S. CRISPINO DA VITERBO (1668-1750)

Nacque a Viterbo il 13-11-1668. Dopo la professione religiosa, nel 1696, il santo fu mandato al convento di Tolfa (Roma) dove gli venne affidato l\’ufficio di aiuto cuciniere. Come programma della sua attività, scelse il motto di S. Bernardo di Chiaravalle; "Povertà e pulizia". In un angolo della cucina innalzò un altarino in onore della Madonna, l\’adornò di fiori e sostava davanti ad esso per cantare le litanie e recitare devote orazioni insieme con due confratelli. Dedicandosi alla questua, la principale preoccupazione del santo non era tanto quella di procurare ai suoi confratelli i necessari mezzi di sussistenza, quanto di sovvenire alle necessità delle famiglie ridotte in miseria, o divise da odi, delle prostitute, delle ragazze madri, dei bimbi esposti, delle vedove, dei peccatori, dei malati e dei carcerati. Morì difatti il 19 maggio 1750 e fu sepolto nella chiesa di S. Maria della Concezione. Fu beatificato da Pio VII il 26-8-1806 e canonizzato da Giovanni Paolo II il 20-6-1982.

A Viterbo spetta l\’onore di avere dato i natali a questo umile fratello laico cappuccino il 13-11-1668. Il padre, Ubaldo Fioretti, povero ciabattino, e la madre, Marzia, che aveva già avuto un figlio da un precedente matrimonio, impartirono al loro rampollo, al quale nel battesimo imposero il nome Pietro, un\’educazione profondamente cristiana. Il santo non aveva che cinque anni quando fu condotto dalla mamma al vicino santuario della Madonna della Quercia e a lei consacrato.
La badessa del monastero di Santa Rosa, per sollevare i Fioretti dalla loro povertà, ogni tanto affidava a Marzia lavori di cucito. Pietro si recava con lei al monastero e si fermava a pregare con tanta devozione davanti all\’urna contenente le spoglie mortali della santa, da meritare dalle religiose l\’appellativo di "santarello". Una volta il piccino rispose loro: "Voi vi burlate di me, ma può essere che un giorno Dio faccia sul serio".
Dopo avere frequentato le scuole elementari allora dirette dai Padri Gesuiti, il santo imparò a fare il calzolaio nella bottega di uno zio paterno. Quando riceveva in regalo qualche soldo correva di buon\’ora in Piazza delle Erbe e li offriva alla fioraia dicendo: "Pagatevi bene, ma datemi i fiori più belli che avete perché devo portarli a una grande Signora". E correva a deperii sull\’altare della Madonna. Per conoscere la sua vocazione fece ricorso alla preghiera e alla penitenza. Lo zio in principio lo contrariò, ma poi disse a Marzia: "Lasciatelo pure digiunare; a buon conto è meglio avere in casa un giovane santo e magro, che pingue e malvivente".
Un anno Viterbo fu colpita dalla carestia. Per ottenere la cessazione del flagello, per le vie della città fu organizzata una processione di penitenza alla quale prese parte anche un gruppo di fraticelli. Pietro rimase tanto colpito dal loro devoto atteggiamento che decise di farsi francescano pure lui. Questo proposito dovette coltivarlo a lungo perché aveva letto la regola minoritica e ne portava addosso un piccolo esemplare. P. Angelo da Rieti, Provinciale dei Cappuccini, lo ammise al noviziato della Palanzana, di cui stava facendo la visita, ma il P. Guardiano lo avrebbe rimandato volentieri in famiglia perché appariva piccolo di statura, smilzo di vita, macilento e di un colore olivastro. Il santo lo supplicò: "Provatemi almeno per qualche mese; spero con l\’aiuto di Dio e della Vergine SS. di ben servirvi quanto ogni altro novizio". Soddisfatto nel suo desiderio, Pietro, dopo venti giorni di ansie, in memoria del patrono dei calzolai, prese il nome di Fra Crispino, e si applicò subito con ardore ai più gravosi compiti del convento quali zappare l\’orto, andare alla questua, aiutare in cucina, curare i malati. Un padre cappuccino si vide assistito da lui con tanta amorevolezza che non poté fare a meno di esclamare: "Questo frate Crispino non è un novizio, ma un angelo!".
