II IV secolo, quello della pace della Chiesa e della sua grande estensione sia a Occidente che a Oriente, probabilmente è uno dei più sconcertanti della sua storia. Uscita dalla semiclandestinità nel 313, con il famoso editto di Milano che le concede diritto di cittadinanza, alcuni anni dopo, nel 325, la Chiesa si riunisce a Nicea, dove ha luogo quello che è chiamato il primo concilio ecumenico, ossia generale. Essa vuole tentare di mettere fine alle sue lotte interne, lacerata com’è da innumerevoli controversie che sono letteralmente affari di stato, poiché l’imperatore interviene periodicamente (come fa anche a Nicea) per far sì che i cristiani si mettano d’accordo una volta per tutte.
Il concilio di Nicea aveva raccolto circa trecento vescovi, giunti da tutte le regioni dell’Occidente e dell’Oriente dove si era cominciato a predicare il Vangelo. Probabilmente non uno di loro dubitava che le conseguenze di questa predicazione e lo stesso futuro della Chiesa dipendessero da loro stessi. Nessuno poteva immaginare (e per buone ragioni!) che il fatto davvero importante per la Chiesa in Francia, e, indirettamente, per la Chiesa universale, fosse quello che stava accadendo in un gruppo di emigrati che si trovavano a Ticinum, piccola guarnigione dell’Italia settentrionale situata appunto sul Ticino (oggi Pavia). Si trovava lì una famiglia di veterani giunti dalla Pannonia, l’odierna Ungheria; il padre, legionario a riposo, si era visto attribuire (come usava appunto nel caso dei legionari in pensione, specialmente quando avevano raggiunto un certo grado – nella fattispecie quello di tribuno, o comandante di una legione) un piccolo appezzamento di terra, dove viveva con la moglie e il figlio. Ora quest’ultimo si era appena messo in cattiva luce con una fuga di alcune settimane. Il ragazzo, di circa dieci anni, sarebbe tuttavia tornato alla casa paterna, e si sarebbe fatto perdonare questa stravaganza. Ma nel frattempo era stato deposto in lui un seme che doveva fruttificare; infatti durante questa fuga era passato in chiesa, dove alcuni preti avevano imposto le mani su di lui e gli avevano insegnato i rudimenti del Vangelo. E Martino, tornato a casa sua, non pensava più che a una cosa: ripartire, votarsi a Dio, vivere quel Vangelo di cui gli era stata comunicata qualche briciola. I suoi genitori erano pagani, e probabilmente praticavano la religione imperiale, buoni soldati di un imperatore il cui culto era celebrato ovunque per la maggior gloria di Roma. Questa fuga di Martino, nel 326 (era nato nel 316 o 317, nella lontana Pannonia), è un fermento di contestazione, che il ragazzino non sa che produrrà i suoi effetti in un arco enorme di tempo (circa quarant’anni).
Da contestatore tuttavia Martino non tardava a diventare disertore. Aveva quindici anni; figlio di un veterano, era obbligato dalla legge a entrare nell’esercito, indossare l’uniforme e ricevere la preparazione militare. Cercò di fuggire, fu trattato da insubordinato, fu incatenato e imprigionato, eppure suo malgrado dovette decidersi: a quindici anni si imponeva la schola, e in tutto l’impero. Martino era assegnato alla cavalleria, alla guardia imperiale; d’origine straniera, faceva parte dei clibanarii, o ” gentili “, ne portava l’armatura di metallo, l’elmo a cresta, lo scudo, la spada, e, su tutto il resto, la clamide, un grande mantello bianco composto di due pezzi di stoffa, con la parte superiore rivestita di pelle di pecora. Tale equipaggiamento ha ispirato due poeti, Venanzio Fortunato e Claudiano, che descrivono questa “armata bianca” altrettanto prestigiosa quanto lo potrà essere, nel secolo XX, quella degli spahi o meharisti dell’Africa settentrionale. Legato dal giuramento che ha dovuto prestare in quanto militare, il giovane è successivamente inserito nel corpo dei lancieri di Sabaria e inviato in guarnigione nelle Gallie, a Reims e poi ad Amiens.
