Questa serva dei poveri, fondatrice delle Figlio della Carità, nacque a Verona il 1-3-1774, secondogenita tra i cinque figli che Ottavio, marchese di Canossa, ebbe da Teresa, figlia del conte Szluha, ungherese. A soli cinque anni Maddalena rimase orfana di padre. Lo zio Gerolamo, scapolo, dovette prendersi cura di lei perché la madre, dopo due anni di vedovanza, per contrasti familiari, abbandonò figli e casa e passò a seconde nozze. La santa fu affidata allora a un’aia colta e abile, francese, vedova, ma alla scuola di costei ebbe molto da soffrire perché era di temperamento bisbetico ed astioso. Ai dolori morali si aggiunsero quelli fisici. A quindici anni, difatti, Maddalena fu travagliata prima da una febbre maligna, poi da una dolorosa sciatica e quindi dal vaiolo. Durante la lunga malattia, che sopportò senza gemere, chiese che le fosse portato il viatico. Era tanto riservata che non permise di essere toccata nemmeno dal medico. Nella preghiera sospirava: “Gesù mio, un giglio tra le spine, ma un giglio senza macchia”.
Lo zio temeva che la nipote, una volta guarita, restasse deturpata nel volto, ma la santa lo tranquillizzò dicendogli: “Non vi crucciate per così poco, zio mio, giacché io non debbo piacere a nessuno: mi farò monaca appena me ne darete il permesso”. Si confidò al riguardo con un religioso che impartiva lezioni a suo fratello Bonifacio, e costui le suggerì di leggere le regole delle Carmelitane Scalze. Dopo un complimento che le fece un cavaliere a teatro si risolse (1791) a manifestare ai familiari il desiderio che aveva concepito di trascorrere un po’ di tempo presso le “Terese” mentre Laura, la sorella maggiore, si fidanzava e le due sorelle più piccole venivano affidate all’educazione delle benedettine. Essendo di temperamento fervido e dinamico, si sentì oppressa dalla grata del monastero e dal non potersi occupare direttamente in opere di carità.
Senza saperlo aveva individuato la propria vocazione: alla vita mistica doveva unire quella apostolica. Dopo dieci mesi di preghiere e di penitenze ritornò in famiglia. Il confessore le suggerì di tentare un secondo sperimento nel carmelo di Conegliano (Treviso), ma dopo soli tre giorni capì che il convento di clausura non era fatto per lei.
Lo zio Gerolamo, benché si fosse sposato, volle che la nipote assumesse la direzione della casa. Maddalena stilò allora un programma di governo e lo mantenne nei confronti dei domestici, dei fittavoli e degli operai. In casa Canossa tutti dovevano frequentare i sacramenti, prendere parte la sera alla recita del rosario e comportarsi con scrupolosa onestà e sincerità. Tra l’altro prescriveva: “Poche parole e molti fatti; mai rigidezza, parole aspre; sguardi altezzosi, gesti di superiorità, molta riservatezza specialmente con i domestici e un comandare preciso, fermo, ragionato. Liberarsi presto dai soggetti pericolosi, trattare gli altri con saggia disciplina, temperata sempre da grande liberalità e da un materno interesse per ogni loro bisogno.”. Nella castellana di Canossa si manifestava già la fondatrice e la direttrice delle Figlie della Carità.
L’attività amministrativa non impedì alla santa di tendere alla sua interiore elevazione, sotto la guida di Don Luigi Libera, che le permise di fare ogni giorno la comunione e l’aiutò a liberarsi dagli scrupoli e dagli avvilimenti ai quali andava soggetta, raccomandandole la meditazione e il raccoglimento.
Nel 1797 i Canossa si trasferirono a Venezia all’approssimarsi delle truppe francesi al comando di Napoleone Bonaparte, in lotta contro il Piemonte e l’Austria, ma vi fecero ritorno appena la calma fu ristabilita con le armi. In quel tempo Maddalena cominciò a frequentare, con più assiduità del solito, l’ospedale in cui esercitava il ministero il B. Carlo Steeb (+1856). Essendosi maritate le sorelle disponeva con più libertà del suo tempo benché fosse ancora legata allo zio, rimasto vedovo con un figlio. In una di quelle sue visite s’incontrò con la contessa Carolina Trotti Durini, che dedicava le sue cure all’ospedale di Milano quale governatrice, e per la comunanza di ideali ne divenne subito collaboratrice e amica. Strinse anche relazione con il Ven. Pietro Leonardi (+1844) e lo aiutò a consolidare l’Istituto della Fratellanza dei sacerdoti e laici ospedalieri che aveva fondato nel 1794 per l’assistenza gratuita agli ammalati.
