 è proclamato santo da Papa Pio XI. San Tommaso Moro è patrono degli statisti e dei politici.

Questo magistrato, martire della fedeltà alla Santa Sede, nacque a Londra il 7-2-1478 dal giudice Giovanni. Dopo i primi studi, fu posto come paggio nella casa dell\’arcivescovo di Canterbury, cancelliere del Regno e maestro insigne di Oxford, Giovanni Morton, il quale, intravedendo nel talento di lui l\’eccezionale avvenire che lo attendeva, lo mandò (1492) a compiere gli studi umanistici presso l\’università di Oxford. Il More poté beneficiare dei più celebri maestri del tempo, tra cui l\’austero canonico Giovanni Colet da lui scelto come confessore.
Il padre non condivideva l\’amore del figlio per le lettere. Dapprima gli lesinò i soldi. "È perciò – scriverà il figlio – che non potei adagiarmi in alcun vizio, ne in alcun piacere e che non spesi il tempo in divertimenti vani e indegni. Non sapevo che cosa fosse la lussuria e non ho mai imparato a scialacquare il denaro: in una parola, altro non amavo e ad altro non pensavo che ai mie studi". Lo richiamò quindi a Londra (1494) per i corsi di giurisprudenza. Tommaso ubbidì senza discutere e si perfezionò a tal punto nell\’arte delle pandette che, a ventitré anni, fu chiamato a difendere le prime cause e a venticinque fu eletto membro del Parlamento. Non abbandonò frattanto il greco, il latino e il francese, e alla lettura dei classici e dei Padri della Chiesa aggiunse lo studio della matematica e della filosofia. Il ciclo di conferenze ad alto livello tenuto nella chiesa di S. Lorenzo sul De Civitate Dei contribuì a renderlo noto a tutto il mondo intellettuale di Londra. Il suo "hobby" preferito tra tante occupazioni, oltre il suono della viola e del flauto, era l\’osservazione delle forme e delle abitudini degli animali e degli uccelli di cui aveva riempito la casa. Detestò il gioco del tennis, dei dadi e delle carte, ma si dilettò di tutte le più serie occupazioni umane e coltivò l\’amicizia. Dall\’incontro a Londra con Erasmo di Rotterdam (1499), principe degli umanisti, in viaggio verso Oxford, nacque una stima che non venne mai meno. "Se volete una modello perfetto di amicizia – scriverà Erasmo – non ne troverete uno più perfetto di More. In compagnia è così gentile e dolce, che anche i più malinconici diventano allegri, e non vi è dolore che egli non sappia alleviare".
Il segreto di questo suo benefico influsso risiedeva nell\’intensità della sua vita spirituale. Sappiamo difatti che fin d\’allora egli portava il cilicio, usava la disciplina e digiunava; di notte si alzava alle due per studiare e pregare fino alle sette; la mattina, rivestito di cotta, ascoltava la messa e faceva sovente la comunione. La sua carità non conobbe limiti nel soccorrere i miserabili. Quando la posizione sociale gli vieterà di scendere personalmente nei bassifondi, farà portare loro monete d\’oro da qualcuno dei suoi familiari, li chiamerà alla propria mensa e prenderà addirittura in affitto una casa accanto alla sua per mantenervi poveri e malati. Quando giunse il tempo di decidersi sul genere di vita da abbracciare, il More andò ad abitare nella foresteria della Certosa. Dopo quattro anni di riflessioni decise di essere un marito casto anziché un sacerdote impuro.
Nel 1505 sposò Jane Colet che gli diede quattro figli. Rimasto vedovo (1511), si risposò dopo un mese con Alice Middleton, stagionata vedova di un mercante e per giunta petulante e ambiziosa. Nonostante tutto, quell\’unione fu felice. "Di rado – fu costretto ad ammettere lo stesso Erasmo – si trova un marito che ha ottenuto dalla moglie, con autorità e severità, tanta compiacenza quanta il More ne ha ottenuta per mezzo dell\’adulazione scherzosa…". E aggiunse: "Allo stesso modo egli comanda a tutti coloro che appartengono alla casa, dove non vi è litigio alcuno. Se ne sorgono, egli interviene immediatamente, e li fa cessare, senza serbare né far serbare rancore".