È in quest’ultima città che, nell’inverno 338-339, Martino compie il gesto che è decisivo per la sua vocazione, come lo sarà d’altronde per la sua iconografia, nei secoli che seguiranno: una sera d’inverno, mentre rientra a cavallo da un giro d’ispezione, incontra, sulla porta della città di Amiens, un povero coperto di stracci, mezzo morto dal freddo. L’inverno, dicono i contemporanei, era ” più rigido del solito”, al punto che “tante persone morivano dal freddo”. Martino estrae la spada e taglia a metà il suo mantello – il bel mantello dell’armata bianca! La notte seguente gli appare Gesù Cristo, rivestito del mezzo mantello con cui ha coperto il povero: ” Martino il catecumeno mi ha coperto con questa veste”.
Infatti Martino è sempre soltanto catecumeno. Non ha certo rinnegato la fuga dei dieci anni; nelle sue biografie appare come un giovane esemplare, che conduce una vita casta che lo fa notare tra i suoi compagni (si può immaginare a prezzo di quali sarcasmi!), e animato da un sentimento fraterno che lo induce a trattare assolutamente da pari a pari il suo attendente. Ma forse il suo gesto, e ancor più il sogno che gli è seguito, lo spingono a compiere il passo decisivo: riceve il battesimo nella notte di Pasqua del 339, all’età di ventidue anni circa.
Tuttavia Martino resterà ancora nell’esercito due anni; o perché vi fosse obbligato dall’impegno assunto quando si era arruolato, o perché (come dice il suo biografo Sulpicio Severo) si era lasciato convincere dalle preghiere del tribuno suo amico, che doveva ancora fare due anni di servizio e lo supplicava di restare con lui.
Giunse il momento in cui l’unità a cui apparteneva si accinse ad “agire”: si verificavano movimenti sul Reno; le truppe imperiali furono raccolte presso la città di Worms, in Renania, che era il bersaglio dei franchi.
E qui ha luogo il primo caso di coscienza di Martino, che è entrato nell’esercito suo malgrado, e che si rifiuta di versare sangue; nel momento in cui i legionari sfilano per ricevere la gratifica che è la loro rimessa prima della battaglia, secondo la tradizione, Martino lascia il suo posto e dichiara la sua volontà di non accettare nulla, poiché non vuole combattere. Sulpicio Severo gli fa dire: “Andrò sul fronte della mia legione, disarmato; in nome del Signore Gesù, senza scudo, senza elmo, senza altra difesa che il segno della Croce, sarò il primo a penetrare nei battaglioni nemici, e senza ombra di paura “.
Stupore, furore; viene preso e gettato in prigione. Passa la notte pregando. Subito dopo l’alba, nel momento in cui ci si accinge a prelevare l’insubordinato, si produce un capovolgimento imprevisto della situazione: il nemico sollecita un colloquio con l’imperatore, e offre la pace senza condizioni.
Martino è libero di lasciare l’esercito, dopo aver compiuto l’unica prodezza militare da scrivere al suo attivo, come ha notato ai nostri giorni uno dei suoi biografi, Henri Ghéon.
Un intervallo di circa dieci anni segue all’episodio di Worms, che ha luogo nel 341. È possibile che Martino si sia recato a Treviri, dove sant’Atanasio, il patriarca di Alessandria che ha trascorso la vita di esilio in esilio, era stato accolto dal vescovo san Massimino. Un po’ dopo il 350 si ritrova quello che finora non era stato che un cavaliere ungherese, a Poitiers, presso il vescovo Ilario. Quest’ultimo, un avvocato pagano improvvisamente convertito (dalla lettura del Vangelo secondo san Giovanni, ha dichiarato), ben presto occuperà una posizione eminente nelle controversie teologiche dell’epoca; sarà chiamato “l’Atanasio dell’Occidente”. Presso di lui Martino comincia la sua formazione religiosa ed ecclesiastica, e riceve l’incarico di esorcista. Teologo, polemista e poeta, Ilario è uno dei capi spirituali della chiesa delle Gallie, e con ogni probabilità riconosce molto presto le possibilità di Martino.
