Nacque in Sardegna tra la fine del III e l'inizio del IV secolo e fu il primo vescovo del Piemonte. Durante gli studi ecclesiastici a Roma si fece apprezzare da papa Giulio I che lo nominò vescovo di Vercelli. I vercellesi vennero conquistati dalla sua arte oratoria: parlava bene ed esprimeva ciò che sentiva dentro. Si attirò così l'ostilità degli ariani e dello stesso imperatore Costanzo che lo mandò in esilio. Nel 362 ebbe finalmente la possibilità di ritornare a Vercelli dove riprese l'evangelizzazione istituendo la diocesi di Tortona. La tradizione lo considera anche fondatore di due noti santuari: quello di Oropa e di Crea. Nel 371 la morte lo colse nella sua città episcopale, che ne custodisce tuttora le reliquie nel Duomo.
Il celeste Patrono del Piemonte, dichiarato tale nel 1961 da Giovanni XXIII, nacque in Sardegna forse all'inizio del quarto secolo o alla fine del terzo. Non sappiamo nulla dei suoi genitori. Se da giovane si mise a viaggiare è segno che apparteneva ad una famiglia benestante. Ignoriamo quale motivo l'abbia indotto a stabilirsi definitivamente a Roma. Forse il battesimo ricevuto in età avanzata? Sotto il pontificato di Giulio I fu ordinato Lettore della Chiesa, collega del futuro papa Liberio nel compito di leggere dall'ambone, durante le adunanze liturgiche, i passi dei Libri santi.
Finché rimase a Roma, unendo l'austerità ascetica al servizio ecclesiastico, Eusebio non ricevette altri sacri ordini. Dovette conoscervi S. Atanasio, vescovo di Alessandria d'Egitto, colà rifugiatesi dal 339 al 342 in seguito alle violente persecuzioni degli ariani, protetti dall'imperatore d'Oriente, Costanzo, e dalla viva voce di lui apprendere la storia dei monaci della Tebaide.
A quei tempi in Piemonte esistevano fiorenti comunità cristiane, isolate in mezzo alla popolazione pagana delle campagne e dei monti. Per coordinare quei centri di credenti e convertire al Vangelo tutta la vasta regione, nella primavera del 342, a Milano, Protasio, vescovo della città, e i messi di Giulio I proposero a Costante, imperatore d'Occidente, la creazione di un vescovado a Vercelli. Con i messi pontifici mandati prima a Milano e poi a Vercelli a trattare l'erezione della nuova diocesi, Giulio I aveva inviato da Roma anche il lettore Eusebio, forse con la segreta speranza che l'esemplare uomo di Dio venisse eletto a quella sede.
Effettivamente, benché d'origine straniera e sconosciuto da tutti, la comunità di Vercelli rimase soggiogata dall'ascetica figura di lui e subito, per acclamazione, lo preferì ai propri concittadini.
Eusebio fu consacrato a Roma dallo stesso sommo pontefice. La sua diocesi abbracciava un vastissimo territorio dalle Alpi a Milano e a Pavia, in cui prevaleva con la divinazione, l'astrologia, la magia, il politeismo romano e il culto degli antichi celti. Costoro veneravano divinità femminili dette "Matrone", cui erano sacri grossi massi erratici soprannominati "le barme". Ad esse la gente rude attribuiva virtù speciali per la fecondità sia umana che animale. Poiché Costante, di sentimenti cattolici, contrariamente al fratello Costanzo, era alieno dall'ingerirsi negli affari interni della Chiesa, lo zelante pastore poté procedere ad una razionale organizzazione del suo territorio istituendo le "pievi" o "plebi", vere chiese madri, dirette da ecclesiastici qualificati, con il compito di estendere progressivamente la loro azione sui villaggi circostanti rimasti pagani. Per eliminare il paganesimo egli svolse un'azione pastorale analoga a quella sperimentata dai suoi contemporanei: S. Martino di Tours, S. Gaudenzio di Brescia, S. Gaudenzio di Novara, S. Vigilie di Trento, S. Massimo di Torino: abbattere i templi, gli idoli, gli oggetti della superstizione e sostituirli con oratori cristiani vigilati da qualche monaco o ecclesiastico.
Eusebio soprattutto predicò un po' ovunque. Di lui scrisse S. Massimo di Torino: "Con l'arte dell'angelica bocca restituì la vista spirituale ai ciechi erranti, l'udito agl'incapaci di udire la voce di Dio, la santità alle anime ferite dal peccato, la vita agli spiriti morti per i loro delitti; dai cuori occupati dall'iniquità fugò la lussuria, depresse l'ira, estinse l'invidia. Egli coltivò e formò le coscienze con tale alacrità e perseveranza che non se ne può parlare che in modo degno e conveniente". Per disperdere il paganesimo non bastavano di certo le sue sole forze. Perciò fin dall'inizio dell'episcopato, per formarsi validi e numerosi collaboratori, fondò il cenobio, una specie di seminario in cui i giovani alunni venivano preparati al sacerdozio con lo studio, la preghiera corale e la pratica dell'ascesi cristiana. In esso coabitavano il vescovo e gli ecclesiastici anziani, sempre pronti ad assistere i fedeli sia della città che del territorio diocesano conforme agli statuti scritti dal fondatore e poi andati perduti. Con questo mezzo Eusebio ebbe la consolazione di vedersi circondato da un clero zelante e capace. Per l'introduzione della vita comune nel suo clero, i Canonici Regolari lo hanno venerato, con S. Agostino, come il fondatore del loro Istituto. Il santo pastore provvide pure all'erezione di un cenobio femminile, di stretta clausura, di cui sua sorella Eusebia fu la prima superiora.
