Nacque nel 1698 a Voltaggio, in provincia di Genova ma a 13 anni, per motivi di studio, si trasferì a Roma. Qui fu colto dai primi attacchi di epilessia, malattia che lo avrebbe fatto soffrire sempre. Ordinato sacerdote, l\’8 marzo 1721, diede ancora più slancio al suo apostolato tra gli studenti, i poveri e gli emarginati. Fondò la Pia Unione dei sacerdoti secolari di Santa Galla dal nome di un ospizio maschile da lui diretto. Giovanni ne volle uno anche per donne e lo dedicò a Luigi Gonzaga. Dopo l\’aggravamento dell\’epilessia negli ultimi mesi di vita, che lo costrinse a un vero e proprio calvario, morì il 23 maggio 1764. Fu canonizzato da Leone XIII l\’8 dicembre 1881.
Questo apostolo di Roma e pescatore di anime nacque il 22-2-1698 a Voltaggio (Genova) da poveri, ma onesti genitori. Fin dall\’infanzia Giovanni si fece notare per la sua angelica pietà. La nobile famiglia Scorza, che ogni anno andava a villeggiare a Voltaggio, ne rimase così edificata che lo volle prendere a Genova con sé come paggio. Dopo tre anni di vita intemerata, il giovanotto fu chiamato a Roma da uno zio paterno, il P. Angelo, provinciale dei Cappuccini, e dal cugino, Lorenzo de\’ Rossi, canonico della basilica di Santa Maria in Cosmedin (1711).
Presso quest\’ultimo il santo prese alloggio e frequentò i corsi di umanità e di scienza al Collegio Romano fondato da Gregorio XIII, si addottorò in filosofia con lode e, siccome aspirava alla vita sacerdotale, intraprese pure lo studio della teologia. In seguito però ad una indiscreta penitenza nel mangiare e nel bere, alla quale si era dato per correggersi da alcune mancanze di lingua, nelle quali era solito cadere per il suo temperamento gioviale e canzonatore, andò incontro ad un forte esaurimento e ai primi attacchi dell\’epilessia da cui fu affetto più o meno frequentemente per tutta la vita.
Non interruppe però gli studi, ma li continuò come semplice uditore presso i Domenicani di Santa Maria sopra Minerva, i quali, spiegando come testo la Somma di S. Tommaso d\’Aquino, non esigevano dagli studenti uditori la fatica di prendere appunti scritti. Lungi dal rammaricarsi della sua infermità, Giovanni ne ringraziò Iddio perché, se avesse potuto seguire gli studi come desiderava, avrebbe anch\’egli avuto la vanità di farli da dotto e da letterato.
La triste esperienza gli servì in seguito per raccomandare, ai giovani specialmente, di non praticare eccessive penitenze.
Nel frattempo il de\’ Rossi continuò a frequentare nel Collegio Romano la Congregazione detta della Scaletta in cui era entrato a quattordici anni con l\’ufficio di sacrestano. Sotto la direzione spirituale del celebre educatore P. Francesco M. Galluzzi (+1731) concepì una grande devozione per S. Luigi Gonzaga (11591), fu introdotto nel ristretto dei SS. Apostoli e lanciato nell\’apostolato tra i suoi coetanei. Benché non fosse diventato un erudito, per la rettitudine dello spirito, l\’abitudine di chiedere sempre consiglio nei dubbi e soprattutto per la luce della grazia con cui Dio si era compiaciuto di colmarlo, fu ordinato sacerdote l\’8-3-1721.
Nello stesso giorno egli fece il voto di non chiedere mai alcun beneficio ecclesiastico, e di non accettarlo a meno che non vi fosse stato costretto dell\’ubbidienza. Risoluto a modellare la sua vita sui decreti del Concilio di Trento, s\’iscrisse all\’associazione dei sacerdoti che era sorta nell\’oratorio del Caravita e cominciò un\’esistenza tutta dedita al ministero sacerdotale, all\’educazione e al sollievo materiale e spirituale dei poveri.