Tuttavia l’ex legionario decide di allontanarsi provvisoriamente da quello che considera il suo maestro: è stato colto dal desiderio di andare a rivedere i suoi genitori sulle rive del Ticino – forse di cominciare con loro l’apostolato a cui si è votato. Prende la strada dell’Italia, che passa per Lione e i colli alpini; e qui ha luogo un episodio che ci hanno tramandato i suoi biografi: cade nelle mani di una banda di briganti; minacciato di morte, oppone loro una tranquillità disarmante, e poi si mette a predicare la parola di Dio, tanto die, sul fare del giorno, almeno uno dei malandrini è convertito. E Sulpicio Severo continua: ” Questo stesso uomo in seguito ha condotto un’esistenza irreprensibile; quello che ho raccontato lo ha detto egli stesso “.
Più avanti, giunto a Milano, Martino deve affrontare un avversario di un altro genere: il diavolo; e allora si svolge un dialogo, rapido e decisivo come quello della tentazione di Cristo:
” Dove vai? “
” Dove mi chiama il Signore mio Dio. “
“Dovunque andrai, qualsiasi cosa intraprenderai, mi troverai davanti a te.”
” II Signore è con me, non temo quello che mi potrà fare l’uomo. “
Martino ha risposto col salmo, e l’apparizione si dilegua.
Ancora qualche giorno e ritrova i suoi, il padre, la madre. Quest’ultima lo accoglie col trasporto che si può immaginare; ma suo padre si mostra più reticente: Martino non fa onore al vecchio ufficiale di carriera, e la sua nuova decisione di votarsi a Dio, al Dio dei cristiani che quel pagano si rifiuta di accettare, non è fatta per facilitare un accordo tra il padre e il figlio. Martino riesce a convertire la madre, ma il padre rifiuta ostinatamente di cambiare le sue radicate abitudini di ostilità a una fede in cui sospetta un fermento rivoluzionario.
In seguito Martino si reca nel suo paese natale, l’Ungheria, dove le conversioni sono state numerose, ma si è già propagata l’eresia. Un vescovo ariano occupa il seggio di Sabaria (oggi Szombathely), sua città natale. Interviene nelle controversie, si fa bastonare, scacciare, e rientra in Italia, dove apprende che anche Ilario di Poitiers è stato espulso. Si rassegna a fare appunto in Italia, nell’isola di Gallinara, al largo di Albenga, il tirocinio di quella vita di eremita che lo tenta da tempo, e Martino incontrerà nuovamente Ilario solo quando quest’ultimo avrà riconquistato il suo seggio episcopale. Ha quarantaquattro anni.
A partire da quel momento, in cui Martino inaugura veramente la sua carriera di eremita, in prossimità e come all’ombra del grande vescovo Ilario di Poitiers, nel 360 o 361, la sua vita diventa un continuo paradosso. Ha intenzione di fuggire il mondo e di pregare Dio in solitudine, a imitazione dei grandi anacoreti orientali, Paolo o Antonio; si è dunque ritirato in un angolo della campagna del Poitou, a Ligugé, nella valle del Clain, a una decina di chilometri dalla città episcopale, ben deciso ad allontanarsene solo per rispondere agli appelli che talvolta gli lancia il suo amico Ilario.
Ebbene, la sua vita consisterà invece di peregrinazioni continue, e con una partecipazione di popolo quale non avrebbero potuto ottenere neanche i metodi più efficaci della pubblicità moderna. Tutti i suoi andirivieni, tutti i suoi gesti gli assicurano, suo malgrado, una celebrità da cui non può difendersi. Bisogna dire che i suoi interventi la meritano. Il primo ha il risultato di risuscitare un morto. Non lontano dall’edificio dell’attuale abbazia di Ligugé, dalla parte dell’abside della chiesa, oggi esiste ancora una cappella che è meta di pellegrinaggio nei due giorni in cui si festeggia san Martino, l’11 novembre e il 4 luglio (la festa che nel Medioevo si chiamava “San Martino il Bollente”). Gli scavi effettuati sotto questa cappella dal 1954 hanno riportato alla luce una cripta del VII secolo e un martynon edificato sul luogo stesso del miracolo. In effetti nel suo eremitaggio Martino aveva accolto, un giorno, un uomo che veniva a chiedergli di insegnargli il Vangelo e la religione dei cristiani; Martino aveva accettato e il suo compagno non l’aveva più lasciato. E ben presto altri si erano uniti a loro; nella nostra epoca ci è facile capire il fenomeno: a Taizé due monaci che volevano fuggire il mondo e vivere in solitudine hanno ingenerato gli straordinari assembramenti di folla che si vedono oggi.
