I dati certi sulla sua vita, al di là della leggenda, sono pochi. Soldato fiorentino, perdonò per amore di Cristo l’uccisore di suo fratello e divenne monaco di San Miniato. Dopo aver denunciato il proprio abate per simonia, abbandonò il convento alla ricerca di un nuovo monastero. Giunto a Vallombrosa diede origine, con altri monaci che avevano abbandonato S. Miniato, ad una comunità che si ingrandì col tempo. Accettata la carica di abate, Giovanni volle ritornare agli insegnamenti degli Apostoli, dei Padri della Chiesa e di San Benedetto, accentuando gli aspetti della povertà e del lavoro manuale.
Quanto conosciamo di questo santo fondatore, lo deduciamo dalla vita che ne scrisse un suo discepolo, Andrea, abate di Strumi, e un suo successore nel governo di Vallombrosa, l\’abate Atto, più tardi vescovo di Pistoia. Giovanni nacque a Firenze dalla ragguardevole famiglia dei Gualberto, che possedeva il suo castello a Petroio, in Val di Pesa, dove passava buona parte dell\’anno. Il santo crebbe molto caro a quanti lo conobbero per l\’onestà dei costumi, e fu oggetto della riverente ammirazione dei servi e dei vassalli insieme con il fratello maggiore, Ugo.
In quel tempo nelle città italiane allignavano fazioni e risse interminabili. Un giorno, non sappiamo per quale motivo, Ugo cadde sotto il pugnale di uno scellerato parente. Il padre, uomo d\’armi, e il figlio superstite, proposero di far giustizia, secondo il pessimo costume del tempo, con la propria spada. L\’assassino cercò di sottrarsi alla loro ira, ma un giorno, mentre Giovanni, ormai trentenne, si recava a Firenze accompagnato da alcuni scudieri, lo incontrò ad una svolta della strada, nei pressi della Basilica di San Miniato al Monte. Sentendosi perduto, l\’omicida si buttò dal cavallo a terra, incrociò le braccia sul petto e abbassò la testa in attesa del colpo fatale. Il Gualberto, furente, aveva sfoderato la spada, ma scosso dal turbamento del misero e più ancora dall\’immagine della croce disegnata dalle braccia di lui, improvvisamente si placò e disse all\’omicida che poteva proseguire indisturbato il cammino. Per ringraziare il Signore della vittoria che gli aveva concesso di riportare sulla propria collera, entrò a San Miniato. Il crocifisso davanti al quale s\’inginocchiò, inchinando ripetutamente il capo, gli diede a vedere quanto avesse gradito il suo gesto eroico. Commosso a quello spettacolo, Giovanni pensò in qual maniera potesse maggiormente piacere a Dio.
Sceso a Firenze, il santo licenziò gli scudieri, poi si presentò all\’abate di San Miniato, gli raccontò quanto gli era accaduto e gli chiese di riceverlo tra i suoi monaci. Per vincere l\’opposizione del padre che era andato a reclamarlo, egli aveva indossato una cocolla e si era reciso la lunga capigliatura. Alla vista del figlio vestito in quel modo il padre pianse, si percosse il petto e si graffiò il volto ma, dopo un lungo colloquio con lui, se ne partì rasserenato. In San Miniato Giovanni camminò per la via stretta della perfezione con tanto impegno che, alla morte dell\’abate Leone, i suoi confratelli lo dessero come loro superiore. Un certo Uberto, però, con l\’appoggio di potenti famiglie e il versamento di una forte somma di denaro al vescovo di Firenze, Atto, riuscì a soppiantarlo. Piuttosto di vivere sotto un abate simoniaco, eretico e scomunicato, dietro il consiglio di Teuzzone, eremita presso la chiesa di Badia e capo degli intransigenti, il Gualberto decise di ritirarsi in un altro monastero non senza aver prima denunciato sulla pubblica piazza il mercimonio del vescovo e dell\’abate.
