Nato a Marlhes (Loire) il 20 maggio 1789, è un anticipatore dei metodi educativi moderni. Studente non brillante, nel 1816, dopo aver frequentato il seminario di Lione viene ordinato prete. Nel 1817 Champagnat, fonda i «Fratelli maristi», che non sono preti e che nel 1823 sono autorizzati a pronunciare i voti. Champagnat muore nel 1840.
Il fondatore dei Fratelli Maristi, decimo e ultimo figlio del mugnaio Giovanni Battista, nacque il 20-5-1789 a Rosey, nel comune di Marlhes, della diocesi di Lione. È tradizione che la madre, mentre lo vegliava nella culla, abbia visto sprigionarsi dal suo petto un fiammella luminosa che, dopo aver volteggiato più volte su di lui, si disperse per la cameretta lasciandola soffusa di un soave chiarore. La pia genitrice, quasi presaga dei disegni di Dio sul figlio, lo educò con particolare cura e con l\’aiuto di una religiosa, zia del fanciullo, che la rivoluzione francese aveva strappato dal convento, gli insegnò pure i primi rudimenti del sapere.
Invece di andare a scuola, Marcellino, di complessione robusta e amante del lavoro, imparò a fare il mugnaio, il contadino, il falegname e il muratore. Iddio aveva dei disegni particolari su di lui. Una sera del 1804 un sacerdote, incaricato di ripopolare di giovani i seminari soppressi, bussò alla porta di casa sua, lo avvicinò, ne intuì il candore e lo esortò a farsi prete. Il beato era ben contento di consacrare la sua vita al Signore e, se non ne aveva espresso prima il desiderio, era perché non aveva mai ardito supporre che lui, contadinello ignorante, potesse aspirare a uno stato così eccelso. Troppo poco istruito per entrare in seminario, Marcellino fu mandato presso un cognato, maestro di scuola in un paese vicino, ma al termine dell\’anno fu rimandato in famiglia perché ritenuto incapace di proseguire gli studi. Anziché lasciarsi abbattere dallo scoramento, lo Champagnat pellegrinò con la mamma alla tomba di S. Francesco Regis a La Louvesc, e poi vinse le esitazioni dei genitori dicendo loro con risolutezza: "Preparate il mio corredo, io sarò prete perché Dio lo vuole. La spesa non vi spaventi. La coprirete con i miei risparmi".
Nel 1805 Marcellino entrò nel piccolo seminario di Verrières. Essendo timido e un po\’ impacciato, alcuni condiscepoli cominciarono a motteggiarlo, ma quando videro che non s\’alterava mai e che accorciava le sue ricreazioni per andare a pregare in cappella, presero ben presto a stimarlo. Nonostante l\’applicazione negli studi, anche quella volta, al termine dell\’anno, Marcellino fu dichiarato incapace di profitto. Anziché disarmare, egli rifece con la madre il pellegrinaggio alla tomba di S. Francesco Regis e ottenne, per lo meno, di essere riammesso in seminario per ritentare la prova. Con la grazia di Dio e un raddoppiato sforzo riuscì a mettersi alla pari con i suoi compagni, e a proseguire regolarmente gli studi. La sua intelligenza, è vero, si apriva alla scienza con difficoltà, ma riteneva con facilità le nozioni apprese e le sapeva esporre con chiarezza e precisione.
Non minore impegno Marcellino metteva nel combattere i propri difetti, soprattutto la superbia. Difatti così pregava: "Cuore divino di Gesù, dammi l\’umiltà, tè ne scongiuro, distruggi in me l\’edificio dell\’orgoglio, non perché è insopportabile agli uomini, ma perché ti dispiace e offende la tua santità". E gli fece guerra senza tregua imponendosi una penitenza a ogni mancanza, cercando la compagnia anche dei seminaristi più antipatici, anteponendosi a nessuno di loro, digiunando tutti i venerdì in onore della passione e morte del Redentore.