Sentendo crescere in sé l’ardore della carità, Maddalena, al principio del 1802 raccolse le prime tre fanciulle esposte ai rischi della strada e le affidò a due maestre da lei collegate in un abbozzo di famiglia religiosa. L’anno seguente, avendo in animo di aprire una scuola anche per le alunne esterne, comprò un alloggio nella parrocchia di San Zeno. Ogni giorno lo visitava per formare a spirito religioso le maestre e per assistere le ricoverate, lavarle e nettarle d’insetti. A chi le manifestava sorpresa, rispondeva: “Perché sono nata marchesa non posso avere l’onore di servire Gesù Cristo nei suoi poveri?”.
Napoleone, ospite dei Canossa ogni volta che passava da Verona, concepì grande stima di Maddalena per la castigata riservatezza di lei. Quando seppe che attendeva a opere di carità e che, a tale scopo, desiderava ottenere il monastero di San Giuseppe divenuto proprietà del demanio, commentò dando il suo assenso: “Vedete? Benché donna, questa signora ha trovato il modo di essere utile allo stato”.
Col passare degli anni la vocazione di Maddalena andò assumendo forme più concerete, ma i parenti, benché religiosi, non riuscivano a capire come una Canossa potesse ridursi a fare la serva dei poveri con l’istituzione di una congregazione religiosa. Il P. Felice De Vecchi, Carnabita di Milano, le fece conoscere le regole della Figlie della Carità di S. Vincenzo de Paoli perché se ne servisse, e si adoperò a fare in modo che i Canossa non si opponessero alla manifesta vocazione di Maddalena. I parenti rimasero costernati dalla decisione di lei ma, non osando opporsi alla volontà di Dio, le permisero di unirsi alle sue maestre e ragazze soltanto quando avesse trovato per loro un locale più decoroso.
La santa soltanto il 1-4-1808 riuscì a entrare in possesso del monastero di San Giuseppe già concessole da Napoleone, lo fece restaurare e v’installò la sua incipiente famiglia religiosa prima sotto la guida di S. Gaspare Bertoni (+1853), fondatore degli Stimmatini, e poi di Don Nicola Galvani, suo confessore.
La direzione dell’Istituto fu affidata a Leopoldina Naudet, una ex-suora. Maddalena le prestò ubbidienza e con le altre prime cinque maestre si diede subito a raccogliere, a ripulire e a istruire le ragazze più sordide e ribelli del quartiere. A un sacerdote che un giorno le fece notare come sul fazzoletto nero che portava sulle spalle si trovassero alcuni
pidocchi, rispose senza arrossirne: “Queste sono le nostre perle”. A chi le faceva notare che si recava troppo sovente in parlatorio per soccorrere i bisognosi diceva: “Abbiate pazienza, i poveri sono i nostri padroni e noi dobbiamo esserne le loro serve”.
Nel 1810 i fratelli Cavanis, fondatori a Venezia delle Scuole di Carità per ragazzi, la chiamarono a dirigere una scuola di Carità che avevano aperto anche per le ragazze. La beata vi andò e per dieci mesi fece quello che aveva già fatto a Verona: formò le maestre e con amore materno si prese cura delle giovani.
