La vigilia del Natale 1542, Caterina vide il “piccolo Bambolino” posto sul fieno tra due animali. S. Tecla, che accompagnava la Vergine Maria, le presentò allora tre corone: una di spine, una d’argento e l’altra d’oro. Caterina, con un pianto dirotto, s’inchinò subito a ricevere la corona di spine per rassomigliare di più al celeste bambino che aveva stretto al seno e coperto di baci. A breve distanza da quella visione il capo verginale della santa fu visto imporporarsi di tracce sanguigne in forma di spine, e la spalla destra di lei apparve solcata da una lividura larga tre dita scendente a metà del dorso. Un giorno del 1543, dopo la comunione, appena rientrata in cella, Caterina fu riscossa dalla voce del Crocifisso. Si era staccato dal legno del suo supplizio, fitti ancora i chiodi nelle mani e nei piedi, per andarle incontro, abbracciarla, e raccomandarle tre solenni processioni nel monastero per implorare misericordia sui trascorsi degli uomini.
Questa grande mistica domenicana nacque a Firenze il 25-4-1522 dal primo matrimonio del nobile Pier Francesco de’ Ricci con Caterina Firidolfì. Rimasta orfana di madre a quattro anni, Sandrina trascorse la sua infanzia dapprima in seno alla numerosa famiglia, poi nel monastero benedettino di San Pietro di Monticelli, alle porte di Firenze, di cui era badessa Ludovica, sua zia paterna. Propensa al raccoglimento e alla preghiera, vi acquistò una viva devozione alla Passione del Signore. Nel coro del monastero, il crocifisso pendente dalla parete, accolse le frequenti visite di lei, e prese più volte movenze e accenti umani per significarle quanto gradisse l’amorosa pietà e la consapevole partecipazione di lei ai suoi dolori.
Dopo circa tre anni di ritiro nel chiostro, disgustata della vanità e dei risentimenti di tante monache, chiese di ritornare in famiglia. Desiderando per sé una forma di vita religiosa più austera, ottenne dal padre di entrare, per una decina di giorni soltanto, nel convento delle Terziarie Domenicane di San Vincenzo Ferreri, fondato presso Prato nel 1503 da nove dame, grandi ammiratrici del P. Girolamo Savonarola, impiccato e bruciato a Firenze il 23-5-1498 come eretico, ma in realtà perché era un predicatore troppo scomodo per i sostenitori della politica dell’indegno papa Alessandro VI, spagnolo. A piegare definitivamente il padre che avrebbe voluto trattenere la figlia in casa con sé, fu una grave malattia di lei, da cui guarì miracolosamente in seguito all’apparizione del Signore che, tenendo in mano un anello sfolgorante di bellezza, le promise che l’avrebbe fatta sua sposa.
Nel monastero di San Vincenzo la santa ricevette il 18-5-1535 dal confessore, il P. Timoteo, suo zio paterno, l’abito domenicano con il nome di Suor Caterina. Mentre in disparte gustava, pregando, l’intima dolcezza del rito compiuto, le apparve il Signore in compagnia di sua Madre, sopra un prato incantevole. Colmandola di carezze, le mostrò di quali virtù risplendessero le vergini colà raccolte, specialmente la sua maestra di noviziato, Suor M. Maddalena Strozzi. Tuttavia, per tenerla nell’umiltà, Dio permise che fosse ritenuta dalle consorelle inadatta alla religione per l’apparente sua difficoltà a praticare le minute obbligazioni della vita comune. Se la interrogavano, si esprimeva ammezzando le parole, come fuori di sé; se la incaricavano di un lavoro, d’un tratto si faceva distratta e torceva gli occhi in alto; se le davano una commissione, andava per un’altra strada o tornava indietro ignara, per ricominciare da capo. Il convento non tardò a qualificarla riottosa, stordita e trascurata, tanto che persino lo zio disse di averne abbastanza di lei. Caterina fece il giro del convento per raccomandarsi di non essere scacciata, persuasa che Dio le avrebbe dato la forza di ovviare alle lamentate manchevolezze qualora le fosse concesso di emettere i voti.
