Un giorno, mentre stava a mensa, il padrone lo invitò a servirsi di una squisita pietanza di cui voleva privarsi. Al pressante invito, il santo stese la mano, ma una forza misteriosa gliela trasse indietro. Ripeté il tentativo altre due volte, ma una forza invisibile gl’impedì di prendere di quella pietanza. L’Oriol capì che Dio voleva da lui un perpetuo digiuno a pane e acqua, benché non avesse grandi colpe da espiare. I suoi concittadini vennero presto a conoscenza di quella sua penitenza e, quando lo incontravano per via, lo additavano ammirati con il soprannome di “dottore pane e acqua”.
E’ una gloria di Barcellona (Spagna) dove nacque il
23-11-1650 da un modesto tessitore di velluti. Sette fratelli lo avevano
preceduto nel mondo, ma morirono tutti in tenera età. Rimasto presto orfano di
padre, Giuseppe trascorse la fanciullezza sotto la tutela di un calzolaio con
il quale la madre era passata a seconde nozze. Egli crebbe tanto pio e
ubbidiente che le mamme lo additavano come esempio ai propri figli chiamandolo
“il santarello”. A dodici anni, rimasto orfano anche del patrigno,
disimpegnò per oltre quattordici mesi l’ufficio di accolito nella chiesa di
Santa Maria del Mar e maturò in sé il germe della vocazione sacerdotale sotto
la guida della comunità parrocchiale, la quale lo predispose agli studi
superiori.
Nel 1664 Giuseppe s’iscrisse all’università di Barcellona
e, benché fosse d’ingegno mediocre e di salute delicata, studiò con tale
impegno da ottenere il titolo di dottore in teologia (1674) e da meritare di
essere aggregato all’Accademia teologica. In mezzo alla gioventù studiosa, con
la preghiera e la penitenza, seppe non solo conservare illibata la stola della
sua innocenza, ma invogliare altri alla pratica della virtù, specialmente i
soldati della guarnigione, ai quali insegnò il catechismo. Un giorno capitò
nella cucina della sua nutrice, Caterina Bruguera, mentre faceva il bucato.
Volle darle una mano senza immaginare di destare i sospetti del marito geloso.
Illuminato dall’alto, lo tranquillizzò subito, dicendogli: “E così falso
ciò che pensate di me che non temo di porre le mani sul fuoco a prova della mia
innocenza”. Dinanzi al prodigio e alla scrutazione del suo cuore, il
Bruguera versò lacrime di gioia.
Un giovane così pio, zelante e casto come l’Oriol era ben
degno del sacerdozio. Lo ricevette nel 1676 per le mani del vescovo di Vich e
lo esercitò, con uno straordinario zelo per dieci anni consecutivi, nella
chiesa dell’Oratorio Filippino, istituito a Barcellona nel 1673 dal sacerdote
Ollegario di Montserrat. Con la predicazione, le conferenze e l’amministrazione
dei sacramenti, attrasse a sé quanti desideravano raggiungere una maggiore
perfezione. Nel frattempo fece da istitutore ai due figli del nobile milanese
Tommaso de’ Gasneri. Nel primo anno della sua permanenza in quella famiglia gli
occorse un fatto prodigioso. Un giorno, mentre stava a mensa, il padrone lo
invitò a servirsi di una squisita pietanza di cui voleva privarsi. Al pressante
invito, il santo stese la mano, ma una forza misteriosa gliela trasse indietro.
Ripeté il tentativo altre due volte, ma una forza invisibile gl’impedì di
prendere di quella pietanza. L’Oriol capì che Dio voleva da lui un perpetuo
digiuno a pane e acqua, benché non avesse grandi colpe da espiare. I suoi
concittadini vennero presto a conoscenza di quella sua penitenza e, quando lo
incontravano per via, lo additavano ammirati con il soprannome di “dottore
pane e acqua”. Nelle feste andava a cogliere sulla montagna Montjuich un
po’ di erba e la mangiava o cruda o cotta, senza olio e senza sale. Nelle
grandi solennità temperava il consueto digiuno con una acciuga o sardina della
peggiore qualità e, se il confessore qualche volta gli ordinava un piatto
speciale, aveva la preoccupazione di rovinare il sapore con la cenere.