Oltre che il paganesimo, il primo vescovo di Vercelli dovette combattere, al tempo di papa Liberio, succeduto nel 352 a Giulio I, anche l'eresia di Ario, prete di Alessandria d'Egitto, il quale sosteneva che il Verbo, fattosi carne, è soltanto una creatura di Dio, non la seconda persona della SS. Trinità, uguale al Padre e allo Spirito Santo. A simile errore, solennemente condannato nel concilio ecumenico di Nicea (325), si era opposto con tutte le forze S. Atanasio. Alla morte di Costantino il Grande (+337) i suoi figli Costante e Costanze avevano assunto atteggiamenti opposti nei riguardi di quest'eresia. Appena Costanzo, alla morte del fratello (+350), rimase unico capo dell'impero, volle imporre con la forza l'arianesimo anche all'occidente. Nel Concilio di Arles (353), in Francia, tutti i vescovi presenti, fatta eccezione di Paolino di Treviri, e persino i legati pontifici, firmarono i decreti di condanna di Atanasio, intimoriti dalla presenza dell'imperatore. Papa Liberio, indignato di quel risultato, supplicò Eusebio di interporre i suoi buoni uffici col focoso Lucifero di Cagliari e i legati romani presso l'imperatore, di stanza a Milano, perché fosse convocato un nuovo concilio in cui le questioni concernenti la fede e le persone dei vescovi fossero trattate con maggiore libertà e regolarità.
Il Concilio si aprì a Milano (355), ma Eusebio, temendo un duplicato degli avvenimenti di Arles, non intervenne. Oltre che i legati pontifici e i capi del concilio, lo stesso imperatore lo invitò a prendervi parte d'urgenza, mostrando così quale importanza annetteva alla sua adesione. Il santo gli rispose che avrebbe ubbidito ai suoi ordini, ma promise che avrebbe fatto tutto quello che gli sarebbe parso giusto e gradito al Signore. A Milano ricevette l'intimazione di firmare il decreto di condanna di Atanasio assente. Eusebio promise che avrebbe fatto tutto quello che i capi del concilio gli avrebbero chiesto se prima i vescovi, presenti in quella chiesa, avessero firmato la formula di fede nicena. Gli ariani, furenti, si opposero alla proposta di lui, e tra il tumulto dei fedeli indignati sospesero la sessione. Quando i vescovi tornarono a riunirsi, ricevettero l'ordine di recarsi nel palazzo reale, dove la loro assemblea fu presieduta dall'imperatore in persona. Dovendo scegliere tra la condanna di Atanasio e l'esilio, i membri del Concilio uno dopo l'altro chinarono la testa, fatta eccezione di Eusebio di Vercelli, Dionigi di Milano, Lucifero di Cagliari e i due legati papali i quali furono esiliati all'istante.
Eusebio, con alcuni alunni del suo cenobio, fu relegato a Scitopoli (355), nella Decapoli (Palestina), sede del vescovo Patrofìlo, uno dei primi e accaniti ariani. In principio trovò ospitalità presso un giudeo convertito, Giuseppe, che da Costantino aveva ricevuto il titolo di conte. Quando Patrofilo ritornò dal concilio milanese gli fu imposto di trasferirsi in un'altra casa. Poi il suo aguzzino cercò d'indurlo in tutti i modi ad aderire all'errore. Fallite le minacce, ricorse alla persecuzione facendolo rinchiudere più volte in una cella e lasciandovelo per diversi giorni senza cibo e senza bevanda. I messi di lui un giorno lo trascinarono fuori della dimora e dopo averlo percosso a sangue, lo abbandonarono seminudo e quasi esanime per terra. Alle sofferenze del corpo si aggiunsero quelle dello spirito. Per lungo tempo infatti ignorò la sorte del gregge che aveva dovuto abbandonare finché un giorno giunsero a Scitopoli il diacono Siro e l'esorcista Vittorino a rassicurarlo che a Vercelli non si era insediato nessun vescovo ariano, e che il clero ed il popolo gli erano rimasti fedeli.
Quando Siro ripartì, Eusebio gli consegnò una lettera di esortazione al clero e al popolo di Vercelli, Novara, Ivrea e Tortona a perseverare sul rotto cammino.
