Nato in una famiglia illustre di Carpi, inizialmente si avvia per la strada dei “pubblici uffici”. Dopo alcuni incarichi in Piemonte passa al servizio del governo vicereale in Napoli, anch’essa città soggetta alla Spagna, dove però la sua carriera s’interrompe perchè frequenta i Gesuiti e decide di essere uno di loro, abbandonando codici e carriera. Ordinato sacerdote nel 1567 Bernardino diventa il maestro dei novizi gesuiti. Sette anni dopo, a Lecce, crea un collegio al quale si dedicherà fino alla morte. Si dedica alla gente di Lecce e gli si attribuiscono vari miracoli già da vivo. Si spegne a 86 anni. Papa Pio XII lo proclamerà santo nel 1947.
Questo figlio di S. Ignazio di Loyola, noto non per le opere appariscenti, ma per l\’eminente santità, nacque a Carpi (Modena) il 1-12-1530, primogenito di Francesco, cavallerizzo maggiore delle principali corti dell\’Italia settentrionale e di donna Elisabetta Bellentani. Poiché il padre in casa ci bazzicava poco, costretto a starsene ordinariamente a Mantova, presso il suo signore Luigi Gonzaga, detto il Rodomonte, Bernardino crebbe, sotto la guida della mamma, pio, docile, garbato con tutti e caritatevole verso i poveri.
Il piccino fu avviato presto agli studi, in cui riusciva molto bene. Nel 1546 fu mandato a studiare i classici greci e latini a Modena. Non gli mancarono insidie da parte dei cattivi compagni, ma il santo seppe mantenersi casto. Dopo tre anni, si trasferì a Bologna per lo studio della medicina e della filosofia. Edotto dall\’esperienza, si tenne lontano il più possibile da ogni combriccola a difesa della sua virtù. Fu assiduo alla chiesa di San Michele al Bosco, e all\’attiguo convento degli Olivetani dove un religioso, suo concittadino, aveva preso a dirigerlo nello spirito. In quel tempo non pensava evidentemente alla vita religiosa. Un giorno, entrato in una chiesa, fu preso dalla casta bellezza di una giovane donna, Cloride, e se ne innamorò. Per compiacerla sospese lo studio della medicina e si diede a quello della giurisprudenza con tanta intensità da ridursi ad un solo pasto al giorno. Il 3-6-1556 conseguì il titolo di dottore in utroque, ma non poté rientrare a Carpi perché esiliato dal suo duca ferrarese, Ercole II d\’Este, in seguito ad un colpo di spadino da lui inferto, in un impeto d\’ira non represso, sulla fronte di un tal Giovanni G. Galli che, costituito arbitro in grossi interessi economici, li aveva ingiustamente attribuiti ai propri parenti ai danni dei Realino.
Bernardino si rifugiò presso suo padre che, alla morte di Luigi Gonzaga, era passato al servizio del cardinale Cristoforo Madruzzo, succeduto nel 1545, per volere dell\’imperatore Carlo V, al terribile Fernando Alvarez di Toledo, duca d\’Alba, in qualità di luogotenente e governatore di Milano. Passando per Pavia, il Realino aveva voluto sostarvi per fare conoscenza con S. Carlo Borromeo, che si era iscritto all\’Ateneo Ticinese per lo studio della filosofia e del diritto. Nominato cittadino milanese, il santo si accinse a governare con giustizia e onestà prima il comune di Felizzano e poi quello di Cassine, entrambi nel Monferrato, dopo aver esercitato per due anni l\’ufficio di avvocato fiscale ad Alessandria. A Cassine lo raggiunse la notizia della morte della sua Cloride. Dal dispiacere si ammalò e per un istante pensò persino al suicidio. Un po\’ di calma ritornò nella sua anima, addolorata e soggetta al pessimismo, col ricorso alla poesia e soprattutto alla preghiera. Il 3-7-1561 mentre dopo la Messa se ne stava in camera pensando umilmente ai benefìci di Dio e alla donna onestamente amata, ella gli apparve e lo rincuorò, additandogli il cielo.
