Dopo la morte del marito (1625) si tracciò un severo regolamento di vita. La sua giornata iniziava molto presto con una mezz’ora di orazione, ed era seguita dalla recita delle ore minori dell’ufficio della Madonna e dalla Messa. In casa lavorava fino all’ora del pranzo, al quale faceva precedere una breve lettura del Vangelo e seguire, per dieci minuti, una meditazione sull’Incarnazione del Verbo. Fino alle quattro pomeridiane, se non doveva compiere qualche visita di dovere, continuava a lavorare, con le persone di servizio, per i poveri, le chiese o la casa. Si recava quindi di nuovo in chiesa per visitare Gesù sacramentato, recitare Vespro e fare mezz’ora di meditazione e l’esame di coscienza. La serata la trascorreva tra la lettura ed il lavoro. Chiudeva la giornata con la recita del rosario e del Mattutino dell’ufficio della Madonna.
Questa eroina della carità nacque il 15-8-1591 a Parigi da
Luigi de Marillac, signore di Farinvilliers e consigliere al Parlamento. Poco
dopo la sua nascita Luisa, molto gracile di complessione, rimase orfana di
madre. Più tardi annoterà: “Il Signore di buon’ora mi fece conoscere che
la sua volontà era che io andassi a Lui per la via della croce. Dalla mia
nascita e in ogni tempo quasi mai mi ha lasciato senza sofferenze”. Il
padre si sposò per la terza volta ed ella fu educata a Poissy dalle Domenicane
del monastero di San Dionigi, fondato dal re Filippo il Bello a ricordo del suo
avo S. Luigi IX. Il padre, non essendo in grado di mantenerla in quella dimora
di principesse, l’affidò ben presto ad una semplice e devota maestra di Parigi
che curava l’educazione di alcune figlie di borghesi. Alla scuola di costei,
Luisa imparò a compiere i più rudi lavori domestici e a crescere virtuosa e
pia.
Il padre, finché visse, l’abituò a solide letture e volle
che coltivasse il disegno e la pittura. Quando morì (1604), suo fratello
Michele si prese cura della nipote e continuò a farla studiare. Benché, col
passare degli anni, ella sentisse sempre più viva l’inclinazione alla vita
religiosa, per ubbidire ai parenti dovette unirsi in matrimonio con Antonio Le Gras (1613), costumato, coscienzioso scudiere e primo segretario della regina
Maria de’ Medici. Dalla loro unione nacque un unico figlio, Michele, che essi
amarono teneramente ed educarono con cura. Anche nello stato matrimoniale Luisa
diede l’esempio di tutte le virtù. Per rendere migliore lo sposo, per eccitarlo
al timor di Dio, leggeva con lui opere spirituali quali la Bibbia, l’Imitazione
di Cristo, la Filotea; non frequentava il mondo; non cercava pericolosi
divertimenti; a corte non metteva piede che per pura necessità. Usciva soltanto
per andare alla Messa e visitare i poveri e i malati, ai quali recava quanto
poteva sollevarli dalla miseria e si adoperava perché altre signore facessero
altrettanto.
Quando Antonio Le Gras fu costretto a seguire Maria de’
Medici a Blois (1617), dov’era stata esiliata dal figlio Luigi XIII, per la
santa ebbero inizio otto anni di terribili pene. Per temperamento timida e
ansiosa, le parve di sentire internamente una voce che le diceva di avere
sbagliato vocazione e che, per quella sua colpa, sarebbero scesi i castighi di
Dio sulla sua famiglia. Per conformarsi alla volontà di Dio le giovarono i
consigli dello zio Michele e le suasive parole di S. Francesco di Sales che,
nel suo secondo viaggio a Parigi (1618), andò a trovarla. Le sue angosce
crebbero a dismisura nel 1623 in occasione della malattia del marito e di altre
disgrazie familiari. Alla sua mente si affacciò persino insistente il dubbio
riguardo all’immortalità dell’anima. Con la speranza di calmare tali
agitazioni, il 4 maggio dello stesso anno, fece voto di perpetua vedovanza se
le fosse morto il consorte, ma la sospirata pace non ritornò. Soltanto nella
festa di Pentecoste, durante la Messa, riacquistò la serenità di spirito perché
le fu rivelato che un giorno sarebbe stata in grado di fare il voto di povertà,
castità e ubbidienza con altre compagne e sotto la guida di un nuovo direttore.
S. Vincenzo de’ Paoli (1581-1660), allora precettore nella
casa de Gondi, l’accettò a stento tra le sue penitenti, perché preferiva i
poveri ai nobili e ai ricchi. Luisa, nonostante la ripugnanza provata a
mettersi sotto la direzione di lui, ne rimase tanto contenta fin dalle prime
prove che in seguito non ne poté più fare a meno. Dopo la morte del marito
(1625) si tracciò un severo regolamento di vita. La sua giornata iniziava molto
presto con una mezz’ora di orazione, ed era seguita dalla recita delle ore
minori dell’ufficio della Madonna e dalla Messa. In casa lavorava fino all’ora
del pranzo, al quale faceva precedere una breve lettura del Vangelo e seguire,
per dieci minuti, una meditazione sull’Incarnazione del Verbo. Fino alle
quattro pomeridiane, se non doveva compiere qualche visita di dovere, continuava
a lavorare, con le persone di servizio, per i poveri, le chiese o la casa. Si
recava quindi di nuovo in chiesa per visitare Gesù sacramentato, recitare
Vespro e fare mezz’ora di meditazione e l’esame di coscienza. La serata la
trascorreva tra la lettura ed il lavoro. Chiudeva la giornata con la recita del
rosario e del Mattutino dell’ufficio della Madonna. Al suono di ogni quarto
d’ora faceva un atto di amor di Dio.