Dopo la professione religiosa (1696) il santo fu mandato a piedi al convento di Tolfa (Roma) dove gli venne affidato l\’ufficio di aiuto cuciniere. Come programma della sua attività, scelse il motto di S. Bernardo di Chiaravalle; "Povertà e pulizia". In un angolo della cucina innalzò un altarino in onore della Madonna, che chiamava sua "Madre e Signora", l\’adornò di fiori e, nelle feste a lei dedicate, sostava davanti ad esso per cantare le litanie e recitare devote orazioni insieme con due confratelli che aspiravano al sacerdozio.
La fama di santità di Fra Crispino non tardò a propagarsi fra gli abitanti del paese. Essendo scoppiata un\’epidemia, cadde malata anche una benefattrice del convento. Confidando molto nelle preghiere di Fra Crispino, costei espresse il desiderio di averlo al proprio capezzale. Per ordine del P. Guardiano il santo vi andò, ma l\’inferma, invece di accontentarsi delle buone parole di lui, pretese di essere guarita. L\’umile fraticello se ne schermì quanto più poté, poi, cedendo alla mozione dello Spirito Santo, la segnò sulla fronte con la medaglia dell\’Immacolata e all\’istante la malata guarì. Ne seguì quasi una specie di tumulto perché tutti volevano essere benedetti dal discepolo di S. Francesco. Questi avrebbe preferito restarsene ritirato nel convento, invece l\’ubbidienza lo costrinse a trasformarsi in pietoso samaritano e in angelo consolatore. Prima di recarsi presso i contagiati, Fra Crispino riempiva la sporta di olive conce, di castagne o di frutta secca, poi si prostrava davanti al quadro della Madonna e così la pregava: "Vergine santa, benedici questi frutti: io li porto per qualche refrigerio ai poveri febbricitanti; fa\’ che ne venga bene e non male". Innumerevoli furono i malati da lui guariti dando loro da baciare una medaglia o da mangiare un frutto, tanto che la gente diceva: "Valgono di più le olive e le frutta di Fra Crispino, che tutte le ricette del mondo".
Dopo l\’epidemia Fra Crispino fu trasferito a Roma, nel convento di Santa Maria della Concezione, in via Vittorio Veneto, dove per alcuni mesi fu incaricato della cura degli infermi e quindi della fabbricazione della lana. In seguito fu mandato a fare il cuoco nel convento di Albano Laziale (Roma). Egli ne fu tanto contento che non poté fare a meno di dire ai confratelli: "Viva il Signore e viva la Vergine! I superiori finalmente hanno capito che io non sono bestia da stare all\’ombra, essendo freddo nell\’amor di Dio e nella carità verso il prossimo, ma che ho bisogno del caldo o del fuoco o del sole, o alla cucina o all\’orto".
Nel convento di Albano (1696-1700) alla povertà e alla pulizia il santo unì anche la letizia francescana. Nel bosco del convento d\’estate accorrevano i romani a respirarvi aria pura e fresca. Per avvicinarli e fare gustare loro anche le gioie dello spirito, Fra Crispino, sull\’esempio di S. Francesco, s\’improvvisò giullare del buon Dio. Con edificante semplicità costruiva altarini in onore della Madonna e intonava canzoni in onore di colei che chiamava la sua "Madre e Signora dell\’anima", componeva versi e recitava poesie, specialmente brani della Gerusalemme Liberata.
Un confratello un giorno lo rimproverò per quel suo modo di agire, ritenendolo poco conveniente al suo stato, ma egli gli rispose: "Il pesce non va all\’amo del pescatore se non vi vede qualche cibo di suo gusto che lo attiri e lo alletti. Le nostre penitenze e cilizi sono aspetti della nostra vita disgustosi e non compresi dai secolari i quali se ne infastidiscono e molto più dai villeggianti che vengono in Albano a ricrearsi. Queste ottave del Tasso e altre poesie, con l\’aggiunta di qualche discorso spirituale, produrranno del bene nell\’anima di chi ascolta: sempre, però, con l\’aiuto di Dio e della sua gran Madre".