Il primo compagno del solitario era caduto malato in un momento in cui Martino era stato chiamato altrove, probabilmente dal suo vescovo e amico. Quando ritorna, trova che quello che era stato il suo catecumeno era morto. Martino si chiude nella sua capanna, vicino al cadavere steso sul suo giaciglio, e accade quello che probabilmente la medicina moderna chiamerebbe un fenomeno di rianimazione. Imitando Eliseo prega e si stende sul cadavere, si rialza e prega ancora; dopo due ore il morto comincia a muoversi, ad aprire gli occhi. Martino riapre la porta e i fratelli, raccolti fuori della capanna, assistono allo spettacolo del morto tornato in vita. Viene battezzato, è salvo.
Qualche tempo dopo Martino rinnoverà questo miracolo a favore di un giovane schiavo che si è impiccato. Nuovamente il morto risuscita. La preghiera di Martino al Signore è irresistibile. Un alone di miracolo lo circonda, un po’ alla maniera in cui già in quell’epoca i pittori e mosaicisti aureolano la testa dei santi, o come la gloria che avvolge la persona di Cristo.
Intanto con lui nasce un tipo nuovo di santità. Durante i primi tre secoli, coloro che la Chiesa ha elevato all’onore degli altari sono martiri, uomini o più ancora donne che hanno dato la vita per affermare la loro fede. Nel momento in cui alla Chiesa è riconosciuto diritto di cittadinanza, nello stesso momento in cui proliferano le eresie, ci sono coloro che, come Atanasio, disputano e predicano, attingendo al serbatoio della Rivelazione per estrarne “del nuovo e del vecchio” e distinguere la verità dall’errore: bisogno essenziale del popolo cristiano. Martino rappresenta un altro genere: il santo di tutti, della terra, del terreno, colui che apre le vie del seminatore della parabola evangelica. Nei fatti, nella realtà concreta e quotidiana, introduce il fermento che deve lievitare e trasformare l’uomo che lo riceve, là dove si trova. Questo soldato venuto dalle pianure dell’Europa centrale si occupa poco delle controversie teologiche: agisce. E per questo applica alla lettera il precetto evangelico: ” Alzati e cammina”.
Questa itineranza corrisponde a una necessità fondamentale. Il Vangelo – ripetiamo – è stato dapprima diffuso nelle città. Le strade del tempo, selciate dalle legioni romane, sono servite a coloro che lo predicavano. Sappiamo come la rete stradale costruita in Gallia nell’epoca imperiale si dividesse in cinque rami che partivano tutti da Lione, “la capitale romana della Gallia”, secondo l’espressione di Albert Grenier: una seguiva la valle del Rodano, l’altra andava da Lione a Bordeaux attraverso Clermont, Limoges e Saintes, la terza da Lione a Boulogne attraverso Langres e Reims; un’altra raggiungeva le province della Germania attraverso Metz e Treviri; infine la quinta collegava Lione a Roma attraverso i colli alpini. Il disegno di questa rete, simile alle cinque dita della mano, permette di capire l’importanza che assumono, negli annali ecclesiastici, città come Treviri, per esempio, e perché il Vangelo sia stato predicato dapprima nelle città.