Ad un mese dalla professione religiosa, fatta il 24-6-1536, la santa si trovò di nuovo esposta al generale compatimento. Tutte le consorelle erano persuase di avere a che fare con una testa balzana e di scarso profitto per il monastero. Talvolta la rinvennero vacillante, e anziché a cause soprannaturali, attribuivano quegli atteggiamenti a una morbosa inclinazione. Caterina, di sua natura portata alla tenerezza e alla simpatia, per due anni ne soffrì in silenzio finché cadde gravemente ammalata. Alcune suore, al colmo del dolore, ebbero l’idea (1540) d’invocare il P. Savonarola e i suoi compagni, Fra Domenico da Poscia e Fra Silvestre Maruffì alla vigilia del loro martirio. Nella notte, mentre Caterina pregava davanti alle loro reliquie poste sopra un altarino della sua cella, si assopì e in visione vide i tre domenicani che le assicuravano di essere guarita. Quando si destò dall’estasi era libera da ogni malanno. Fra Girolamo, prima di scomparire, le raccomandò di esercitarsi quanto più poteva nella virtù dell’ubbidienza. La santa spinse il suo spirito di soggezione al punto da non celare più a chi la dirigeva le grazie soprannaturali di cui era continuamente favorita. Il prodigio della guarigione frattanto aveva indotto le consorelle a riflettere sugli atteggiamenti, fuori dell’ordinario, notati in lei da tanto tempo, e oggetto fino allora di giudizi tanto discordi e avventati. Pochi mesi dopo la guarigione, Caterina fu assalita dal vaiolo. I tre martiri domenicani le apparvero di nuovo e le restituirono la salute.
Nel 1541 malori aspri e repentini la gettarono nella costernazione; ma fu sovvenuta sempre, con prontezza, dai santi invocati: Maria SS., S. Tommaso, S. Vincenzo e il Savonarola, il quale non cessava di ricordarle che “l’abbandono al volere divino non è perfetto, se non mediante la più completa umiltà e ubbidienza”. Il diavolo ne fremeva e per distoglierla dalla preghiera, la buttava a terra, le stiracchiava le vesti, le scuoteva la cella con rumori assordanti o gliela riempiva di fetore, assumeva aspetti orribili, simulava visioni celesti o gemeva supplicandola di non strappargli con la preghiera altre anime.
I portenti spirituali continuarono ad arricchire l’anima di Caterina con mirabile progressione. Nell’orto del convento era stata posta una grande croce. Il 1-4-1541, mentre la santa si recava a venerarla, improvvisamente vide il crocifisso pendere da essa orribilmente sfigurato. Non reggendo a tanto martirio tornò nella propria cella per trovare una tregua al rimescolamento dell’animo. Il lunedì di Pasqua, una tosse improvvisa la costrinse a lasciare il coro. In cella trovò Gesù risorto nell’apoteosi di una smagliante luce. Essa cadde ai suoi piedi, lo baciò sul costato, ne invocò i favori per il convento e per sé allo scopo di non restare mai ingannata dal tentatore. Nella festa del Corpus Domini, dopo la comunione, vide in estasi la Regina del Cielo nell’atto di supplicare il Figlio suo affinchè l’appagasse nel desiderio di avere un cuore nuovo. La grazia le fu concessa poiché, pochi giorni dopo la visione, poté confidare alla Strozzi: “Il mio cuore voi non dovete più chiamarlo il cuore di Caterina, ma della gloriosa Vergine”.
Otto mesi dopo, Caterina fu rapita in estasi a mezzogiorno del primo giovedì di febbraio 1542, e le fu dato di rivivere ininterrottamente la Passione del Signore fino alle quattro del pomeriggio successivo. Il fenomeno si ripeté ogni settimana, senza interruzioni, per dodici anni. Durante le ventotto ore di rapimento l’atteggiamento dell’estatica rispecchiò il racconto evangelico. Il ripetersi di quelle estasi provocò, sulle prime, scrupoli e timori nel monastero. Il Provinciale dei Domenicani si recò, maldisposto, a Prato per esaminare i fenomeni di cui si faceva gran parlare nel pubblico. Caterina, umilmente riguardosa, non si scompose al fuoco di fila delle insolite recriminazioni. Si contentò di obiettare che la sua volontà non entrava per nulla nei fatti citati a suo rimprovero. Erano, secondo lei, soltanto dei “sogni”, nei quali agiva una superiore ispirazione giacché i suoi pensieri non si staccavano mai da Dio. Nella Pasqua del 1542 Gesù risorto, accompagnato da tanti angeli e santi, inondò di luce la sua cella. Le era apparso per stringerla a sé, con i dolcissimi vincoli del matrimonio spirituale, alla presenza della sua SS. Madre. L’anello che le pose nell’indice fu sempre visibile ai suoi occhi. Nel quinto giorno del mistico sposalizio, l’estasi della Passione acuì in Caterina la brama di sentire nelle proprie carni gli spasimi sofferti da Gesù nel proprio corpo. Il suo desiderio fu esaudito. Da quel giorno ella sentì ardere in sé un “amore tutto di croce”. Le stimmate della Santa alla Strozzi si rivelarono abbaglianti di luce, come pure l’anello.