Sovente andava a villeggiare ad Albano il cardinale de la Trèmoille, ministro di Francia. Siccome soffriva d\’inappetenza e d\’insonnia, il santo lo guarì dandogli da mangiare alcuni funghi che aveva posto davanti all\’altare della Madonna. Offrendoglieli disse: "Signor cardinale, questi sono funghi sicuri e salutiferi perché benedetti dalla SS. Vergine; mangiatene pure di buon animo e lasciate cantare i medici, perché senz\’altro rimedio tornerete in forza e in sanità perfetta".
Lo stesso papa Clemente XI, andando al convento per l\’offerta della cera, non mancò di mostrare la sua benevolenza a Fra Crispino intrattenendosi con lui su gravi affari della Chiesa. Un giorno gli consegnò di propria mano due candele affinchè le accendesse davanti all\’altare della Madonna e la pregasse per le necessità degli uomini. Un\’altra volta, di ritorno dal santuario di Gallerò, gli consegnò numerosi tordi e gli ordinò di cucinarli per i confratelli.
Di tanto onore Fra Crispino si turbò. Stimandosi un nulla disse al P. Bernardino Catastini da Arezzo, generale dell\’Ordine: "Per fuggire la vanità e la superbia S. Ilarione volle mutare il deserto, e adesso per lo stesso motivo Fra Crispino vuole mutare convento. Egli operò secondo lo Spirito di Dio, ed io ne prendo esempio".
A piedi, con la sporta sotto il braccio, si portò al convento di Monterotondo. Nei due anni che vi rimase fu addetto alla coltivazione dell\’orto. Sua prima preoccupazione, però, fu di innalzare in un luogo remoto una capannuccia e collocarvi la sua Madonna per potersi ritirare sovente davanti ad essa a pregare. Nelle feste coglieva una maggiore quantità di erbaggi e li consegnava al portinaio perché li distribuisse ai poveri. Quando qualche confratello della Provincia romana si ammalava per le epidemie frequenti a quei tempi, egli correva ad assisterlo. A chi cercava di trattenerlo, per il timore del contagio, rispondeva che si recava tra gli infetti in compagnia di un protomedico, e che era provvisto di un vaso di ottima triaca. Il protomedico era S. Francesco, e la sua triaca era l\’ubbidienza la quale, secondo lui, "toglieva l\’aria cattiva".
Nemico dell\’ozio, il santo aveva sempre desiderato e ottenuto dai superiori di occuparsi dei lavori più faticosi e umili. Non stupisce perciò che nel Capitolo provinciale del 1702 sia stato destinato al convento di Orvieto con l\’incarico soprattutto della questua. Vi rimase quasi quarant\’anni edificando tutti con i suoi esempi e con le sue arguzie. Entro le mura della città il santo disponeva di un piccolo ospizio in cui pernottava con il confratello che lo accompagnava nella questua. Il convento era lontano dall\’abitato. In pratica egli trascorreva la vita confuso tra la gente con la quale prendeva parte alla Messa, ai funerali e alle varie funzioni che si svolgevano nelle chiese della città. Venne in tale maniera a conoscenza delle vicende ora liete, ora tristi di tutte le famiglie di cui, però, quando tornava in convento non parlava. Con i confratelli era taciturno. Nelle ricreazioni si faceva appena vedere. Spariva quasi subito dopo avere scambiato con i presenti qualche parola di buona creanza.
Prima di uscire dall\’ospizio a piedi scalzi, a capo scoperto anche d\’inverno per rispetto alla presenza di Dio, con la corona in mano, Fra Crispino cantava l\’Ave Maris stella. La sua questua di solito durava poco perché si accontentava del necessario. Se qualche benefattore lo sforzava ad accettare il superfluo, lo riprendeva facetamente: "E che? Volete essere solo ad andare in paradiso? Date modo anche agli altri di fare l\’elemosina. Quando ne avrò bisogno, ve la domanderò". A chi gli offriva qualche ristoro, rispondeva: "Un\’altra volta, non è questa la giornata". E la sua giornata non veniva mai. A chi lo compassionava per le fatiche alle quali doveva sobbarcarsi rispondeva allegramente: "Quando vuoi patire per amore di Dio, quando sei morto?" oppure "quando sei nel pilozzo?" (cioè nella fossa de cimitero).