A Venezia la santa riuscì ad aprire una casa per il proprio istituto. Un giorno, salita sopra una terrazza, le fu dato di vedere, rapita in estasi, un vasto campo in mezzo al quale apparve una maestosa signora in compagnia di sei giovani donne. Vestivano un abito color marrone, portavano uno scialletto nero sopra le spalle e una cuffia nera in capo. Non avevano ornamenti tranne un’immagine di Maria Addolorata pendente al collo. A un certo momento la visione si scompose in un tempio, in un ospedale e in una scuola. La signora condusse con sé le giovani a due a due prima nel tempio, ingiungendo loro d’insegnare alla fanciulle la dottrina cristiana; poi nell’ospedale ingiungendo loro di curare le inferme; quindi nella scuola ingiungendo loro di istruire la gioventù. Il cielo le aveva fatto vedere le Figlio della Carità all’opera. Dispose perciò che vestissero subito di quel colore e foggia e cominciò a scrivere le regole (1812) che Pio VII approvò il 20-11-1816 con il decreto di lode. A Venezia, nell’imminenza del trasloco della sua casa nel monastero di Santa Lucia, proprietà del demanio, mentre pregava davanti a un crocifisso fu vista andare in estasi e sollevarsi da terra. Quel giorno (13-10-1813) annotò nel suo Diario di aver visto Dio “nel suo interiore pari a una sole luminoso”.
Alla fondatrice non mancarono le contraddizioni nel consolidamento dell’Opera. Leopoldina Naudet l’abbandonò per fondare le Sorelle della S. Famiglia (1817) per l’istruzione e l’educazione delle fanciulle nobili. La marchesa, paventando una scissione che avrebbe indebolito l’Istituto e scandalizzato i fedeli, moltiplicò le sue preghiere. La Madonna le apparve per consolarla. La seconda volta le disse: “Non temere, io ti assisterò e starò sempre presso di te”. E le mostrò una lunga teoria di compagne che coperse, leggiamo nel suo Diario, “col largo manto di neve, in modo che si vedevano in trasparenza rivestite di luce”. Nel separarsi dalla Naudet la santa esclamò senza risentimento: “Così andrà bene perché da voi si fermeranno le carrozze, e, alle porta del mio Istituto, le carriole”. Dopo la partenza della Naudet ci fu nella casa di Verona aria di burrasca, eppure la santa ebbe il coraggio di scrivere alla Burini: “Sto però bene e sono sempre in vena di ridere”.
L’imperatore Francesco I durante una visita che fece a Venezia e a Verona prese sotto la sua protezione le Figlie della Carità, e volle che si diffondessero anche in altre città, cominciando da Milano. A Venezia, però, le autorità cittadine pretendevano dare lo sfratto alle figlie della Canossa perché il monastero di Santa Lucia non poteva essere alienato.
La santa non si scompose, fidente soltanto nell’Addolorata di cui era devotissima. Anzi, dichiarò: “Quando si tratta della gloria di Dio metto da parte i riguardi, divento ardita e insisto perché voglio quello che voglio; e poi metto di mezzo la mia Madonna e sto pienamente sicura”. In un’altra critica circostanza disse alle sue compagne abbattute: “Figlie mie, non ci perdiamo; a chi confida in Dio nulla è impossibile. Ricordatevi: più difficoltà ci sono e meglio riescono le opere sante. Come Abramo si deve sperare contro ogni speranza”. Nel 1817 una “Risoluzione Sovrana” cassò tutti gli oneri che le autorità locali pretendevano dai due monasteri delle Figlie di Carità di Venezia e di Verona.
Con l’aiuto della Durini la marchesa di Canossa era riuscita a stabilire il suo Istituto anche a Milano nel 1816. Il P. Carlo Mantegazza, ex- generale dei Barnabiti, per incarico dell’arcivescovo, Mons. Carlo Gaisruck (+1846), indagò sulla natura di quella congregazione e fu costretto ad ammirare “l’ardente zelo” della Canossa per tutte le opere di carità e “l’interno spogliamento del suo giudizio e del proprio volere”. Alle suore non mancarono disagi e maldicenze. La fondatrice scrisse loro: “Niente paura, figlie mie; non guardiamo che Dio! Nelle opere di carità conviene apparecchiarsi alla croce!… A me preme soltanto che circoli tra voi lo spirito del Signore, per dilatare la sua gloria; mi preme che vi facciate sante, voi prima di tutto e poi le anime che Dio vi affida. Per il resto lasciate che dicano, purché vi lascino fare”.
Nel 1820 la santa riuscì a impiantare una casa anche a Bergamo. Fin dall’inizio però dovette far fronte a una serie di defezioni e di calunnie tali che, senza una eroica fortezza e il riconoscimento delle autorità ecclesiastiche, alla quali ubbidiva sempre fino allo scrupolo, sarebbe stata costretta a chiuderla. In mezzo a simili contrasti e lotte aveva sempre in bocca il detto: “Un’ora sola di Paradiso paga tutto”.