Tutto cambia con Martino, il quale non segue la strada romana, ma il cammino gallico. La sua predicazione coincide col momento in cui si sgretola l’amministrazione romana, e in cui il paese in senso stretto, il pagus, ritrova la propria via. E la personalità di Martino si adatta perfettamente a questo terreno che conquista un appezzamento dopo l’altro. La sua strada non è tanto segnata dai nomi dei grandi centri, quanto piuttosto dai piccoli villaggi, da agglomerati dove ben presto la Francia si disegnerà alla maniera ecclesiastica, per parrocchie e per diocesi. La sua geografia è d’altronde conforme a quella che il popolo visitalo conosceva e che lo segnerà attraverso i secoli.
E’ a Ligugé che Martino ha ricevuto gli ordini maggiori, e quindi l’autorizzazione a ordinare a sua volta. Il suo biografo, Sulpicio Severo, ci dice come esitasse prima di accettare un simile onore, come tremasse nel momento in cui lo riceveva.
Ed è la popolazione di Tours in cerca di un vescovo che fa uscire Martino dal suo ritiro. Poiché le circostanze di questa intronizzazione hanno già il sapore di un fabliau medievale, vale la pena di raccontarle: alla gente di Tours che insisteva perché diventasse il suo vescovo, Martino aveva risposto con un rifiuto. Un giorno vede arrivare a Ligugé un uomo chiamato Rustizio, che si getta ai suoi piedi e lo supplica di andare a guarire sua moglie. Martino cede e parte col visitatore; sulla loro strada, tra Poitiers e Tours, si accalca la folla, fino al momento in cui alcuni robusti giovanotti s’impadroniscono di colui che hanno scelto come vescovo, e lo fanno letteralmente prigioniero: era un agguato. Si racconta anche che il vescovo di Angers, Defensore, avesse protestato contro la scelta di quell’eremita dall’aspetto miserabile, e così spettinato. Il giorno dell’insediamento il lettore non riusciva ad attraversare la folla per raggiungere il pulpito. Un assistente dell’officiante decise di rimediare, aprì a caso il salterio e lesse il primo versetto: ” Dalla bocca dei pargoli Tu hai tratto l’elogio per distruggere il nemico, e il difensore “. Tutti vi videro un’allusione al vescovo contestatore, e ci furono lunghe acclamazioni del popolo che si riconosceva nei pargoli del salmo.
Una volta vescovo di Tours, Martino cerca la solitudine con lo stesso ardore con cui l’aveva cercata a Poitiers; non tarderà a trovarla nell’antico romitaggio che era già stato frequentato da san Gaziano. Quest’ultimo verso il 250 era stato il primo vescovo di Tours; Martino era il terzo; nell’intervallo, san Lidorio. Nel 371 Martino ricorre alle grotte scavate nella roccia, dove Gaziano aveva trovato rifugio nei periodi di persecuzione, e ne fa – come a Ligugé – il suo luogo di preghiera e di ritiro, dove i discepoli non tardano ad affluire, ancora una volta. Sorge così il grande monastero, Maius monasterium, Marmoutier, con circa ottanta grotte distribuite nella roccia. E così nella persona di Martino sono conciliate la vita monastica e l’attività episcopale.
Sulpicio Severo ha ricordato alcune caratteristiche della vita di questi monaci, la cui regola non è stata messa per iscritto: “Nessuno possedeva nulla di proprio; tutto era in comune. Era vietato comperare e vendere. Non si praticavano mestieri, tranne quello dell’amanuense”. Osservazione importante: ogni vita monastica presuppone una certa cultura, e ogni pratica liturgica l’uso dei libri sacri. Il monastero creato intorno a Martino comprenderà una scuola, donde usciranno numerosi monaci, vescovi, insegnanti pronti a diffondere la dottrina di cui sono essi stessi nutriti. E fin dall’inizio si può prevedere che cosa sarà in seguito lo scriptorium di Tours, uno dei più celebri e importanti dell’Alto Medioevo e poi dell’epoca carolingia. Tutti gli specialisti della storia della scrittura oggi si riferiscono all’attività di questo scriptorium, a cui potrà essere paragonata solo quella del monastero di Corbie, e di Bobbio in Italia. Alcuino, il dotto arcivescovo di York, vi si tratterrà qualche giorno, e il tipo di scrittura che vi sarà stato foggiato darà luogo alla nostra, quella di cui ci serviamo quotidianamente3. Questa fondazione, e l’attenzione che ivi si dedica fin dall’inizio a questo indispensabile bisogno di cultura, avranno una risonanza che è difficile misurare, ma di cui tutte le nostre biblioteche recano le tracce.