La vigilia del Natale 1542, Caterina vide il “piccolo Bambolino” posto sul fieno tra due animali. S. Tecla, che accompagnava la Vergine Maria, le presentò allora tre corone: una di spine, una d’argento e l’altra d’oro. Caterina, con un pianto dirotto, s’inchinò subito a ricevere la corona di spine per rassomigliare di più al celeste bambino che aveva stretto al seno e coperto di baci. A breve distanza da quella visione il capo verginale della santa fu visto imporporarsi di tracce sanguigne in forma di spine, e la spalla destra di lei apparve solcata da una lividura larga tre dita scendente a metà del dorso. Un giorno del 1543, dopo la comunione, appena rientrata in cella, Caterina fu riscossa dalla voce del Crocifisso. Si era staccato dal legno del suo supplizio, fitti ancora i chiodi nelle mani e nei piedi, per andarle incontro, abbracciarla, e raccomandarle tre solenni processioni nel monastero per implorare misericordia sui trascorsi degli uomini.
Per sovvenire alle necessità della Chiesa, Caterina aggravò le austerità prescritte dalla regola. L’astinenza dalle carni fu per lei assoluta dal 1542 fino alla morte. In occasione di malattie il suo pasto era corretto con sugo o brodo di testuggine. Tre giorni la settimana si sfamava con pane inzuppato nell’acqua. La priora le fece ingerire talora, per ubbidienza, dei cibi di sua scelta. Caterina ne riportò sempre penose crisi di stomaco, con rammarico e stupore delle consorelle. Anche le sue vigilie furono dure. Le due o tre ore dedicate al sonno durante la fanciullezza, si vennero via via assottigliando con l’accrescersi del fervore. A qualunque ora la Strozzi entrasse nella camera di lei, la scorgeva inginocchiata per terra o piegata sul letto quando in estasi, quando in orazione. Alle sue rimostranze rispondeva: “Madre mia, non vi allarmate. La preghiera mi tiene le veci del sonno”. Un rude cilicio le pungeva il petto e le spalle. Attorno ai fianchi aveva posto una catena di anelli dentellati e li aveva fasciati con una tela per impedire lo stillicidio del sangue. La disciplina quotidiana dei flagelli completava la sua sete di patimenti. Dalle sue intenzioni non erano assenti le anime del Purgatorio. Tutte le domeniche infatti si poneva al seguito di Gesù nella visita ai regni d’oltre tomba. Era insaziabile nel desiderio di fare partecipare ai frutti della redenzione, il più intensamente possibile, un grande numero di esse. In loro suffragio per quaranta giorni di seguito fu come immersa in un bagno di fuoco, che la rodeva e ribolliva al di fuori con bruciori ribelli a qualsiasi cura.
Sotto l’immediato impulso di tanto amore divino, Caterina curò pure l’avanzamento spirituale delle sue 160 consorelle. Guidata ora dalla SS. Vergine, ora dal Savonarola, si adoperò a fare sì che osservassero il silenzio come era prescritto; ottenne che l’ufficio della Madonna fosse recitato più adagio; che la processione detta della Salve la facessero con maggiore compunzione e frequenza. Con rispettosa sottomissione non esitò a correggere persino il P. Timoteo (+1552), a volte troppo impulsivo con le religiose. Nelle estasi le sgorgavano dall’animo spasimanti accenni al deplorevole abbandono del servizio di Dio da parte di tanti religiosi, moniti a ricercarne l’amore, implorazioni per il risollevamento della Chiesa e la salvezza delle anime.
I fatti prodigiosi che si verificarono in Caterina non tardarono a volare di bocca in bocca, motivo per cui tanti ricorsero a lei per consiglio e per aiuto spirituale. Persino S. Filippo Neri, tramite un amico di Prato, si raccomandò alle preghiere di lei, perché, guarito dalla malattia in cui era caduto, potesse “guadagnare delle anime assai” facendo fruttare i talenti ricevuti dal Signore. Appena la Santa cominciò ad operare miracoli, il concorso dei pellegrini fu inarrestabile da ogni parte d’Italia. Paolo III, venutone a conoscenza, ordinò al vescovo di Pistola, il cardinale Roberto de’ Pucci, di svolgere una severa inchiesta. Essa si concluse a favore della prediletta di Dio.