Finché le forze glielo permisero, Giovanni recitò sempre l\’ufficio divino genuflesso: ora con lacrime, ora con affettuosi sospiri. Non celebrò mai la Messa senza prima aver detto Mattutino e Lodi e fatto un\’ora di meditazione pure in ginocchio. Durante il santo Sacrificio il volto gli si accendeva, e dalla consacrazione fino alla comunione, era d\’ordinario assalito da un insolito tremore in tutte le membra di modo che scuoteva persino la predella dell\’altare. Lo straordinario fenomeno era effetto di quella soave dolcezza con cui il Signore gli inondava l\’anima.
Benché non fosse stato ancora autorizzato ad ascoltare le confessioni, due volte la settimana Giovanni si recava al Campo Vaccino (Foro Romano) per preparare ai sacramenti i butteri e i pastori che conducevano il bestiame al mercato. Ben presto s\’iscrisse pure alla Pia Unione di Santa Galla che aveva cura dell\’Ospizio fondato nel 1650 sotto quel titolo dalla famiglia Odescalchi per dare nella notte ricovero ai senza tetto. Per oltre quarant\’anni egli ne frequentò sempre tutti gli esercizi, sia che si praticassero per i poveri nella chiesa di Santa Galla; per i fienaroli nei vari alberghi; per i contadini sulle piazze nei giorni festivi; per i marinai di Ripa Grande nelle domeniche. Nell\’ospizio di Santa Galla non si accontentò di radunare nei giorni stabiliti con un campanello i poveri per l\’insegnamento della dottrina cristiana, ma introdusse la comunione generale una volta il mese e le missioni una volta all\’anno.
La grande pazienza e bontà con cui li trattò, gli conciliò subito la loro venerazione. Lo chiamavano con molto rispetto "il signor maestro". Egli non tollerava che ad essi fossero fatte ingiurie e provava dispiacere quando sentiva qualcuno chiamarli "le birbe di Santa Galla". Avrebbe stabilito volentieri il suo domicilio tra loro, ma non gli fu concesso. Presso la chiesa sorgeva il ricovero per gli uomini, ma non quello per le donne. Il de\’ Rossi vi provvide nel 1731 con il permesso del suo confessore, le offerte di benefattori e l\’aiuto di Clemente XII.
Nell\’esercizio del ministero il santo era mantenuto dal cugino canonico. Per assicurargli un onesto sostentamento, questi lo supplicò un giorno di accettare la coadiutoria al suo canonicato, ma egli, fedele al voto fatto, accondiscese soltanto il 5-2-1735 perché il suo nuovo confessore ve lo aveva obbligato. Quando suo cugino morì (1737), egli si trasferì in un granaio, contiguo a Santa Maria in Cosmedin, che trasformò in abitazione per essere più pronto al servizio della basilica e al coro. A causa di gravi infermità, dopo nove anni fu esortato a trasferirsi nel convitto dei sacerdoti della SS. Trinità dei Pellegrini. Per accrescere il decoro della basilica egli offrì somme di denaro, e per provvedere al sostentamento dell\’organista donò una casa che aveva ereditato dal cugino.
In Santa Maria in Cosmedin era venerata un\’antica immagine della SS. Vergine. Il santo ottenne dai colleghi di terminare il divino ufficio con il canto delle Litanie Lauretane, prostrati dinanzi ad essa, e di preparare il popolo alla festa della natività di Maria, titolare della basilica, con una solenne novena predicata. A motivo delle sue sofferenze Giovanni non aveva mai chiesto la facoltà di ascoltare le confessioni. Il Signore, che voleva che si santificasse nell\’amministrazione del sacramento della penitenza, ispirò a Mons. Giovanni Tenderlini, vescovo di Civita Castellana, presso il quale si era ritirato dopo una grave malattia, di esortarlo a confessare nella sua diocesi durante la convalescenza. Il santo ubbidì e con meraviglia costatò che senza il più lieve incomodo poteva attendere anche a quel ministero. Tornato a Roma approfondì per qualche anno lo studio della morale e poi chiese di essere ammesso all\’esame per le confessioni (1739). In breve tempo Santa Maria in Cosmedin divenne il rifugio dei peccatori tanto era grande l\’attrattiva che il santo esercitava su di loro con la bontà e il dono di leggere nelle coscienze. Essendo obbligato al coro non sempre gli fu possibile rimandare tutti soddisfatti. Ne chiese perciò l\’esenzione al papa per i giorni di maggior concorso. Ciò nonostante più volte fu costretto a ritardare la celebrazione della Messa fìn verso mezzogiorno tant\’era grande la ressa degli artigiani e dei contadini accorsi da ogni parte attorno al suo confessionale.