Ai suoi figli volle che fosse impartita un\’educazione basata sulla cultura, ma soprattutto sulla religione. Al loro precettore un giorno scrisse: "Benché io, a tutti i tesori dei re, preferisca il sapere, sono tuttavia convinto che anche la più grande fama acquisita con la scienza, se non è accompagnata da una vita buona, altro non è che splendida infamia". Per la sua opposizione all\’eccessiva esazione del re Enrico VIII, suo padre fu gettato nella torre di Londra e vi fu trattenuto finché non ebbe pagato una forte multa.
Quando salì al trono Enrico VIII, il More se ne acquistò talmente il favore che nel 1510 fu eletto vicesceriffo di Londra, cioè consulente legale del consiglio comunale, e nel 1515 fu inviato nelle Fiandre quale ambasciatore, dove seppe difendere così bene i colossali interessi commerciali inglesi che, quando ritornò, meritò una pensione a vita di cento sterline. Nauseato dalle controversie dei mercanti e dall\’avidità degli uomini, si era divertito allora a scrivere l\’Utopia, una critica all\’organizzazione sociale inglese e alle consuetudini machiavelliche della politica europea. Nel suo stato immaginario, in un\’isola immaginaria, con la comunanza dei beni permetteva il divorzio, il suicidio e l\’eutanasia. A suo dire il libro non rappresentò che un prodotto di momenti non controllati.
Nel 1517 Tommaso ricevette l\’ordine di partire per Calais allo scopo di saggiare il terreno, come ambasciatore, per la stipulazione di un trattato segreto con Francesco I, re di Francia. L\’esito favorevole lo incatenò irrimediabilmente, contro sua voglia, alla vita politica. Enrico VIII lo scelse, difatti (1518), quale membro del Consiglio privato della corona di cui faceva parte Giovanni Fisher, vescovo di Rochester, e poi maestro delle suppliche. Erasmo commenterà: "Egli non è salito per questo in superbia. Anzi, ricorda i suoi amici più umili, e ogni tanto ritorna alla letteratura, che tanto ama… Ha un grande desiderio di far del bene, e il suo cuore è così compassionevole che, più atti di carità egli compie, più ne vorrebbe compiere. Soccorre gli uni con denaro, protegge gli altri con la sua autorità, e altri ancora promuove col suo appoggio. Se non può agire altrimenti, aiuta almeno con i consigli e non allontana mai nessuno senza aver fatto qualcosa per lui. Sembra proprio che sia stato designato alla sua carica per sollevare tutti i bisognosi".
Nel 1521 il More, nominato cavaliere, fu trasferito dall\’ufficio di Maestro delle Suppliche a quello di Sottotesoriere, le cui attribuzioni corrispondevano press\’a poco a quelle odierne di Cancelliere dello scacchiere. Il re lo volle costantemente a portata di mano, sia a corte che nei suoi viaggi per l\’interno del paese, finché, per le insistenze del cardinale Tommaso Wolsey, gran cancelliere d\’Inghilterra, fu eletto alla carica di Presidente della Camera dei Comuni (1524), e l\’anno successivo ebbe il titolo di cancelliere del ducato di Lancaster.