Trascorse una quaresima prendendo cibo soltanto la domenica. L’eucarestia che
assumeva nella Messa, alla quale si preparava tutti i giorni con la
confessione, era sufficiente a sostenerlo.
L’Oriol non ebbe mai una casa propria. Nella sua persona tutto
rispecchiava la povertà. Perché nessuno lo notasse, lavava e rattoppava da sé i
propri panni. Di notte, stanco delle fatiche del giorno, si adagiava senza
spogliarsi sopra una panca o una stuoia. Un sasso gli serviva da guanciale.
Talora dormiva sopra una sedia a bracciuoli, ma allora aveva la precauzione di
mettersi tra le mani una candela accesa per essere richiamato, dopo due ore,
dalla fiamma, ai consueti pii esercizi notturni. A Barcellona, presso la chiesa
di Santa Maria del Pino, sono ancora conservate le cinque discipline di cui si
serviva secondo gl’impulsi del suo spirito, diciassette cilici di ferro per i
polsi, le braccia, il collo, le gambe, i fianchi e una croce di legno cosparsa
di 129 chiodi in ordine di tre per tre. Nonostante le terribili penitenze con
cui il santo tormentava il proprio corpo, egli appariva sempre allegro e
tranquillo. Alla morte della mamma (1685), l’Oriol si congedò dalla famiglia
Gasneri e si recò in pellegrinaggio a Roma.
Sedeva sulla cattedra di S. Pietro, il B. Innocenzo XI
(+1689). Ragguagliato dei meriti e della virtù di Don Giuseppe, gli concesse
(1787) un beneficio residenziale, fondato nella cappella di San Leopardo, nella
Chiesa di Santa Maria del Pino a Barcellona. Per quindici anni l’Oriol fu un beneficiato
esemplare in sagrestia, in coro, in confessionale, nell’ufficio di cassiere e
d’infermiere sotto la direzione del P. Giovanni della Concezione, OCD. (+1711).
Alieno da ogni ricreazione anche onesta, nelle ferie si recava a svolgere il
ministero presso parroci della Catalogna. Egli fu un ispiratore di santità
tramite soprattutto il tribunale della penitenza.
Convinto che i proventi del beneficio appartenevano ai
poveri, il giorno sei di ogni mese, il santo li distribuiva alla porta della chiesa,
benché i colleghi lo ammonissero di non essere troppo generoso. Egli rimaneva
sempre senza un soldo, non così i poveri, perché Dio all’occorrenza gli
moltiplicava i denari tra le mani. Quando si accorgeva che gli era rimasta in
tasca una moneta non si dava pace finché non se ne fosse disfatto a beneficio
del prossimo. I carcerati trovarono in lui il loro angelo consolatore, i malati
il loro medico, le fanciulle pericolanti il loro protettore, le famiglie in
discordia il loro pacificatore, gli orfani il loro padre, le anime dei defunti
il loro soccorritore.
Colui che in patria era stato l’eroe della carità, ad un
certo momento della vita intravide, oltre i monti e oltre i mari, popoli
selvaggi da salvare. Nel desiderio di sovraspendersi per la loro conversione e
di guadagnarsi il paradiso con il martirio, l’Oriol decise di recarsi in
pellegrinaggio in Terra Santa e di là passare a predicare agli infedeli. Fece
testamento e partì a piedi alla volta di Roma, per chiedere al papa la
benedizione apostolica (1698) con l’unica eredità del bordone, del breviario e
del crocifisso. Per strada accettava in elemosina soltanto un po’ di pane e, di
notte, dormiva negli ospedali che incontrava. Iddio ricompensò il suo totale
distacco dai beni e dai piaceri della terra concedendogli il dono di guadare i
fiumi senza bagnarsi i piedi. A Marsiglia una grave infermità lo costrinse a
interrompere il viaggio. Mentre pensava con rammarico allo svanire dei suoi
sogni. Maria SS. gli apparve, lo guarì e gli disse che era volontà del suo
Figlio divino che ritornasse a Barcellona a conforto dei malati.