In quel tempo su di lui pose gli occhi un signore tra i più potenti del secolo, Ferdinando Francesco Davalos, marchese di Pescara e del Vasto, il quale aveva bisogno di un magistrato di polso per il suo feudo di Castelleone (Cremona), devastato da matricolati lestofanti. Se a Felizzano e a Cassine il Realino lasciò sbalordita la gente per la benevolenza usata con tutti, l\’alto senso della giustizia e l\’illibata onestà nell\’amministrazione del pubblico erario, a Castelleone meravigliò tutti con la sua santità. Vigilò con assiduità alla quiete privata e pubblica; fu mite per natura, ma acerbo contro i delitti; fu discreto nel comando, ma esigente nel fare osservare la legge. Egli fece della carità l\’arma infallibile del suo governo. Ai bisognosi diede sempre a piene mani fino a contrarre debiti quando le sue scarselle erano vuote. A sua insaputa un segreto lavorio si andava operando nel suo spirito. Voci interne lo invitavano al distacco dalle cose di quaggiù. Perciò, invece di indulgere alla lettura dei classici pagani o dei suoi primi lavori letterari, compose operette spirituali, e si diede alla meditazione della Bibbia, che costituì per lui il cibo più succulento di ogni giorno.
Gli evidenti miglioramenti apportati dal Realino a Castelleone, indussero il marchese di Pescara a designarlo suo uditore e luogotenente generale nei feudi che possedeva nel regno di Napoli (1564). Disimpegnò l\’ufficio con la sua solita onestà, ma solamente per tre mesi, perché nell\’udire predicare nella chiesa del Gesù Vecchio il P. Giambattista Carminata SJ., tocco dalla grazia, decise di entrare nella Compagnia di Gesù, nonostante i suoi trentaquattro anni. Vi fu ricevuto e ammesso al noviziato dal provinciale, il P. Alfonso Salmerón (+1585), uno dei primi compagni del Loyola. Il Signore volle premiarne la generosità liberandolo dai molesti assalti della sensualità. L\’insigne privilegio fu accompagnato da un\’apparizione della SS. Vergine mentre recitava il rosario nella cappella della Congregazione del SS. Sacramento. Quando il maestro dei novizi gli significò che era ormai tempo di prepararsi al sacerdozio, egli gli rispose che avrebbe preferito rimanere semplice fratello coadiutore. Nelle umili faccende di casa avrebbe avuto più tempo e più agio per meditare e pregare. I superiori non se la sentirono di defraudare le anime dell\’opera di un uomo di così bell\’ingegno. Il Realino studiò quindi filosofia nel secondo anno di noviziato e, dopo essere stato ammesso ai voti nel 1566 e al sacerdozio nel 1567, completò gli studi di teologia tra una occupazione e l\’altra.
Appena insignito del sacerdozio, già da vari padri fu prescelto come confessore e guida delle loro anime. I suoi progressi nella perfezione religiosa dovettero esser molto rapidi se lo stesso S. Francesco Borgia, terzo successore di S. Ignazio nel governo dell\’Ordine, lo prepose per due anni alla formazione dei novizi. Quando ne rimase libero, P. Realino si diede al ministero apostolico. Grande predicatore non lo fu mai, ma è incalcolabile il bene che egli fece dai vari pulpiti della città, a contatto delle claustrali alle quali dettò corsi di esercizi spirituali, dei carcerati, dei malati e persino degli schiavi, numerosi nelle città marinare fino alla sconfitta dei turchi a Lepanto (1571). Nei sette laboriosi anni della sua permanenza a Napoli, anche gli alunni che frequentavano il Collegio dei gesuiti godettero della illuminata direzione spirituale di lui. Per essi vederlo e acquistarne una illimitata fiducia, per l\’alone di prudenza e di paternità che lo circondava, fu la stessa cosa. L\’esempio era sempre la prima scuola dell\’uomo di Dio. Aveva un bel dichiararsi miserabile e peccatore, coprire con mille industrie le penitenze con le quali estenuava il suo corpo, le lunghe veglie protratte talora fino al sorgere del sole, la continua vigilanza su di sé, con la quale s\’inibiva i più onesti sollievi: la luce brillava, la santità circondava l\’antico magistrato fattosi pupillo per amore di Cristo.