Nel primo periodo del suo regno Enrico VIII si mostrò fervente e sincero sostenitore dell\’antica fede. Contro Lutero, scomunicato da Leone X nel 1520, scrisse un\’opera in difesa dei sette sacramenti che gli valse le ire dell\’eresiarca e il titolo di Difensore della fede da parte del papa (1521). In seguito, però, la sfrenata passione per la dama di corte Anna Bolena lo portò a desiderare il ripudio di Caterina d\’Aragona, vedova di suo fratello Arturo, che aveva sposato con la dispensa d\’affinità di primo grado, e dalla quale aveva avuto soltanto una figlia, Maria. Verso la fine del 1527 il re chiese al More il suo parere sull\’annullamento del matrimonio, ma non trovò che una netta opposizione. Deciso a sposare Bolena ad ogni costo per avere un erede maschio al trono, costrinse il cardinale Wolsey a lasciare il cancellierato perché non era riuscito ad agganciare il papa ai suoi disegni. Al suo posto chiamò Tommaso More nella speranza di fargli cambiare proposito. Il santo accettò a malincuore. Era il primo laico che occupava quella carica (1529). Invitato ancora una volta a riconsiderare la questione del ripudio di Caterina, mantenne il proprio atteggiamento e si limitò agli stretti doveri di cancelliere. La sua posizione si fece più delicata quando il re, agli inizi del 1531, pretese essere riconosciuto capo supremo della Chiesa d\’Inghilterra. Nel riferire al parlamento le giustificazioni del re riguardo alla propria condotta, non andò oltre al puro compito di portavoce. Il 12-5-1532 l\’arcivescovo di Canterbury Warham, in seguito a pressione reale, presentò l\’atto di sottomissione del clero con la clausola: "Con quei limiti che la legge di Cristo consente". Lo stesso giorno il More si dimise per motivi di salute, e si ritirò a vivere nella sua casa di Chelsea.
Per diciotto mesi il re lo lasco tranquillo, poi decise di piegarlo. L\’ex-cancelliere, compreso fra gli aderenti alla visionaria Elisabetta Barton, che aveva profetizzato disgrazie a Enrico VIII se avesse cercato di contrarre un nuovo matrimonio, fu interrogato da una commissione (6-3-1534), ma non piegò e, tornato nella sua casa di campagna, si difese, anche per scritto, da tutte le accuse. Il 7-4-1534 fu chiamato a giurare l\’atto di successione: si dichiarò disposto a giurare la successione della discendenza di Anna Bolena, e non il resto che implicava il riconoscimento del divorzio e il ripudio dell\’autorità papale. Fu allora imprigionato nella Torre di Londra dove restò fino al 1-7-1535 quando, processato per alto tradimento, fu condannato a morte per decapitazione.
Fino alla fine Tommaso More mostrò un\’incrollabile fedeltà alla sua coscienza di cattolico anche quando, la figlia prediletta o la moglie, lo consigliavano a cedere almeno esternamente. Un giorno dichiarò loro risolutamente "di anteporre l\’eterna salvezza ai pochi anni di vita che gli sarebbero rimasti". Al momento del supplizio (6-7-1535) chiamò gli spettatori attoniti a testimoni che, com\’egli moriva leale e buon servitore del sovrano, così prima di tutto era servo di Dio, e affrontava il supremo sacrificio della vita nella fede e per la fede della santa Chiesa Cattolica. Il suo intimo amico Giovanni Fisher due settimane prima aveva fatto lo stesso.
Avanzò quindi verso il ceppo, davanti al quale s\’inginocchiò per la recita del Miserere. Poi si rialzò in piedi, e quando il boia gli si avvicinò per chiedergli perdono, lo baciò affettuosamente e gli mise in mano una moneta d\’oro. Poi gli disse: "Tu mi rendi oggi il più grande servizio che un mortale mi possa rendere. Solo sta attento: il mio collo è corto. Vedi di non sbagliare il colpo. Ne andrebbe della tua riputazione". Non si lasciò legare. Da sé si bendò gli occhi con uno straccetto che s\’era portato appresso. Quindi, senza fretta, si coricò lungo disteso, appoggiando il collo sul ceppo, che era molto basso. Inaspettatamente si rialzò con un sorriso sul labbro, raccolse con una mano la barba e se la collocò di lato celiando: "Questa per lo meno non ha commesso alcun tradimento".
La morte di Tommaso More destò grande commozione nel mondo. Erasmo esclamò: "In Moro mihi videor extinctus! Mi par di morire con lui!". Gli ambasciatori inglesi ricevettero dal loro governatore istruzioni affinchè si sforzassero di dimostrare che "tutto si era svolto nella più perfetta legalità…". Il More fu canonizzato con Giovanni Fisher il 19-5-1935 da Pio XI tra il riconoscimento persino degli ambienti anglicani ammirati del loro eroismo religioso.
Leone XIII ne aveva confermato il culto il 9-12-1886.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 6, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 246-251
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