Alle feste del Natale e di Pentecoste si preparava con un
ritiro. Ogni primo sabato del mese rinnovava i voti privati e tutte le altre
buone risoluzioni; tutti i venerdì e tutti i giorni di comunione portava una
cintura di penitenza; digiunava, oltre i giorni stabiliti dalla Chiesa, ogni
venerdì e tutte le vigilie delle feste del Signore, della Madonna e degli
Apostoli. Più volte, a causa delle sue frequenti infermità, il direttore
spirituale fu obbligato a imporle moderazione. Fedele alle direttive ricevute,
nell’attesa che si manifestasse a suo riguardo la volontà di Dio, Luisa raccoglieva
elemosine e biancheria a beneficio degli indigenti, evangelizzati dalla
Congregazione della Missione fondata nel 1625 a Parigi da Vincenzo de’ Paoli.
Nel 1617, mentre era parroco a Chatillon-les-Dombes, il santo aveva dato inizio
alle Compagnie della Carità per il sollievo dei bisognosi, con
regolamento proprio. Per mantenerle nel primitivo fervore, correggerne i
difetti e istruire le associate, istituì visitatrice di esse Luisa de Marillac
(6-5-1629). Per circa dieci anni ella compì quest’ufficio viaggiando a piedi, a
cavallo, in barca, in diligenza, insieme con qualche sua amica. L’occupazione
alla quale preferiva darsi dopo la visita alle Confraternite e la cura dei
malati, era l’istruzione religiosa delle donne e delle fanciulle.
Per opera di alcune signore, le Compagnie della Carità
cominciarono a fiorire dal 1629 anche a Parigi. Tante dame dell’alta società,
però, non volendo o non potendo prestare ai malati gli ordinari servizi
stabiliti dal regolamento, mandavano le persone di servizio a portare loro il
cibo, a fare i letti e a preparare le medicine. Non sempre costoro erano
capaci, quasi mai ne avevano voglia temendo i contagi delle malattie. Se si
volevano fare prosperare le Compagnie della Carità bisognava rimediare a
quegli inconvenienti. Vincenzo, che possedeva il genio della carità e
dell’organizzazione, si rammentò di aver incontrato, durante le predicazioni
nei paesi, tante brave giovani che non si sentivano inclinate alla vita
matrimoniale e non avevano i mezzi sufficienti per abbracciare la vita
claustrale. Appena ne trovò 4 o 5 disposte a darsi alle opere di misericordia,
le affidò a Luisa de Marillac (1633) perché le alloggiasse e le istruisse in
casa sua. Vincenzo si compiaceva di chiamare quel nucleo “la piccola palla
di neve”, ma non fu in grado di prevedere il prodigioso incremento.
Sotto la guida amorosa e intelligente della fondatrice, le
prime aspiranti delle Figlie della Carità furono dirozzate, plasmate e
preparate a diventare le serve dei poveri. La mattina e la sera si recavano
presso le diverse Compagnie della Carità parigine, per aiutare le Dame nella
visita dei poveri. Alcune ore del giorno le riservavano alla preghiera e allo
studio per essere adatte più tardi ad istruire i bambini nelle piccole scuole.
Il 25-5-1634 Luisa poté emettere i primi voti semplici annuali e iniziare alla
vita comune le prime 12 novizie. Con frequenti conferenze, Vincenzo de’ Paoli
le preparò a tutte le opere di carità inculcando loro la pazienza con i malati,
l’ubbidienza alla Suora servente, cioè alla superiora, l’umiltà e l’unione
della vita attiva con quella contemplativa. Insegnava loro: “Quando
lascerete la meditazione e la Messa per servire i poveri, sappiate, figlio mie,
che non perderete nulla: perché servire i poveri è un andare a Dio, che voi
dovete vedere nella loro persona”.
Quando la comunità, cresciuta di numero, si trasferì a La
Chapelle (1636), Luisa diede inizio a parecchie delle sue principali opere: gli
esercizi spirituali per le signore; le scuole per bambine, istituite dalle Dame
di Carità nelle loro terre; la cura dei trovatelli abbandonati ogni anno in
numero di circa 400 in Parigi e nei sobborghi; l’assistenza ai galeotti
infermi, ospitati nella Torre di San Bernardo (1639); l’assistenza ai malati nell’ospedale
di Angers (1640). Quando la comunità potè stabilirsi dirimpetto a San Lazzaro
(1641), dove S. Vincenzo risiedeva con i suoi Missionari, Luisa e le suore per
vent’anni poterono beneficiare più volte al mese delle conversazioni spirituali
del fondatore, trasformare la loro casa nel rifugio dei poveri e nel deposito
delle elemosine delle persone generose. In quella nuova sede fu possibile
aprire una scuola per le bambine povere della parrocchia e un rifugio per le
profughe della Piccardia e della Lorena, vittime della guerra dei trent’anni.