La marchesa di Canossa non si accontentò di estendere il proprio Istituto, ma fu geniale nell’escogitare ogni sorta di iniziative per il bene del prossimo a cominciare dalla formazione professionale di maestre per i contadini, fino ai ritiri mensili e agli esercizi spirituali per le donne del popolo e le dame dell’aristocrazia, alle pie unioni, agli oratori festivi e ai catechismi parrocchiali.
La Canossa, da coloro che chiedevano di fare parte della sua famiglia religiosa esigeva vocazione certa, distacco completo dal mondo e spiccata inclinazione per le opere esterne in cui, diceva, “l’unico sollievo è lavorare e consumarsi per amore di Dio”. Non smaniava di avere oggetti a ogni costo, convinta com’era che “il Signore può suscitare dalle pietre figli di Abramo”. Con grande buon senso scrisse un giorno a una superiora: “Se la vocazione non è chiara e sicura, altro non faremmo che tradire le ragazze e danneggiare l’Istituto. Sarebbe una carità crudele tenere una figlia che disturba o che mostra malcontento. La nostra vocazione domanda teste solidissime e temperamenti quieti”.
La santa coltivava con particolare cura le novizie per svincolarle dai pensieri angusti, dagli interessi piccini e dalle devozioni grette. Non ammetteva alla professione chi non fosse ben radicata nella carità, nell’ubbidienza e specialmente nell’umiltà. Diceva loro nelle conferenze spirituali: “Finché staremo in pace con l’amor proprio, non staremo in pace né con il prossimo, né con Dio”. Ella stessa non parlava mai di sé, del suo casato, della sua opera. Finché visse non permise di essere ritratta da qualche pittore. Raccomandava alle suore di non insuperbire del bene che operavano rammentando loro che, mentre gli altri Istituti avevano dei santi, esse non erano che “quattro donnicciole, senza lustro, senza lettere”, “le ultime venute nella casa del Signore” che, per ora, possedevano solo il nome di “serve dei poveri” in attesa di meritarsi il nome di “serve di Dio”.
Nei Riflessi che fece alle regole delle Figlie della Carità ella manifesta soprattutto il desiderio che la congregazione “viva in totale abbandono nella divina Provvidenza a null’altro pensando che agli interessi della divina grazia”; insiste a lungo sulla completa povertà, sembrandole “che le ricchezze portino a perdere l’appoggio a Dio, aprano l’adito alle cose umane, insomma disgustino Dio e gli uomini, e spingano a poco a poco alla rilassatezza”. Dovendo maneggiare denaro, per delicatezza di coscienza, non emise il voto di povertà. Tuttavia ne praticò lo spirito rifiutando distinzione nel cibo e nel vestito, rammendando da sé i propri abiti, non accettando postulanti o non aprendo case se prima non le fosse riuscito di assicurare i mezzi di sussistenza, giacché non amava confondere la speranza con la presunzione.
Il carattere che distingueva la santa nel governo dell’Istituto era l’affabilità, la schiettezza e la semplicità. In lei non fu mai notato un atto d’impazienza o di risentimento. Virile, imparziale con tutti, dimostrava le sue preferenze soltanto per le malate che considerava come “tante montagne di gemme” per l’Istituto e alle quali prestava i più umili servizi. Alle sue figlie raccomandava sovente la devozione a Gesù eucaristico, alla Passione del Signore e ai dolori di Maria SS. Alla protezione della Madonna attribuiva la propagazione delle Figlio della Carità, motivo per cui scriveva loro: “Sono tante le prove della continua, materna protezione di Maria, che sarebbe una somma ingratitudine il temere, anche se aveste contro una batteria di cannoni”.
Tra i suoi Pensieri si legge: “II Signore vuole che le Figlie della Carità imparino a vivere morte”. Le stava molto a cuore infatti che coltivassero la virtù dell’ubbidienza. Per questo ripeteva loro sovente: “Se anche faceste miracoli e non aveste l’ubbidienza, non avreste la vera virtù”. Si preoccupava che le giovani fossero ben assistite e meglio educate. Un giorno, scorta una suora che correggeva una bambina, per un piccolo furto, con motivi umani, la chiamò a sé e le disse: “È forse turca quella bambina o sei turca tu? Nel riprendere usa motivi soprannaturali diversamente non formerai delle cristiane, ma delle ipocrite”.