Per giungervi quanto prima il santo deliberò d’imbarcarsi
sopra una nave spagnuola. In alto mare essa fu colta da una furiosa tempesta.
Il capitano, atterrito, si rivolse a Don Giuseppe, che se ne stava tranquillo
sotto coperta, con il breviario in mano, perché rivolgesse al cielo una
speciale preghiera. Il taumaturgo tracciò un segno di croce sugli elementi
infuriati e, come per incanto, il mare si calmò. Verso sera, mentre stava
pregando sopra coperta, lo Spirito del Signore lo investì, gli fece ripetere ad
alta voce: “Dio mio, Dio mio! Mio amore, mio amore!” e lo sollevò per
aria con un moto così rapido che i marinai non riuscirono a trattenerlo. Lo
chiamarono ripetutamente, si slanciarono su per gli alberi della nave come per
afferrarlo, ma l’estatico, dopo un po’ di tempo, da sé, ritornò volando al
punto di partenza.
A Barcellona andò subito a visitare i suoi più intimi
amici, tra cui Don Tommaso Milans, maestro di cappella. Costui, quel giorno,
aveva dato ordine alla sua persona di servizio di dire a quanti fossero andati
a cercarlo che non era in casa. L’Oriol, insoddisfatto di quella risposta, si
limitò a insistere col dire: “Guarda bene, che lo troverai”. La
domestica non potè fare a meno di correre dal maestro per narrargli l’accaduto
e introdurre il santo alla sua presenza. In casa dei Llobet, l’Oriol incontrò
il capitano della nave che da Marsiglia lo aveva trasportato a Barcellona.
Avendogli costui chiesto il denaro convenuto per il nolo del viaggio, il santo
supplicò Stefano Llobet di guardare nel cassetto del mobile vicino perché
avrebbe trovato quanto occorreva. Non era quello il luogo in cui il povero
artigiano teneva i soldi, tuttavia, alle insistenze dell’Oriol, aprì il
cassetto e trovò il denaro di cui il santo lo aveva assicurato.
Negli ultimi anni di vita l’Oriol ebbe molte estasi e
visioni, benché le tenesse abitualmente celate. Ne furono testimoni i colleghi
beneficiati e le famiglie che lo ebbero ospite. Attraverso la serratura della
porta essi lo videro sovente sospeso per aria per lunghe ore. Una notte del
giovedì santo, mentre con altri tre sacerdoti vegliava in chiesa dinanzi alla
reliquia della Santa Spina, fu udito sospirare che vedeva gocce di sangue
uscire dalla fronte del Redentore. All’estatico tenne dietro la missione
permanente di taumaturgo. Risulta dai processi che di notte, in casa di amici,
le candele che teneva accese, per attendere alla preghiera e alla meditazione,
non si consumavano; che un giorno fece a piedi un lungo viaggio sotto la
pioggia senza bagnarsi neppure la testa benché la portasse sempre scoperta; che
al suono delle campane fu visto da alcuni fanciulli inginocchiarsi sulle acque
di un fiume per recitare la salutazione angelica. La distanza dei luoghi o la
lunghezza del tempo per lui non era più regolata da norme fisse ed inviolabili.
Bastava la sua parola perché nella casa dei Llobet, in un momento di bisogno,
apparisse improvvisamente tanta quantità di cibo da bastare per tutta una
quaresima. Bastava la sua presenza in casa di sacerdoti amici perché si
moltiplicassero le pietanze necessarie agli imprevisti visitatori.