È allora che cominciano i viaggi di Martino attraverso le campagne. Oggi si chiamerebbero “visite pastorali”. In quell’epoca occorreva inventarle. È ciò che fa quel monaco che aveva cominciato col ritirarsi e col fondare un monastero. Ha capito che il Vangelo non poteva essere comunicato che alla maniera di san Paolo, direttamente, da persona a persona, e che occorreva recarsi presso le popolazioni senza aspettare che fossero loro a venire. Parte dunque a piedi, con due o tre monaci suoi compagni, e si ferma quando trova un agglomerato, un villaggio, una casa di campagna, dovunque incontri quella gente delle campagne che è rimasta pagana. Si può immaginarlo davanti a quei contadini – vestiti di bluse e di brache, con quel cappuccio che diventerà lo chaperon medievale -, a cui insegna a conoscere il Dio vivo e vero, quello della Rivelazione.
Il genere di religione che pratica questa gente di campagna è ben diverso da quello che costituiva la forza dell’imperialismo romano: non si tratta di un culto ufficiale della persona dell’imperatore, né di una mitologia irrigidita in formule destinate ad assicurarsi il soccorso di divinità specializzate. I celti credono che una virtù divina risieda nelle forze naturali – nelle fonti, negli alberi; è vero che sono stati un po’ contaminati dalle forme della religione greco-romana, e qua e là hanno elevato templi a Mercurio, e persino al proprio Teutate, che si esprime con la voce del tuono. Per convincerli, Martino capirà ben presto di dover provare loro che queste forze naturali possono essere facilmente vinte. Lotterà allo scopo di dimostrare che il Dio unico in tre persone della Rivelazione – lo stesso che ha creato il mondo e ha dato origine alla vita che ne anima le forze, favorevoli o ostili all’uomo, a cominciare dagli alberi e dalle fonti – possiede un potere superiore e di tutt’altra natura. In altri termini, strappa le campagne a un animismo che troveremmo oscurantistico e che anche la scienza respinge, per avviarle a quella vita soprannaturale a cui il battesimo apre l’accesso. È questo il senso del suo apostolato: se distrugge un albero, se abbatte un tempio, è per provare l’esistenza di una forza superiore; e, così facendo, libera le campagne dall’animismo primitivo, che imperversa ancora oggi in tante regioni del mondo.
Tutta la superiorità dell’Occidente nel campo della ricerca scientifica nascerà, in realtà, da questa convinzione, che le forze naturali non debbano essere temute in maniera superstiziosa, ma che, al contrario, l’uomo se ne debba servire a suo vantaggio. Distrugge i tabù e sgombra la strada per quelle che più tardi saranno chiamate le ” scienze naturali “, come per la percezione della grazia divina da parte dell’uomo.
D’altronde non si accontenta di percorrere le campagne: vi crea i primi nuclei delle future parrocchie. Ad Amboise, dove solo con la forza della sua preghiera ha fatto crollare una torre consacrata a un dio che era probabilmente un retaggio dell’occupazione romana, già quanto mai precaria, lascia un compagno, Marcello, che sarà il suo primo curato. Fa lo stesso dovunque passi. E se oggi il turista che attraversa la Francia scopre, a ogni svolta della strada, a ogni tappa del suo viaggio, un campanile circondato da case, ebbene, si può dire che sia dovuto a san Martino.
D’ora in poi si delinea la configurazione familiare di ogni abitato: case o capanne, ma, al centro, quella che è insieme la casa del popolo e la casa di Dio. Coloro che lo hanno constatato ci dicono che colpisce il contrasto con certi paesi come le Indie o l’Estremo Oriente in genere: manca, al villaggio, quel campanile che, nel nostro Occidente, conferisce la sua bellezza e la sua anima al più piccolo agglomerato rurale. Martino è stato un seminatore di campanili.