Per sottrarsi alle ire degli avversari, il santo fuggì con un compagno verso l\’Appennino, finché raggiunse Camaldoli, dove S. Romualdo (+1027) aveva restaurato la vita eremitica. Il superiore dell\’eremo fu presto conquiso dalla virtù di Giovanni. Pensò di farne una sua recluta, ma il santo non ne volle sapere. Per cattivarselo gli promise che lo avrebbe fatto ordinare sacerdote, ma egli di quello stato aveva una tale stima che, neppure in seguito si lasciò indurre a prendere anche solo gli ordini minori. Dal momento che aveva abbracciato la vita cenobitica, desiderava restarvi fedele fondando un nuovo monastero in cui lo avrebbero raggiunto diversi confratelli di San Miniato.
Verso il 1036 Gualberto riprese dunque la via di Firenze, chiedendo ospitalità ai monasteri che trovava sul cammino. Si fermò in una conca boschiva ad occidente del monte Pratomagno, detta Acqua Bella, chiamata più tardi Vallombrosa, proprietà delle benedettine di Sant\’Ilario in Alitano, dove condusse vita eremitica con altri due religiosi che già vi abitavano, in povere capanne, alle dipendenze del monastero di Settimo (Firenze). Prolungò talmente le sue preghiere e si diede a così aspre penitenze che suscitò le ire del demonio, il quale insorse furibondo contro di lui apparendogli sotto forme orrende per molestarlo. Onde sottomettere la carne allo spirito, Giovanni non esitò a immergersi nelle acque gelate della vallata a m. 961 sul livello del mare, e a prolungare i suoi digiuni così rigorosi da rovinarsi completamente lo stomaco. Sovente sveniva e rimaneva talmente irrigidito nelle membra che i suoi compagni, per fargli ingerire un po\’ di alimento, gli dovevano aprire a forza la bocca.
Appena si seppe che il Gualberto si era fermato a Vallombrosa, diversi suoi sostenitori accorsero a lui da San Miniato. Il romitorio assunse così le caratteristiche di un cenobio. Ogni volta che arrivava un nuovo fratello si fabbricava una capanna di frasche attorno all\’oratorio di assi che Itta, badessa di Sant\’Ilario, vera madrina della novella fondazione, provvedeva di libri, per il canto dei salmi, e di suppellettili, e il cui altare Corrado II, imperatore di Germania, di passaggio da Firenze, fece consacrare all\’Assunta dal vescovo di Paderborn. La chiesa che Giovanni vi sostituì in seguito, fu consacrata nel 1051 dal cardinale Umberto di Silvacandida (+1061), amico del fondatore e suo sostenitore con Ildebrando, futuro Gregorio VII, nella lotta contro simoniaci e concubini.
Il monastero di Vallombrosa a tre anni dall\’arrivo del Gualberto era materialmente formato. La badessa Itta, il 3-7-1039, fece dono ad esso di molte terre con l\’obbligo di non alienarle, venderle o comunque commutarle. Il santo poté così educare all\’osservanza della regola benedettina, con propri statuti, i chierici, i laici e i fanciulli che venivano a lui. Per loro eresse scuole per lo studio della grammatica, della rettorica e delle altre arti. L\’occupazione dei monaci era costituita dal lavoro nei boschi, l\’allevamento del bestiame e l\’officiatura corale. Per i servizi soprattutto fuori del monastero il santo provvide con l\’introduzione nell\’ordine di monaci conversi. Per quei chierici o persone colte che si recavano a Vallombrosa per apprendere la riforma dei costumi e agguerrirsi contro i mali del tempo, fece costruire un ospizio e una foresteria. Un riguardo speciale ebbe per i poveri che accoglieva alla porta del monastero, e ai quali faceva distribuire gran parte dei frutti delle donazioni che ricchi signori gli andavano facendo, dopo averli esortati a restare fedeli a Cristo. Per sfamarli nelle carestie non esitò a vendere calici e suppellettili preziose. Dio lo ricompensò con il dono dei miracoli e col mandargli numerose vocazioni con cui in poco tempo poté fondare i monasteri di San Salvi, Moscheta e Passignano, con accanto case per i poveri e i malati. L\’opera del Gualberto fu molto apprezzata dai Sommi Pontefici, specialmente da S. Leone IX il quale, di ritorno dal concilio di Lione (1050) in compagnia di S. Ugo di Cluny, lo volle incontrare a Passignano perché con i suoi figli lo sosteneva nella lotta contro simoniaci e concubini in Toscana. Il suo successore, Vittore II, fece tesoro di lui riconoscendogli, nel concilio di Firenze (1055), la suprema giurisdizione su tutte le abbazie fondate e riformate. Le visitò difatti regolarmente a piedi e a cavallo, per inculcare ai monaci la carità, l\’umiltà e l\’ubbidienza, per rendersi conto delle loro opere caritative non solo, ma anche di quelle sociali quali la costruzione di ponti, la manutenzione di strade e la distribuzione di terre, in perpetua enfiteusi, ai contadini poveri.