La carità di Don Giovanni si estese pure ai malati. Soleva egli dire che le sue Indie erano gli ospedali. Per riservare tutto il suo tempo agli infermi, ai poveri e soprattutto ai tisici, non condiscese mai a diventare il confessore ordinario dei nobili e dei ricchi. Ad imitazione di S. Filippo Neri, che tutti i giorni andava a venerare alla Vallicella, confessò i suoi figli spirituali anche quando giaceva a letto malato. Era convinto che la strada più breve e più sicura per andare in Paradiso fosse quella dell\’amministrazione del sacramento della penitenza ai contriti di cuore. Appena sapeva che un malato lo desiderava al proprio capezzale, lasciava magari di pranzare o di dormire per andarlo a consolare e portargli denaro, cibi e vestiti. Sapeva commuovere anche i cuori più induriti ricordando a tutti che la miseria umana costituisce il trono dell\’infinita misericordia di Dio. Sovente gli capitava di passare attraverso il ghetto. Prima di entrarvi recitava il Credo e poi sospirava, compassionando la cecità degli ebrei: "Ah, poverelli! Ah, poverelli!".
Non minore carità il de\’ Rossi mostrò verso i carcerati che divennero suoi amici e suoi penitenti. Quando Benedetto XIV fu eletto papa, volle che una volta la settimana Giovanni istruisse pure gli sbirri, prima nell\’oratorio della Congregazione delle Cinque Piaghe di nostro Signore, e poi nell\’oratorio di Santa Maria del Pianto. Il santo accettò di diventare il loro predicatore a condizione che non gli fosse assegnato compenso alcuno, volendo sovraspendersi soltanto per la maggior gloria di Dio e il bene delle anime.
I superiori ecclesiastici apprezzarono lo zelo indefesso del santo canonico e più volte lo incaricarono di dettare gli esercizi spirituali nei monasteri e nelle case religiose, e di dispensare la parola di Dio dai pulpiti delle chiese di Roma o di tenervi catechismi in preparazione al precetto pasquale. Benché godesse poca salute e abitualmente fosse sofferente nel capo, egli giunse a fare cinque o sei discorsi in un giorno su differenti argomenti con chiarezza e unzione- Per molti anni si recò pure a predicare le missioni nei feudi più abbandonati dei nobili romani, come pure nel Lazio, nell\’Umbria e nell\’Abruzzo. Ebbe modo di convertire innumerevoli peccatori e di costatare i tristi effetti che produceva nei fedeli la mancanza di zelo nei pastori. Cercò quindi di promuovere nel clero secolare lo spirito della loro vocazione con la preghiera, l\’esempio, le private esortazioni, i ritiri e le conferenze spirituali.
Quantunque il santo si affaticasse tanto a vantaggio spirituale e materiale del prossimo, si riteneva un servo inutile. Nel 1763 una estrema debolezza nelle gambe e un totale sfinimento ne fecero prevedere la fine. Persone amiche lo condussero a respirare aria più salubre ad Ariccia (Roma), ma egli preferì ritornare al convitto della SS. Trinità dei Pellegrini, dove morì dopo parecchi attacchi di apoplessia il 23-5-1764. I funerali furono fatti a spese dei convittori perché il defunto aveva distribuito tutti i suoi averi ai poveri. Dal cugino canonico aveva ereditato un discreto patrimonio, ma egli se n\’era servito per comperare agl\’indigenti letti, cibo e vestiti. Sovente si era ridotto a vivere con l\’aiuto di conoscenti perché nel fare elemosina non conobbe limiti. Gli capitò di non potere disporre di denaro, e allora ai poveri egli donò il proprio letto, le scarpe e persino i calzoni.
Pio IX beatificò il De Rossi il 2-8-1859 e Leone XIII lo canonizzò l\’8-12-1881. Le sue reliquie sono venerate nella chiesa della SS. Trinità dei Pellegrini a Roma.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 5, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 276-280
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