Nel 1813 Marcellino passò al seminario maggiore di Lione dove strinse amicizia con S. Giovanni M. Vianney, il futuro curato d\’Ars, e il Ven. Giovanni Claudio Colin, il futuro fondatore dei Padri Maristi, i quali lo associarono ai loro propositi di santificazione e di zelo. Durante le vacanze tornava in famiglia con il proposito d\’insegnare agl\’ignoranti, ricchi e poveri, ciò che dovevano fare per salvarsi, visitare gl\’infermi e ripassare le materie studiate. Poté così rendersi conto quanto fosse grande nelle campagne il bisogno d\’istruzione religiosa, per la scarsezza del clero. Ne parlò con il Colin e con altri dodici ferventi seminaristi, tra cui il Courveille, i quali decisero di fondare una società di preti dedicata all\’istruzione e all\’educazione della gioventù sotto la protezione di Maria SS. Marcellino non ne rimase del tutto soddisfatto perché riteneva che i sacerdoti non avrebbero potuto dedicarsi a quell\’umile ministero. Andava quindi ripetendo: "Ci occorrono dei Fratelli per insegnare il catechismo e fare scuola ai fanciulli". Giacché insisteva, fu lasciato a lui quel compito, avendone avuto per primo l\’idea. Frattanto si preparò con impegno all\’ordinazione sacerdotale che ricevette il 22-7-1816, non "per essere utile alla famiglia, ma per servire la Chiesa e salvare le anime".
Il giorno stesso si recò al santuario di Fourvière. All\’altare della Madonna si sentì ispirato a fondare la congregazione dei Piccoli Fratelli di Maria. Nominato, pochi giorni dopo, viceparroco di La Valla, il beato si tracciò un regolamento di vita in cui la preghiera, la meditazione, le visite al SS. Sacramento e le mortificazioni avevano la parte preponderante. Poi si mise al lavoro cominciando a fare il catechismo ai bambini che erano stati trascurati perché il parroco, per un difetto di lingua, era quasi impossibilitato a predicare. Anche i loro genitori furono attratti dal suo zelo e accorsero a sentirlo. Dicevano: "È del Rosey, ecco perché le sue parole sono soavi come le rose". Tanta affabilità attirò al suo confessionale un gran numero di peccatori.
Lungo il giorno percorreva le campagne per rendersi conto della necessità di tutti parrocchiani e visitare i vecchi e i malati. Gli fu così possibile togliere a poco a poco gli abusi del ballo, dei ritrovi notturni e dell\’ubriachezza che erano, specialmente in carnevale, i disordini più comuni della parrocchia. Più avanti negli anni, percorrendo le creste del Pilat in compagnia di un amico, nel contemplare i luoghi delle sue fatiche, non poté fare a meno di esclamare: "Quanti passi, quante corse per queste montagne! Ritengo che se tutto il sudore versato su questi monti si potesse raccogliere in fondo a questa valle, ce ne sarebbe da prendere un bagno; ma anche quale consolazione per il mio cuore! Grazie a Dio nessuno dei malati è morto senza che giungessi in tempo ad amministrargli i sacramenti".
La grande ignoranza che aveva riscontrato nei parrocchiani, lo aveva persuaso della necessità dell\’istituzione di una congregazione religiosa che si dedicasse all\’educazione dei fanciulli delle campagne. Ma come riuscirvi senza mezzi e senza appoggi? Un sabato, Giovan Battista Audras, angelico giovane della parrocchia, gli si presentò per dirgli che, in seguito alla lettura di un libricino sulle verità eterne, aveva deciso di lasciare il mondo per darsi a Dio. Il B. Champagnat si concentrò un momento per riflettere su quanto gli avrebbe dovuto suggerire allorché udì internamente una voce chiara e distinta che gli disse: "Ti ho serbato questo giovanotto per essere il fondamento della società che devi istituire". Senza lasciare trapelare l\’impressione profonda che gli avevano cagionato quelle parole, gli raccomandò di unirsi frattanto a Gian Maria Granjon, un altro giovane che lo accompagnava nelle sue visite ai malati, promettendogli che avrebbe favorito il suo ingresso in religione. Ma non era una follia pretendere di fondare una congregazione per l\’istruzione della gioventù con due elementi che sapevano appena leggere e scrivere? Sicuro della volontà di Dio, benché senza denaro, comperò una casetta vicino alla canonica, la restaurò, l\’ammobiliò con le proprie mani, e il 2-1-1817 v\’introdusse i due novizi. Egli stesso si fece loro maestro nello studio e loro guida nell\’arte della fabbricazione dei chiodi e nella coltivazione dell\’orto. Ad essi, altri se ne unirono, tra cui il Ven. Gabriele Rivat, ai quali fece indossare un abito uniforme, di colore azzurro, in segno della loro consacrazione alla Madonna. Per avviarli più sollecitamente all\’insegnamento chiamò per alcuni mesi un maestro a La Valla, con il suo aiuto aprì una scuola, e quando i Fratelli furono sufficientemente preparati, li mandò a istruire i fanciulli nelle frazioni più distanti della parrocchia.