Verso il 360, forse in seguito alla morte di Patrofilo, l'intrepido difensore della fede fu trasferito in una imprecisata città della Cappadocia, nell'Asia Minore. Ma dopo poco tempo egli dovette rimettersi in cammino per la Tebaide, ai confini dell'alto Egitto. Di là egli scrisse a Gregorio, vescovo di Elvira (Spagna), per felicitarlo del fermo atteggiamento contro Osio di Cordova, il quale, già vecchio, si era lasciato indurre ad aderire all'eresia. Per conto suo egli affermava: "Desideriamo perdurare nelle sofferenze affinchè possiamo essere glorificati nel regno celeste". Ma esse non durarono più a lungo perché nel novembre del 361 morì in Cilicia Costanzo e suo cugino, Giuliano l'apostata, che gli successe, per motivi politici permise che tutti i vescovi esiliati ritornassero alle loro sedi.
Atanasio approfittò subito della favorevole misura per convocare (362) un concilio ad Alessandria e così guarire le ferite inferte alla Chiesa.
Invitò a prendervi parte, oltre i vescovi dell'Egitto, anche parecchi stranieri, confessori della fede, già sulla via del ritorno. Eusebio, insieme con Atanasio e Asterie di Perca, vi esercitò una parte preponderante nel riconfermare la fede nicena e nel disporre che gli erranti fossero sottoposti alla penitenza canonica. Dovunque passò, da Antiochia all'Asia Minore, alla Tracia, all'Illirico, all'Italia, egli pubblicò le decisioni di quel concilio, e lavorò a ristabilire la pace e la fede nelle cristianità incontrate sul suo cammino.
S. Girolamo scrisse: "Al ritorno di Eusebio l'Italia depose le vesti del lutto". L'incontro a Roma con papa Liberto fu molto commovente per entrambi. Al capo della chiesa Eusebio riferì, oltre che sul concilio celebrato ad Alessandria, anche sul declino dell'eresia nell'oriente. A Vercelli fu ricevuto in trionfo (363). Il popolo gli andò incontro piangendo ed esclamando: "Sia benedetto il Signore Dio nostro che ti restituì alla nostra chiesa!… Ti assicuriamo che abbiamo conservato integro il patrimonio della fede come tu ce l'hai insegnata a viva voce e confermata con lettere dall'esilio". Ripreso il governo della sua vastissima diocesi, il santo continuò a combattere gli ultimi resti dell'arianesimo. Alcuni anni dopo il ritorno, egli si unì a S. Ilario di Poitiers nella lotta contro Ausenzio, vescovo ariano di Milano. Essendo protetto dall'imperatore Valentiniano I, benché aderente personalmente all'ortodossia, dovettero desistere finché alla sua morte fu eletto Ambrogio.
E' tradizione costante e solida che Eusebio dall'oriente abbia portato con sé il Simulacro della Madonna nera di Oropa, che raffigura il mistero della Purificazione di Maria e della Presentazione di Gesù al Tempio. Per vincere in quella valle i resti del paganesimo, per sostituire al culto delle deità femminili, residenti secondo le credenze celtiche nei massi erratici, il culto della Madre di Dio, Eusebio avrebbe fatto deporre il venerato simulacro sotto uno di quei massi, i cosiddetti "Roc della vita", che ancor oggi porta scolpita la data 369 con molte rozze croci. In seguito Eusebio sistemò definitivamente la statua della Madonna nell'attuale sacello che misura all'interno m. 3,30×3, costruito presso altri massi, segnati anch'essi d'antiche rozze croci, dai pellegrini dei tempi andati. A custodia del sacello, presso il quale amava ritirarsi in solitudine e in preghiera, a istruzione e assistenza dei pellegrini, dei pastori e dei viandanti, egli lasciò alcuni discepoli. Il ritiro di Oropa diede origine a due diverse residenze eremitiche sotto la giurisdizione religiosa della pieve di Santo Stefano di Biella. Verso la metà del secolo XV essi scomparvero, e allora papa Pio II affidò il Santuario ai canonici della medesima, com'è tuttora.
Eusebio morì a Vercelli il 1-8-371. La Chiesa latina lo venera come martire perché ebbe molto a soffrire da parte degli ariani.
Nella basilica di Oropa si conserva, entro artistico reliquiario d'argento, un osso di S. Eusebio che viene offerto al bacio dei fedeli ad ognuna delle tradizionali processioni delle parrocchie biellesi che si compiono da maggio a settembre. Nel 1730 il vescovo di Vercelli, il cardinale Vincenzo Ferrerò, consacrò l'altare del sacello della Madonna di Oropa riponendovi al centro anche una reliquia di S. Eusebio e di S. Stefano. Nell'agosto del 1960 il vescovo di Biella, Mons. Carlo Rossi, consacrò solennemente la chiesa nuova che sorge sopra l'antico santuario, e sigillò sulla mensa dell'altare maggiore ancora una reliquia di S. Eusebio, concessa espressamente dall'arcivescovo e dal Capitolo della cattedrale di Vercelli, nella quale sono venerate le reliquie del santo.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 8, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 23-27.
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