La principale preoccupazione del santo non era tanto quella di procurare ai suoi confratelli i necessari mezzi di sussistenza, quanto di sovvenire alle necessità delle famiglie ridotte in miseria, o divise da odi, delle prostitute, delle ragazze madri, dei bimbi esposti, delle vedove, dei peccatori, dei malati e dei carcerati. Per rimediare ai loro mali Fra Crispino, oltre che attingere alla sua bisaccia, faceva ricorso al vescovo, alle autorità civili, ai suoi benefattori tra cui si distinguevano il Card. Colonna-Sciarra e le principesse Borghese e Barberini. Nei casi più disperati egli non esitò a chiedere il diretto intervento di Dio. A tanti infermi ridonò la salute con un semplice segno di croce, e a diversi bisognosi moltiplicò il pane, il vino e l\’olio.
Al termine della questua, la visita ai malati e ai carcerati faceva parte delle quotidiane occupazioni del santo cappuccino. Pregava per tutti i sofferenti e consolava tutti gli afflitti che ricorrevano a lui, A tanti carcerati ottenne che fossero affrettati i tempi del processo, ad altri che fossero rimessi in libertà. Non bastandogli di offrire a quegli infelici pane, castagne e una presa dì tabacco, impegnò numerose famiglie a dare loro, a turno, il pranzo. Negli anni di carestia raccoglieva generi di prima necessità in case di amici e li faceva distribuire ai poveri, che si presentavano ad essi muniti di un suo biglietto. Il santo stesso in convento coltivava in un orticello ogni specie di verdure per fame dono sia ai poveri e sia ai benefattori. Diceva ai confratelli che Dio avrebbe provveduto in abbondanza alle loro necessità qualora avessero tenute aperte due porte; quella del coro per la maggior gloria di Dio, e quella del convento per il soccorso ai bisognosi. Era convinto che la maggior parte delle miserie che quotidianamente contemplava erano dovute all\’ingiustizia. Perciò, lui così mite, insorgeva con sdegno contro coloro che defraudavano la giusta mercede agli operai.
Fra Crispino era un religioso di mente aperta e vivace. Nelle ore che gli restavano libere dagli impegni, leggeva, meditava o prendeva parte ai sacri riti che si svolgevano nelle varie chiese di Orvieto. Avendo una memoria di ferro, era in grado di ripetere ai ragazzi e ai contadini che incontrava la sera per la campagna al termine della questua le prediche che aveva ascoltato. I parroci dei vari paesi ne erano entusiasti e lo chiamavano "l\’apostolo e il missionario della montagna". Molti facevano ricorso a lui perché aveva un\’arte speciale nel mettere pace tra contendenti. Per questo il vescovo di Orvieto lo soprannominò "Frate paciere".
Essendo da tutti ritenuto un operatore di prodigi e un profeta, quando Fra Crispino compariva in strada i bambini gli correvano incontro per fargli festa, baciargli il mantello consunto dall\’uso e chiamarlo "San Crispino". Un giorno a Montefiascone (Viterbo) appena il popolo scorse l\’umile cappuccino, gli si precipitò addosso per tagliuzzargli il mantello e farne reliquie. Confuso per tanta venerazione il santo gridò indignato: "Ma che fate, o povera gente! Quanto sarebbe meglio che tagliaste la coda a un cane!… Siete diventati matti? Tanto fracasso per un asino che passa! Andate piuttosto in chiesa a pregare Iddio!".
Ciò nonostante al santo non mancarono le incomprensioni e le umiliazioni. In Orvieto alcuni sacerdoti e laici non credevano nella sua virtù e, senza riguardo alcuno, gli gridavano in faccia: "Sei un ipocrita!". Ci fu persino chi attentò alla sua purezza facendolo insidiare da due donne di facili costumi. Nel monastero delle Convertite una religiosa lo insulto per oltre trent\’anni ogni volta che lo vide alla porta a questuare. Neppure in convento Fra Crispino andò esente da recriminazioni da parte e dei superiori e dei confratelli. Lo ritenevano incapace di provvedere, come si conveniva, ai bisogni della comunità o perché il pane era troppo raffermo o perché nel vino aggiungeva troppa acqua. Il santo, pur essendo dotato di un temperamento focoso, taceva e dissimulava nelle cose avverse o spiacevoli, ma soffriva interiormente nel costatare la poca mortificazione dei figli di S. Francesco. Più di una volta fece notare a chi si lagnava delle inevitabili pene della vita comune che le croci dei religiosi sono dì "paglia" in confronto a quelle dei secolari che sono di "ferro". Praticava personalmente quanto suggeriva agli altri. Un giorno disse a un confratello: "Se vuoi vivere contento nella comunità religiosa devi sapere soffrire, tacere e pregare". A un altro, che si era adirato contro il P. Guardiano, disse con una certa vivacità; "Paesano, se vuoi salvarti l\’anima, devi amare tutti, dire bene di tutti e fare del bene a tutti".