Benché costretti a vivere in una casa ove, per dormitorio, avevano il granaio, per letto un po\’ di paglia, per cibo del pane nero e dei legumi mal conditi, per bevanda l\’acqua della fontana, i Piccoli Fratelli di Maria crebbero di numero di modo che il beato dovette riprendere in mano la cazzuola e la pialla per ampliare la casetta e dare ricetto agli alunni delle frazioni più distanti e ricovero ai fanciulli più indigenti. A chi biasimava la sua condotta diceva: "Dio, che ci manda questi fanciulli, ci darà anche l\’occorrente per mantenerli. Ho sempre sentito dire che l\’elemosina non impoverisce: ne faremo ora l\’esperienza". A un sacerdote che gli diceva: "La sua borsa deve essere ben fornita per provvedere a tante miserie", rispose: "La mia borsa è inesauribile: è quella della Provvidenza". In punto di morte potrà attestare: "Mai il denaro mi è mancato quando ne ho avuto assolutamente bisogno".
La prosperità della scuola di La Valla, il progresso degli alunni nello studio, attirarono l\’attenzione del pubblico sui Fratelli Maristi e fecero aumentare le richieste dei parroci. Le istruzioni che il beato impartiva loro erano brevi, frequenti e sostanziose. Li animava nel loro compito dicendo: "Un Fratello è un cooperatore di Dio nella santa missione di salvare le anime… Voi fate quello che faceva Gesù durante la sua vita mortale, quello che hanno fatto gli Apostoli, i dottori, i più grandi santi; voi esercitate un ministero che gli angeli invidiano… Educare cristianamente i fanciulli è dunque un incarico più nobile che governare il mondo intero". Nonostante che in quel tempo lo spirito giansenista predominasse ancora tra tanta parte del clero, egli raccomandava ai Fratelli la Messa, la comunione frequente, la visita al SS. sacramento, la preghiera.
Affermava: "I Fratelli pii sono le colonne dell\’Istituto. Qualunque sia la loro attitudine ed istruzione, essi si rendono sempre utili: quanto più ne avremo, tanto più l\’Istituto sarà fiorente". "Per contro, un religioso che non possiede spirito di pietà è un religioso da nulla, e un impiccio per la comunità". Li esortava poi alla mortificazione nelle piccole cose e a evitare l\’eccessiva preoccupazione per la salute. "Ho sempre visto, diceva, che coloro i quali si prendono troppa cura del loro corpo, non si occupano molto dell\’anima loro, e chi pensa soverchiamente alla propria salute, attende ben poco al proprio perfezionamento spirituale". A tutti, specialmente ai novizi, raccomandava l\’umiltà. "Io non amo, dichiarava loro, i religiosi vani e orgogliosi; tutte le mie preferenze sono per i piccoli Fratelli di Maria che si tengono nascosti come le mammole e prendono dappertutto gli ultimi posti". E ancora: "Guardiamoci bene di contare sul nostro ingegno; esso è nulla per il bene: invano lavoreremo e faticheremo se Dio non è con noi e non benedice i nostri sforzi".
Il B. Marcellino, finché limitò la sua opera alla parrocchia di La Valla, non ricevette che elogi, ma quando cominciò a estenderla ad altri paesi e divenne manifesto che intendeva dare vita a una nuova famiglia religiosa, si attirò l\’opposizione di tanti sacerdoti che ritenevano la sua congregazione destinata al fallimento.
La prova fu da lui affrontata in silenzio cercando luce e forza nell\’orazione e in aspre penitenze. L\’arcivescovo di Lione, il cardinale Giuseppe Fesch, zio di Napoleone I, aveva dovuto lasciare la diocesi perché mal visto dal governo della restaurazione. Uno dei suoi vicari, il can. Bochard, che stava organizzando un gruppo di religiosi insegnanti sotto il titolo di Fratelli della Croce, mal sopportando un concorrente in diocesi, impose allo Champagnat di unire il suo Istituto al proprio, pena la chiusura della casa di La Valla e il trasferimento di lui in un\’altra parrocchia.
Che fare, dal momento che non gli sembrava fosse quella la volontà di Dio? Poiché era tacciato di orgoglioso, di testardo e ribelle, e gli si negava il diritto di dedicarsi all\’educazione della gioventù, sarebbe partito per l\’America. Dice il proverbio che l\’uomo propone e Dio dispone. Difatti, all\’inizio del 1824, giunse improvvisa a Lione la notizia che la Santa Sede aveva nominato Mons. de Pins amministratore apostolico della diocesi. Costui chiamò a sé lo Champagnat, lo ascoltò e non solo approvò l\’Istituto che aveva fondato, ma gli promise di dare l\’abito religioso ai Fratelli e di far emettere loro i voti religiosi. Gli disse nell\’accomiatarlo: "Poiché la casa è troppo piccola, bisogna costruirne un\’altra. Conti sul mio appoggio". L\’arcivescovo fu di parola benché il beato ogni tanto gli dicesse: "Se V. Ecc. crede che quest\’opera non venga da Dio, non tema di dirmelo, e io la tralascerò subito, poiché voglio soltanto ciò che Dio vuole".