Avrà piantato quelli delle sue parrocchie: Amboise, che fu la prima, e molte altre; seguendo il suo biografo, si notano così nella regione della Loira: Candes alla confluenza della Vienne, Langeais, Saint-Pierre-de-Tournon, Ligueil, Sonnay, Chisseaux, Levroux nel Berry – località, quest’ultima, dove egli stesso era stato assalito dalla folla, picchiato, malmenato dalla gente del posto, indignata vedendolo distruggere il suo tempio; ma Martino si era rimesso all’opera, tranquillamente, sotto la protezione di due angeli che tenevano a distanza la folla ancora ostile.
I viaggi di Martino vanno molto oltre il territorio della sua diocesi. Lo portano a Treviri, almeno due volte, una dall’imperatore Valentiniano per patrocinare la causa dei cristiani ortodossi contro gli ariani, una seconda volta da un altro imperatore, Massimo, al tempo della questione di Priscilliano. Del resto questi viaggi fanno parte dei compiti di un vescovo, in un tempo in cui l’imperatore è fin troppo portato a occuparsi delle faccende ecclesiastiche. Ma sono numerosi i suoi viaggi missionari in senso proprio, dedicati alla sua attività di predicatore. Lo si trova a Chartres, dove risuscita un morto, per la terza volta; si tratta di un bambino a cui rida la vita davanti a una folla di pagani: il miracolo è una necessità del suo apostolato. Deve attraversare Lutezia, che corrisponde alla Parigi attuale, ma che allora si limitava all’Ile de la Cité, e inoltre la città di Reims, e quelle che si trovano sulla strada maestra che porta da Parigi a Tours: Etampes, Orléans e Blois. In Alvernia Gregorio di Tours attesta il suo passaggio: possibile a Clermont, certo ad Autun. Lì ha luogo il “miracolo del pino”: fa abbattere l’albero, che, nel momento in cui sta per cadere sul santo, si raddrizza, letteralmente, e cade dalla parte opposta. Numerose tradizioni locali lo mostrano anche a Sens, a Beaune, a Digione. Si è recato a Bordeaux per partecipare a un concilio, e forse persino a Saragozza. A Vienne, nel Delfinato, incontra e converte a una fervida pietà il tiepido cristiano che era stato Paolino di Noia. Un’iscrizione attesta che battezzò personalmente una giovane cristiana chiamata Fedula. Muore a Candes nel 397; vi si era recato per placare dissensi sorti in una delle parrocchie che aveva fondato. E, come la sua vita di apostolo costellata di miracoli, la sua morte presenta qualcosa di familiare che può vagamente ricordare una farsa di paese, e che caratterizza tutta la sua esistenza piena di fatti inattesi: le folle erano accorse; erano venuti dal Poitou, dove egli aveva fondato Ligugé, e naturalmente da Tours, dove aveva fondato Marmoutier. Ora si disputavano le spoglie del monaco-vescovo. La gente di Tours ebbe l’ultima parola: durante la notte s’impadronirono del corpo, lo fecero passare da una finestra e lo trasportarono fino all’ansa della Vienne, dove aspettava una barca; ben presto i flutti della Loira lo portarono fino alla sua città episcopale. E così dovette viaggiare anche morto, quell’eterno viaggiatore. Questo carattere itinerante doveva prolungarsi. Sembra quasi che nella persona e nel destino di Martino si dovesse concentrare tutto ciò che dopo di lui si sarebbe svolto nel corso di una decina di secoli, o anche più.
Infatti a Tours la tomba di Martino attirerà le folle con una costanza che diventa un fenomeno di civiltà, se così possiamo dire. Secondo l’espressione di Étienne Delaruelle, il pellegrinaggio di Tours diventa “il luogo dove diviene manifesta la verità evangelica”, e di questa verità ci si mostra sempre più assetati, nel corso di quello che chiamiamo il “Medioevo”. Si crea ormai una corrente continua, simile al flusso e riflusso dei pellegrini verso Gerusalemme, verso Roma e, qualche secolo dopo, a San Giacomo di Compostella.