Alla considerazione dei dolori del Figlio di Dio e della sua SS. Madre, Fra Crispino detestava ogni genere di peccato in sé e negli altri, e per ripararlo digiunava e faceva uso di cilici, A contatto del popolo si adoperava con tutte le forze perché evitasse la bestemmia, l\’ingiustizia, l\’odio, e aiutava i bisognosi perché non fossero indotti dalla miseria a rubare o a cadere nella disperazione. Concludeva le sue ammonizioni dicendo: "Tutti dobbiamo amare Dio: chi non ama Dio è un pazzo". E sospirava: "Oh Signore, perché tutto il mondo non ti conosce e non ti ama?".
Nell\’inverno del 1747 Fra Crispino fu colpito da reumatismi, podagra e chiragra, oltre che da un\’altissima febbre. Essendo impossibile assisterlo convenientemente nell\’ospizio di Orvieto, il 13 maggio del 1748 i superiori lo fecero trasferire segretamente in calesse a Roma, nel convento di S. Maria della Concezione, Appena si rimise un poco in salute, i suoi estimatori ne approfittarono per chiamarlo al capezzale dei malati. I nobili gli mettevano a disposizione le loro carrozze, ma Fra Crispino preferiva andare a piedi perché, diceva, "così stava bene all\’asino di S. Francesco". A diversi infermi dovette ridare la salute perché nell\’infermeria, dove risiedeva, alcuni malevoli confratelli gli affibiarono il nomignolo di \’"santo mangia miracoli". E risaputo che alla principessa Barberini, la quale voleva vedere subito guarito il figlio Carlo, rispose: "Eh, non ti basta che guarisca nell\’Anno Santo?… Vuoi forse pigliare il Signore per la barba? Bisogna ricevere da Dio le grazie quando lui le vuole fare".
Di solito Fra Crispino accoglieva in chiesa, accanto alla porta, le persone che facevano a lui ricorso. Poiché la processione dei romani non diminuiva mai, un giorno se ne lagnò con il suo concittadino, il P. Angelo da Viterbo, dicendo: "Oh Dio! Io non so come tanta gente venga a me d\’intorno: io non sono santo, io non sono profeta".
Il 13-5-1750 il santo fu colpito da polmonite. Appena l\’infermiere lo avvertì che si approssimava la sua fine, esclamò; "Quale gioia, quando mi dissero: "Andremo alla casa del Signore" (SI. 122,1). Tuttavia lo assicurò che non sarebbe morto ne il 17, ne il 18 maggio, "per non turbare la festa di San Felice da Cantalice". Morì difatti il 19 maggio dopo aver respinto un furioso assalto del demonio dicendogli: "Brutta bestia, tu hai niente a che fare con me; io confido nella misericordia di Dio e nella protezione di Maria SS., mia Signora e Madre, e nell\’assistenza del mio serafico Padre, S. Francesco".
Una folla enorme di romani accorse a venerare la salma del suo più grande benefattore e a farle toccare oggetti di devozione. Fra Crispino fu sepolto nella chiesa di S. Maria della Concezione dove già si veneravano le reliquie di S. Felice. Fu beatificato da Pio VII il 26-8-1806 e canonizzato da Giovanni Paolo II il 20-6-1982 a conclusione dell\’ottavo centenario della nascita del Poverello d\’Assisi. In quell\’occasione le sue reliquie furono traslate a Viterbo nella chiesa dei Padri Cappuccini.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 5, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 244-251
http://www.edizionisegno.it/