La casa madre dei Fratelli sorse, questa volta, a regola d\’arte, nella valle dell\’Hermitage presso St-Chamond, con l\’aiuto dei Fratelli, che vi si stabilirono 1\’8-12-1824. Per assisterli spiritualmente, il beato era coadiuvato da due sacerdoti. In seminario, al tempo dei progetti della congregazione di Maria, il signore Courveille era considerato da tutti più o meno il capo gruppo. Dopo d\’allora era diventato parroco, ma per chiacchiere sorte nei suoi riguardi, aveva deciso di stabilirsi al Romitaggio di cui si considerava quasi come superiore. Vi fu ben accolto dal beato, ma benché fosse dotato d\’ingegno, mancava tuttavia di prudenza, e il suo carattere ambizioso e permaloso lo rendeva poco idoneo a dirigere le anime. Vedendosi posposto al fondatore, nel 1825 invitò i Fratelli ad eleggere chi preferivano come loro guida. Per due volte essi diedero concordemente il loro voto al P. Champagnat. Essendo le scuole cresciute di numero, il fondatore, nell\’inverno dello stesso anno, andò a visitarle per rendersi conto del loro funzionamento.
In sua assenza, il signor Courveille non si accontentò solo di rimproverare ai Fratelli il voto di preferenza dato al P. Champagnat, ma cominciò a biasimare tutto ciò che era stato stabilito da lui, a esigere dai religiosi un lavoro e una virtù superiore alla loro capacità, fomentando così nella comunità il malumore e il cattivo spirito. Il dolore che ne provò il beato al ritorno fu talmente grande che cadde gravemente malato. I creditori, appena lo seppero, accorsero al Romitaggio per esigere la restituzione dei soldi imprestati, pena il sequestro dei beni. Il parroco di St-Chamond, che un tempo si era opposto all\’opera del beato, salvò l\’Istituto dal fallimento materiale offrendo una cospicua somma; Mons. de Pins lo salvò dalla rovina morale allontanando il signor Courveille. Ci furono delle defezioni da parte di chi avrebbe preteso costituire una società di semplici istitutori, ma a chi gli rimase fedele il beato ripetè: "L\’Istituto è opera di Dio, ed Egli lo farà prosperare senza bisogno né di me, né di altri al mondo, non lo dimenticate più".
La congregazione continuò a diffondersi appena tra i suoi membri ritornò la pace e rifiorì la regolare osservanza. Del resto il beato viveva in mezzo ai Fratelli quasi fosse il servo di tutti, condividendo i loro lavori e riservandosi gli uffici più umili e più pesanti. Rammendava da sé le proprie vesti e viaggiava abitualmente a piedi. Al suo corpo non concedeva che lo stretto necessario. Fuori dei pasti non prendeva nulla, neppure un sorso d\’acqua anche quando era arso dalla sete. "Il corpo, diceva, si avvezza a tutto. Rifiutando di soddisfarlo diventa meno esigente".
Un giorno confidò a un Fratello: "Sono più di vent\’anni che mi alzo alla quattro; tuttavia non mi ci sono potuto ancora abituare. Certe osservanze costano sempre sacrificio: l\’alzata per me è una di quelle". Non tollerava lo sperpero. Ai Fratelli ripeteva sovente: "Saremmo ben colpevoli se facessimo spese superflue, quando un così grande numero di poveri manca dello stretto necessario". All\’inizio dell\’inverno faceva rammendare tutti gli abiti usati per distribuirli ai bisognosi.
Per evitare ai Fratelli il servizio militare, il beato si adoperò per ottenere dal governo il riconoscimento legale dell\’Istituto. Dopo vari inutili tentativi, nel 1837 si recò a Parigi e vi rimase diversi mesi. Siccome si trasferiva da un ufficio all\’altro sempre a piedi, un sacerdote lo rimproverò, ma egli gli rispose: "Non sono impacciato a trovare degli omnibus, ma non sono religioso per farmi trasportare come un signore. Se il voto di povertà non costasse niente, non sarebbe più meritorio".