Nel 1820 la marchesa di Canossa ospitò a Verona, per alcuni mesi, Giuseppina Margherita Rosmini, desiderosa di dar vita a un’opera di assistenza educativa a Rovereto sotto la guida del fratello Antonio. Quell’incontro fu provvidenziale. Soggiogata dalla santità della santa, Margherita nel 1824 decise di farsi Figlia della Carità, e il fratello Antonio Rosmini (fl855) si sentì stimolato a fondare il 20-2-1828 al Calvario di Domodossola (Novara) l’Istituto della Carità per il sollievo del prossimo dalle miserie spirituali e corporali. Con l’aiuto di Margherita (+1833) la Canossa impiantò nel 1829 a Trento una casa del suo Istituto, nel convento di San Francesco, avuto in dono dall’imperatore Francesco I.
Verso la fine del 1828 la santa si recò a Roma per venerare le memorie dei martiri e implorare da Leone XII la definitiva approvazione della sua congregazione. L’ottenne in modo ampio ed effusivo il 23 dicembre come le aveva rivelato Maria SS. nella lunga sosta che aveva fatto nel santuario di Loreto. Ritornò a Verona più stanca e più curva di prima, ma con una più ferma coscienza cattolica, pronta sempre a dare la vita anche per una sola verità della fede. Inculcava perciò alle sue maestre: “Parlate sovente dell’ubbidienza e del rispetto che si deve al Pontefice, ai vescovi, ai sacerdoti; inspirate nella mente delle fanciulle la giusta idea della gerarchia ecclesiastica: sono autorità costituite da Dio, ministri della sua parola, dei suo sacramenti”. Quattro giorni dopo il suo arrivo a Verona, mentre parlava alla comunità, improvvisamente si oscurò in volto. Il Signore le rivelò l’imminente morte del papa, che aveva trovato in ottime condizioni di salute.
Benché fisicamente affranta la marchesa si adoperò ancora per fondare una casa a Bergamo (1835). Anche a Broscia da anni erano desiderate le Figlie della Carità. Tuttavia la santa sapeva che da molti erano preferite le Orsoline di S. Angela Merici (11540). Un giorno, passando per la piazza di Desenzano, sostò dinanzi alla statua della santa per recitare una preghiera. Prima di allontanarsi le disse: “Cara Santa, Broscia io la lascio alle tue Orsoline”. Si sentì rispondere: “Un po’ di posto io lo lascio anche a te”. Prima di morire la Canossa fece ancora in tempo ad avviare le pratiche per quella fondazione sollecitata anche da S. Maria Crocifissa di Rosa (+1855), fondatrice delle Ancelle di Carità.
Ormai rattrappita da anni nelle mani, la marchesa continuò a dettare lettere su lettere alle segretarie per rispondere alle tante persone che a lei continuamente si rivolgevano per aiuto e consiglio. Sentendosi ormai al tramonto della vita, ordinata e preveggente come sempre, voleva lasciare in ordine ogni cosa. Alla B. Teresa Eustochio Verzeri (+1852) predisse che sarebbe diventata la fondatrice di una congregazione religiosa e, alle sue figlio, lasciò in eredità oltre 3.000 lettere ripiene di santi ammaestramenti e sagge direttive.
Come aveva predetto, Maddalena morì in piedi a Verona il 10-4-1835, venerdì di Passione, dopo aver recitato due delle tre Ave Maria che si era proposta di dire al termine della santa unzione e della raccomandazione dell’anima. Alla terza si flesse sulle ginocchia, emise un piccolo grido di gioia e protese le braccia in avanti nel gesto caratteristico di una figlia che va incontro alla madre. Dopo morte il suo corpo rimase flessibile. Le sue reliquie sono venerate a Verona nella chiesa del convento di S. Giuseppe.
Pio XII la beatificò il 7-12-1941 e Giovanni Paolo II la canonizzò il 2-10-1988.
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 4, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 140-148.
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