A Giuseppe Oriol, Dio volle soprattutto comunicare il
dominio sulle infermità. Il santo esercitò il compito di risanatore degli
infermi con una certa solennità tutti i giorni, dopo il vespro, nella cappella
del SS. Sacramento della chiesa di Santa Maria del Pino. Ai malati, disposti in
ordine presso la balaustra, egli faceva recitare il Credo per disporli a
sentimenti di fede, poi li segnava con l’acqua benedetta sulle parti malate,
imponeva le mani sul loro capo o li segnava con il dito pollice dicendo tre
volte: “Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo”.
A quelle cerimonie chi aveva fede guariva. Siccome non gli
sfuggiva lo stato della loro coscienza, chi si trovava in stato di peccato
mortale lo mandava prima a confessarsi. Il santo s’intratteneva più a lungo con
gli ammalati più ripugnanti. Talora giungeva a lambire le loro piaghe
purulente. A chi lo rimproverava, rispondeva: “Tacete, che simili
squisitezze non capitano ogni giorno”.
Il santo trasfondeva negli altri la carità che lo
investiva. I malati che accorrevano a Barcellona da tutte le parti, a contatto
della sua persona si sentivano come soffocati da insolito calore o scossi da
inesplicabile tremore o illanguiditi da interiore indebolimento. Il concorso
dei miseri era sovente tanto grande che più di una volta egli trasmise la sua
virtù risanatrice a qualche collega, pregandolo di aiutarlo nel segnare e
guarire gl’infermi. Un giorno gli fu portato persino un bambino defunto ed egli
lo risuscitò.
Il principe delle tenebre fremeva del bene che l’Oriol
operava. Quei di casa Bruguera assicurarono che quando il santo veniva da loro
ospitato lo vedevano sovente come spinto da mano invisibile contro le pareti di
casa, trascinato per le stanze o buttato giù dalle scale. Un giorno un suo
collega lo scorse in chiesa con l’abito infangato e il volto graffiato. Gliene
chiese la ragione e l’Oriol gli rispose che nella solitudine del Montjuich, per
tre ore, aveva sostenuto una furiosa lotta con lo spirito maligno. Tutte le
volte infatti che era sul punto di operare qualche strepitosa conversione, il demonio
raddoppiava i suoi furori contro di lui.
Quando giunse il momento di lasciare questo mondo, l’Oriol
pregò Girolama Llobet, sua penitente, di preparargli un lettuccio. Voleva
nascondere agli occhi di quanti sarebbero andati a trovarlo l’estrema povertà
nella quale era fino allora vissuto. Si ammalò di pleurite nel tempo che aveva
preveduto e manifestato agli intimi. Nei quindici giorni di malattia gli fu
offerto del denaro, ma egli lo fece distribuire ai poveri. Di notte la sua
lampada ardeva senza che l’olio si consumasse. Sei ore prima del trapasso,
manifestò a Don Tommaso Milans il desidero di udire cantare lo Stabat Mater.
Il maestro lo accontentò, prese con sé quattro fanciulli della sua cappella e,
mentre essi cantavano, egli li accompagnò con l’arpa. A quelle melodie il
morente sospirò: “Ah, Gesù, che bellezza! che bellezza!”
All’una e mezzo della notte del 23-3-1702, guardando il
crocifisso mormorò: “Ora sì che muoio”. I suoi funerali furono un
trionfo. Giuseppe Oriol fu beatificato da Pio VII il 5-9-1806 e il 20-5-1909
canonizzato da S. Pio X. Le sue reliquie sono venerate a Barcellona nella
chiesa di Santa Maria del Pino.
___________________
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del
giorno, vol. 3, Udine: ed. Segno,
1991, pp. 257-262.
http://www.edizionisegno.it/