Secondo le necessità, il Gualberto seppe intervenire pure negli affari di chiese particolari per riportarvi la disciplina col prestigio della sua austerità. A Milano inviò un gruppo di sacerdoti, presieduto da due dei suoi figli, Rodolfo di Moscheta e Pietro Igneo, affinchè dessero man forte ai santi Arialdo diacono e Eriembaldo conte, contro il vescovo Guido e il suo clero concubinario. È rimasta famosa la lotta da lui sostenuta, insieme con Teuzzone di Badia, contro il simoniaco Pietro Mezzabarba da Pavia, vescovo di Firenze. S. Pier Damiani era stato mandato da Alessandro II ad esaminare la situazione in qualità di legato, ma si era lasciato abbindolare dall\’astuto prelato. Le parti contendenti furono convocate in un concilio a Roma (1065), ma poco mancò che i tre monaci, mandati da Gualberto a sostenere l\’accusa, fossero considerati come eretici. I partigiani del Mezzabarba si vendicarono dei Vallombrosani assalendo di notte il loro monastero di San Salvi e facendo strage dei religiosi. Il popolo prese le difese dei perseguitati e propose al santo il ricorso al giudizio di Dio. Alessandro II, di passaggio da Firenze, non ne volle sapere. Giovanni Gualberto, invece, illuminato dall\’alto, accolse la proposta a difesa della verità. Per provare che il Mezzabarba era simoniaco, diede ordine a Pietro Igneo, Priore di Passignano, di dare inizio alla Messa nella badia di Settimo. Al termine del sacro rito, ancora rivestito dei paramenti, l\’intrepido monaco passò tra due cataste di legna in fiamme, distanti l\’una dall\’altra un braccio, alte due metri e lunghe dieci. Quando il popolo lo vide sbucare illeso dalla parte opposta, esplose in un grido di gioia. Neppure un pelo della sua barba si era bruciato! Alessandro II, appena ebbe notizia del fatto prodigioso, depose il Mezzabarba e i suoi seguaci dalla sede fiorentina.
Gualberto trascorse gli ultimi anni di vita tra molte infermità, ricercato da vescovi e da sacerdoti per consiglio e per la lotta contro i mali del tempo. Vallombrosa ormai non era più la selvaggia solitudine di trentacinque anni prima. Possedeva un fiorente noviziato e una scuola apprezzatissima e da tutte le parti, con i poveri, continuavano ad accorre verso di essa sacerdoti e laici, desiderosi di ritemprarsi nello spirito per un più efficace apostolato tra i fedeli.
Dopo aver visitato per l\’ultima volta le abbazie che aveva fondato o riformato, dopo aver rivolto infuocate esortazioni a tutti i monaci, Giovanni Gualberto si ritirò nel monastero di Passignano, per attendervi il momento di volarsene al premio, nella preghiera e nella meditazione dei Libri Santi. Dopo aver esortato i suoi figli all\’inviolabile custodia dell\’unione fraterna, dopo aver rinnovato la sua professione di fede, morì assistito visibilmente dall\’angelo custode il 12-7-1073. Al lutto dei Vallombrosani partecipò con una lettera S. Gregorio VII, da poco elevato al Sommo Pontificato, il quale aveva molto teneramente amato il loro fondatore benché non lo avesse mai visto di persona. Il corpo del Gualberto è venerato a Passignano, un braccio di lui a Vallombrosa. Celestino III lo canonizzò nel 1193 e Pio XII lo proclamò nel 1951 protettore dei Forestali d\’Italia.
___________________
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 7, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 129-133
http://www.edizionisegno.it/