Caterina rifuggiva dal mostrarsi ai numerosi visitatori. Per sottrarsi alle ricerche delle consorelle andava a nascondersi tra i cespugli dell’orto. Una volta si fece chiudere in un armadio, e un’altra volta si rifugiò nella colombaia. Per toglierla dall’imbarazzo, le consorelle la dessero sottopriora (1547). Dovendo, in forza dell’uso, accompagnare la Priora in parlatorio, non avrebbe potuto esimersi da quei rapporti con gli estranei cui la faceva restia il desiderio del nascondimento.
Caterina ebbe così modo di farsi una bella schiera di “figliuoli spirituali” ai quali scrisse numerose lettere ripiene di sapienti esortazioni, di cui Cesare Guasti curò un’edizione nel 1851. La sua corrispondenza s’intensificò quando i Domenicani vollero che fosse eletta Priora. Dal 1552 fino alla morte esercitò tale carica per sette volte. Perché potesse ben governare le sue suddite, tra cui si trovavano quattro sue sorelle, Iddio le tolse per sempre l’estasi della Passione e rallentò le altre visioni. In lei restò tuttavia intatta la fiamma delle elevazioni e degli aneliti verso Gesù crocifisso, anche in mezzo alle preoccupazioni cagionatele dalla povertà del monastero, e dalla necessità di conoscere e correggere con fortezza e dolcezza le sue religiose. Con il generoso concorso di Filippo Salviati, del quale aveva prodigiosamente guarito la moglie, riuscì ad ampliare il monastero. Nonostante le avesse donato oltre 32.000 ducati, Caterina continuò giorno per giorno a implorare per le miserie della comunità, a curvarsi con tutte le altre ai lavori manuali, e a soccorrere generosamente i poveri che andavano a bussare alla porta del monastero. Per sovvenire alle necessità di famiglie dissestate, o di fanciulle prive di dote per le nozze, seppe mettere a profitto i patroni, gli amici spirituali, i personaggi autorevoli della corte che le dovevano segnalate grazie e miracoli.
Dio concesse a Caterina il dono della bilocazione a protezione dei suoi benefattori e di quanti si raccomandavano alle sue preghiere. Di S. Filippo Neri ebbe conoscenza tramite Giovanni Animuccia che si recò più volte a visitarla. Dio soddisfo il desiderio che aveva concepito di conoscerlo personalmente senza che il fondatore dell’Oratorio si allontanasse da Roma. Dopo la morte di lei, il santo affermò di essersi trovato a conversare con lei e che il ritratto che ne avevano fatto, non le somigliava. “Suor Caterina era più bella – sentenziò – Aveva un viso allegro e gioviale”. La Santa fu in relazione con S. Carlo Borromeo, tramite un sacerdote di Prato, impiegato al servizio di lui. Un giorno, prima di congedarlo, gli consegnò un’immagine dell’Ecce Homo per il cardinale, con la raccomandazione di guardare con fiducia a quel Volto divino perché gli sarebbe stato d’invincibile difesa contro l’odio feroce dei suoi avversari. La storia registrò poco dopo l’archibugiata invano sparata contro di lui, mentre pregava nella sua cappella (1569), dal Frate Umiliato Girolamo Donato. Il povero dono della Ricci, rivestito dall’arcivescovo di Milano di un’artistica cornice, da quel giorno campeggiò nel salotto episcopale agli occhi di tutti.
Caterina morì il 2-2-1590 tra cantici angelici, uditi da quante l’assistevano, dopo aver esclamato, con un pianto dirotto, stringendo il crocifisso al petto: “Gesù, la mia brama è di morire con tè sulla croce. Amore dolce, Amore buono, Amore santo, scortami al riposo eterno per essere sempre a parte del tuo fuoco di carità”. S. Maria Maddalena de’ Pazzi, che le aveva scritto da Firenze due lettere per manifestarle il serafico ardore che sentiva di offrire il suo sangue per il rinnovamento della Chiesa, ricevette in estasi la notizia della morte di lei e ne contemplò la celeste apoteosi.
Clemente XII beatificò Caterina de’ Ricci il 1-10-1732. Benedetto XIV la canonizzò il 29-VI-1746. Il suo corpo è venerato a Prato nella chiesa del monastero in cui visse.
Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 2, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 21-27.
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