Già i napoletani cominciavano a benedire Dio per aver dato loro un religioso sempre pronto a confessare ovunque, e a intraprendere tante opere di carità in casa e fuori, quando il P. Realino ebbe l\’ordine di partire alla volta di Lecce (1574) per trattare di una fondazione offerta alla Compagnia di Gesù, allo scopo di combattere l\’ignoranza e la superstizione, molto diffuse nel popolo. Vivendo alla giornata, secondo la generosità degli offerenti, il santo vigilò sulla costruzione della chiesa del Gesù, poi della casa professa e del collegio, sotto la direzione del provinciale, il P. Claudio Acquaviva (+1615). La chiesa accolse i primi fedeli il 27-10-1577, e il collegio i primi studenti nel 1580. Per 42 anni P. Realino ne fu l\’anima. A lui accorsero i figli delle più scelte famiglie, a lui, come consigliere illuminato, si rivolsero i confratelli addetti alle scuole.
Per le varie classi sociali e le diverse età dei giovani, egli fondò ben 7 Congregazioni Mariane con propri regolamenti. Essi richiedevano dagli iscritti un quarto d\’ora di meditazione ogni giorno, la comunione generale la prima domenica del mese, la visita settimanale agli infermi e persino la questua per il soccorso dei bisogni. Ben 13 volte durante le prolungate assenze dei rettori egli assunse il governo dell\’Istituto e, dal 1595 al 1597, su proposta di S. Roberto Bellarmino, provinciale di lui, fu nominato rettore dal P. Acquaviva, divenuto Proposito generale dell\’Ordine. Il santo, dal canto suo, preferiva rimanersene in un cantuccio, contento più di ubbidire che di comandare, benché del superiore avesse tutte le doti: la prudenza, la discrezione e soprattutto la carità. Egli annetteva grande importanza alla disciplina religiosa, e all\’osservanza delle regole. Sapeva anche precedere tutti con l\’esempio, non disdegnando per sé gli uffici più umili e gravosi, quali il lavare le stoviglie, il fare da portinaio, lo stendere la biancheria, l\’attingere acqua al pozzo, il trasportare legna, l\’assistere i malati e i pellegrini, il servire la Messa ai confratelli.
Quello che avveniva tra le pareti del collegio si ripeteva su più larga scala nella città, di cui più che apostolo fu padre. Si prese a cuore infatti la riforma del clero con l\’istituzione della Congregazione dei Sacerdoti viventi in famiglia, conforme ai regolamenti da lui composti. Essa si avvicinava molto all\’Oratorio che S. Filippo Neri aveva fondato a Roma nel 1565 e che il cardinale de Bérulle avrebbe diffuso a Parigi. In quei tempi di cattolica riforma, tanti chierici conoscevano appena i rudimenti del catechismo, alcuni erano incapaci di leggere il messale, e altri ignoravano perfino la formula della sacramentale assoluzione. Utilissima fu quindi la palestra che P. Realino istituì per il clero nelle conferenze dette dei "Casi di Coscienza". Precursore del probabilismo, il santo diventò il maestro della diocesi di Lecce. Gli arrivavano a decine le lettere da coloro che avevano bisogno del suo consiglio. Il vescovo di Oria affermò che faceva tanto conto dei giudizi del P. Realino, quanto della Sacra Scrittura. E S. Andrea Avelline, ammirato della carità e umiltà di lui, si sarebbe recato volentieri a Lecce per intrattenersi familiarmente con lo zelante gesuita.
L\’opera di riforma del P. Realino non si limitò al clero. Egli raggiunse le anime direttamente con la spiegazione della dottrina cristiana ai fanciulli e agli adulti in forma dialogica; la protezione e la redenzione delle traviate; la pacificazione delle famiglie, l\’aiuto ai poveri e ai carcerati; la riforma dei monasteri pullulanti di povere donne costrette a prendere il velo dall\’ingordigia dei parenti; la visita e l\’assistenza ai malati; l\’educazione degli schiavi approdanti ad Otranto. Se P. Realino montava poco sul pulpito, rimaneva ore e ore al confessionale nonostante la ripugnanza che provava, e accoglieva con pazienza eroica e molta comprensione giovani e adulti, laici e religiosi, preti e vescovi, magistrati e contadini, peccatori perduti e anime anelanti alla perfezione. Il suo confessionale era sempre assiepato. Talora bisognava attendere ore prima di arrivare a prostrarsi ai suoi piedi. Per ottenere le assoluzioni da scomuniche o la dispensa da impedimenti da Roma, egli si serviva della potente intercessione del cardinale Bellarmino. Il santo stesso potè così scrivere a suo fratello Giambattista: "Qui pare ogni domenica mezza pasqua, tanta è la frequenza di uomini, donne, giovani, ai santissimi sacramenti: lode al Signore". Una notte di Natale l\’ottantenne P. Realino, per il gran freddo fu costretto ad abbandonare il confessionale. Mentre meditava il mistero dell\’Incarnazione, gli apparve la SS. vergine che gli pose tra le braccia il Bambino Gesù. Il Fratello, che era andato a preparare uno scaldino, nell\’approssimarsi alla camera di lui aveva visto un chiarore misterioso e udito canti sovrumani.