Dell\’esito negativo del suo viaggio così scrisse ai Fratelli: "Ciò mi affligge, ma non mi scoraggia. Ho sempre avuto una grande fiducia in Gesù e Maria, e sono sicuro che il riconoscimento legale ci sarà concesso quando ne avremo assolutamente bisogno. Quel che importa è di fare per parte nostra quanto più possiamo, e lasciare poi agire la Provvidenza. Dio sa meglio di noi quello che ci conviene, e sono sicuro che questo indugio non ci nuocerà".
Nel 1838 i Fratelli Maristi erano già 225 e dirigevano 39 scuole. Per essi, l\’anno precedente, il fondatore aveva fatto stampare le costituzioni, nella compilazione delle quali si era ispirato al trattato Della Vera Devozione di Maria Vergine di S. Luigi Grignion de Montfort. Stabiliva che loro scopo e spirito era "amare la Madonna, servirla, diffonderne il culto e la devozione tra i fanciulli come mezzo per amare e servire più perfettamente N. S. G. C.", e loro dovere "amare la Madonna come madre, protettrice, modello e prima superiora". Nell\’educazione egli non fu teorico, ma un realizzatore. Nell\’insegnamento volle che i Fratelli si ispirassero al metodo di S. Giovanni Battista de La Salle (+1719), e dessero importanza alle scuole elementari nelle campagne da tutti abbandonate. Secondo lui indispensabile presupposto per una buona educazione era la disciplina forte, basata sull\’autorità morale dell\’insegnante, sul buon esempio e sul vicendevole rispetto.
Il beato era talmente sicuro di compiere l\’opera di Dio e nutriva una tale fiducia nell\’aiuto della Vergine SS. in tutte le difficoltà, da sembrare un imprudente e un esaltato. A chi gli chiedeva un giorno se era vero che agli inizi dell\’Istituto fossero avvenute cose prodigiose, egli rispose: "E non è forse un gran miracolo che Dio abbia creato e fatto prosperare un\’opera così importante con mezzi così meschini? Ha scelto una persona senza ingegno, senza denari e senza virtù; ha preso in qualche modo la debolezza nostra e con essa ha formato questa fiorente istituzione". A una pia persona che gli diceva: "Quante belle cose farebbe se potesse disporre di alcune centinaia di migliaia di lire", rispose: "Ne farei ben di più se la Provvidenza mi mandasse una cinquantina di buoni postulanti. Mi creda, una comunità è sempre ricca quando ha buoni religiosi". Avrebbe saputo come ben impiegarli lui che ripeteva sovente ai Fratelli: "Non posso vedere un fanciullo senza sentire un vivo desiderio di fargli il catechismo". E ancora: "Vedere Dio offeso e le anime andare in perdizione sono due cose che mi straziano il cuore".
Mentre il B. Champagnat lavorava nella diocesi di Lione per la diffusione dei suoi Fratelli, il P. Colin lavorava in quella di Belley per la diffusione della sua Società di Maria. Quando Gregorio XVI l\’approvò (1836), il nostro beato chiese di emettervi i voti e accettò di buon grado di restare alla guida dei Fratelli soltanto come delegato del superiore generale. Avrà la gioia di morire marista, ma la S. Sede richiederà la rinuncia a qualsiasi autorità sui Fratelli da parte del superiore generale dei Maristi al momento della loro approvazione (1863).
Dopo la malattia del 1825 al beato era rimasto un persistente dolore al fianco, al quale si aggiunse ben presto una gastrite, conseguenza in parte dei suoi digiuni. Quando nel 1837 ritornò da Parigi era sfinito. Il P. Colin pensò allora che era prudente dargli un successore. I fratelli scelsero il Ven. Francesco Rivat ( 1808-1881) con grande soddisfazione del fondatore, che si preparò alla morte tra spasimi atroci di stomaco e vomiti violenti. Ogni tanto ripeteva: "Mio Dio, sia fatta la tua santissima volontà; dammi la tua grazia e puoi farmi pur soffrire quanto vuoi". Dopo che ricevette il viatico nella sala capitolare, disse ai Fratelli: "Pensate di frequente ai novissimi e non peccherete mai… Amatevi gli uni gli altri, ricordando che siete tutti Fratelli, che Maria è vostra madre comune, e che tutti siete chiamati alla stessa eredità: il cielo".
Morì il 6-6-1840, di sabato, come aveva desiderato. Tra i suoi indumenti si trovò il cilicio e la cintura irta di punte con cui aveva macerato il proprio corpo. Le sue reliquie sono venerate nella casa madre dell\’Istituto. Pio XII lo beatificò il 29-5-1955.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 6, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 62-71
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