Martino contribuisce a diffondere, in Occidente, quel tipo di cristianesimo mollo concreto che è il nostro; gli si deve quello che ormai caratterizzerà il paese intero, e in particolare la strada: un fiotto incessante di persone che vanno e vengono, che costruiscono. Ciò influisce persino sul vocabolario: a Tours si viene per venerare i resti del santo, ma anche la sua cappa; la cappa di san Martino, probabilmente la metà del mantello diviso alle porte di Amiens, diventa una reliquia privilegiata fra tutte le altre. E non possiamo fare a meno di notare con ammirazione come proprio questo gesto della divisione del proprio mantello, l’onore reso al povero, abbia fatto muovere migliaia e migliaia di persone, dai più umili ai più grandi.
Infatti il re dei franchi, quando diventa cristiano e cattolico, circa un secolo dopo la morte di san Martino, si reca a Tours in pellegrinaggio; ed è lì che Clodoveo riceve le insegne del consolato che ha sollecitato dal fantomatico imperatore, come una specie di legittimazione del potere suo, del re ” barbaro “. Tutte le volte che in Francia si scambieranno giuramenti solenni, sarà sulla “cappa di san Martino”. E dalla cappa di san Martino deriverà il termine “cappella” ormai così corrente; forse anche il soprannome del duca dei franchi Hugues Capet (Ugo Capeto) proviene dall’insigne onore di conservare la cappa di san Martino nel suo dominio. Del resto, non meno dei re, le regine saranno attirate dalla tomba del santo. Clotilde sceglierà Tours per ritirarsi dal mondo, e vi troverà rifugio Radegonda, alcuni decenni dopo. Il dotto Alenino, ritiratesi a Tours per consiglio di Carlo Magno, vi riceverà l’imperatore, che si tratterrà alcuni giorni nella città; riceve anche una visita importante dal punto di vista spirituale, quella di Benedetto di Aniane, che riforma i monasteri benedettini, e scrive una Vita di san Martino. Anche la riforma di Cluny sarà rappresentata da uno dei suoi abati, sant’Oddone, che soggiorna a Tours e dedica a san Martino un sermone.
E ci potremmo diffondere molto di più. I biografi di san Martino hanno esposto dettagliatamente i miracoli da lui compiuti, durante la vita e dopo la morte. Sulpicio Severo si è dilungato sugli episodi di un’esistenza a cui si è potuto avvicinare. Gregorio di Tours ha elencato le guarigioni avvenute presso la tomba del santo, scrivendo De virtutibus sancti Martini (Le virtù di san Martino); insiste sulla virtus, sulla forza che emana da quest’uomo, e mostra come “la grande virtù sia la fede”. Il poeta Venanzio Fortunato ha raccontato come, minacciato dalla cecità, sia stato guarito da questa virtus, questa forza della fede che emana da san Martino. Infine, nel nostro secolo, Henri Ghèon ha ricostruito, con grande naturalezza e con un’esatta documenta/ione, resistenza di questo santo che e rimasto popolarissimo. Si può ancora sottolineare come, in Francia, 700 paesi portino il nome di san Martino, mentre san Pietro non ne conta che 461, san Giovanni 444, san Germano 274. I nomi dei comuni francesi che “assomigliano a una litania”, come faceva notare Emile Male, esprimono questo fervore delle campagne destate alla fede dalla sua predicazione. Non parliamo delle parrocchie che gli sono state dedicate – innumerevoli in tutta la cristianità.
Ma forse è sufficiente ricordare che, per la cristianità medievale, Martino è l’iniziatore del pellegrinaggio, del movimento, del desiderio di andare, di vedere, di toccare, di esprimere concretamente la propria fede con un comportamento attivo, un ” camminare” che mobilita il corpo e lo spirito, per ricordare che la Chiesa, ossia la società dei battezzati, nella sua vita comunitaria, non si esprime attraverso principi né astrazioni, ma anzitutto realizzando l’ “Alzati e cammina ” del Vangelo.
Regine Pernoud,
I santi del medioevo, edizioni Rizzoli, Milano 1986, traduzione di Anna Marietti, pagg. 50-63