È impossibile determinare quante volte il P. Realino abbia gustato simili visioni di Paradiso essendo al riguardo riservatissimo. Un pomeriggio, un nobile barese, giunto a Lecce, era salito alla camera del santo per un colloquio spirituale. Con grande sua meraviglia, dalla porta rimasta socchiusa, vide uscire vivi bagliori, come raggi di sole. Spinto dalla curiosità, si accostò pian pianino all\’uscio e vide P. Realino genuflesso, sollevato per aria, con le braccia distese e gli occhi luccicanti di pianto, invocante a tratti: "Gesù, Maria, state in mia compagnia".
Il P. Realino meritò tanti favori dal ciclo perché fu sempre buono con il prossimo, ma molto severo con se stesso. Quattro o cinque ore di riposo, preso vestito, e dopo prolungate e sanguinose flagellazioni, gli bastavano: il resto del tempo lo divideva tra Dio e le anime. A tavola era molto parco, pur conservando la buona consuetudine, presa a Bologna, di fare un pasto solo al giorno. Una o due volte la settimana non si cibava che di pane e acqua. Indossava abiti logori e rappezzati. Una sola volta il Bellarmino, da provinciale, riuscì a fargli indossare una veste nuova.
Quando fu carico di anni e di acciacchi, per sostenersi si servì di una rozza canna di bambù, che acquistò il potere di comunicare la salute agl\’infermi. P. Realino fu un autentico taumaturgo. Dio solo sa a quanti malati abbia restituito la sanità e a quanti ciechi la vista con una preghiera, un semplice segno di croce o il contatto di un oggetto che gli era appartenuto. Nei processi sono enumerati 174 predizioni del futuro e 27 casi di scrutazione dei cuori.
Il 3-3-1610 P. Realino cadde per le scale del Collegio e ne riportò due ampie ferite al mento e al ciglio destro. Per due ore giacque privo di sensi, ma poi si riebbe e, in capo a due mesi, guarì. Piacque al Signore consolarlo durante quella grave malattia, comparendogli coronato di spine. In seguito il santo ne scrisse al nipote: "Posso dire con verità che questo male è stato il mio bene, perché di continuo ebbi in memoria la Passione del Signore, e li peccati antichi miei, e più volte me ne confessai… Riconosco la croce per singolar beneficio". Riavutosi dalla tremenda caduta subita per aver voluto compiacere una penitente che gli aveva fatto richiesta di un oggetto di devozione che teneva in camera, P. Realino poté riprendere la celebrazione della Messa finché, divenuto cieco e non reggendosi più sulle gambe, si accontentò di fare ogni giorno la Comunione. Morì di apoplessia il 2-7-1616 dopo aver accettato di essere il celeste protettore di Lecce dietro preghiera ufficiale dei magistrati, e avere esclamato con chiarezza, dopo tanti giorni di silenzio: "O Madonna mia santissima!".
Attorno alla salma del defunto i soldati e le guardie cittadine furono incapaci di frenare la ressa della gente. Si verificarono numerose guarigioni di sofferenti, appena riuscirono ad appropriarsi di qualche oggetto, che era stato a contatto del corpo di lui. Il Realino fu beatificato da Leone XIII il 27-9-1895 e canonizzato da Pio XII il 22-6-1947. Le sue reliquie sono oggi venerate a Lecce nella chiesa del Gesù. Prima erano poste nella cappella del collegio della Sacra Famiglia, fondato dal P. Nicodemo Argento per la gioventù studiosa e benestante.
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Sac. Guido Pettinati SSP,
I Santi canonizzati del giorno, vol. 7, Udine: ed. Segno, 1991, pp. 15-22
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