S. Giovanna Fréniot de Chantal rimase ammirata di quelle
opere che visitò alla fine della sua vita (+1641). Ella vide realizzato
quell’apostolato al quale le Figlie della Visitazione avevano dovuto rinunciare
per volere del cardinale de Marquemont, arcivescovo di Lione. Vincenzo aveva
concepito le Figlie della Carità non come religiose claustrali ma come pie
persone viventi in comune per l’esercizio di tutte le opere di misericordia.
Così un giorno egli tracciò il loro genere di vita: “Le Figlio della
Carità avranno per monastero la casa dei poveri malati, per cella una stanza a
pigione, per cappella la chiesa della parrocchia, per chiostro le vie della
città o la sala d’un ospedale, per clausura l’ubbidienza, per grata il timor di
Dio e per velo la santa modestia”.
Allargandosi il campo d’azione, Luisa pose ogni cura perché
l’Istituto si stabilisse e prosperasse su solide basi. Stese perciò delle
apposite Costituzioni alle quali Vincenzo non trovò niente da aggiungere o da
togliere tanto la sua collaboratrice si era mostrata donna di grande
esperienza, di larghe vedute e di consumata prudenza. Il cardinale di Retz,
arcivescovo di Parigi, il 18-1-1655, le approvò e mise la Compagnia delle
Figlie della Carità sotto la direzione del superiore generale della
Congregazione della Missione.
Entrambi i fondatori si preoccuparono di scegliere bene le
prime pietre del loro edificio. Luisa designò così le condizioni richieste per
le postulanti: “E’ necessario far conoscere alle giovani che domandano di
essere ammesse nella Compagnia, che questa non è una religione, né un ospedale
da cui non bisogna muoversi, ma essa è fatta per andare di continuo a cercare i
poveri malati in diversi posti, qualunque tempo faccia, ad ore prescritte e
precise; che le Figlio della Carità sono vestite e nutrite poveramente e non
portano mai alcuna cosa in testa; che non bisogna avere altra intenzione,
nell’entrare nella Compagnia, se non quella di servire Dio e il prossimo; che
bisogna vivere nella Compagnia in una continua mortificazione di corpo e di
spirito; che esse devono avere la volontà di osservare strettamente le regole e
specialmente l’ubbidienza”.
A una superiora scrisse: “Badate che per noi non si
addicono le oziose, le chiacchierone, quelle che si servono del pretesto di
essere Figlie della Carità per venire a Parigi e poi non hanno alcuna volontà
di servire Dio, né di perfezionarsi”.
Senza che si facesse ricorso ad alcuna industria umana, le
Figlie della Carità si propagarono in Francia e persino a Varsavia (Polonia)
per interessamento di Maria Luisa Gonzaga, sposa del re Vladislao Wasa. Ovunque
esse si diffusero, compirono prodigi di carità nelle scuole, negli ospedali,
negli ospizi, sui campi di battaglia, nelle prigioni. La Santa lavorò circa
trent’anni per educarle. Timida e impressionabile, confessò che nei primi anni
il suo spirito soffriva molto nel vedere sempre visi nuovi e che talora in
ricreazione sentiva il suo cuore tanto oppresso da durare fatica a mostrarsi
ilare e gioviale. Non poteva soffrire che esistesse tra loro, neppure per un
istante, la più piccola freddezza, la più leggera contesa, un minimo dissapore.
Le sue conferenze alla casa madre, le sue visite o le sue lettere alle suore
lontane tendevano a formare la più intima unione dei cuori, a coltivare lo
spirito di povertà nel quale faceva consistere la felicità delle comunità.
Soleva dire: “Le serve dei poveri non devono stare meglio dei
padroni”.
Negli ultimi anni di vita, Luisa andò soggetta a incessanti
dolori di testa, febbre continua, dolori di stomaco con nausea. Alle sofferenze
del corpo si unirono più intensamente le pene interiori e i dubbi angosciosi
dell’eterna salute. A causa della sua estrema debolezza e dei suoi mali, S.
Vincenzo non potè andarla ad assistere negli ultimi giorni della sua malattia.
Alla morte, avvenuta il 15-3-1660, Luisa de Marillac lasciò 250 suore
distribuite in 60 case. Fu beatificata da Benedetto XV il 9-3-1920 e
canonizzata da Pio XI l’11-3-1934. Le sue reliquie sono venerate a Parigi nella
cappella della casa generalizia con quelle di S. Caterina Labouré. Il 20-2-1960
Giovanni XXIII la proclamò patrona di quanti si dedicano alle opere sociali.
___________________
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del
giorno, vol. 3, Udine: ed. Segno,
1991, pp. 178-184.
http://www.edizionisegno.it/