ESSERE E AMORE. PER UN APPROCCIO PERSONALISTA ALLA BIOETICA di Graziano Borgonovo. Il dono dell’essere nell’amore umano. Sessualità e procreazione: 1. Fenomenologia ed ermeneutica della tendenza sessuale. 2. Metafisica dell’amore. 3. Metafisica del pudore. 4. Il significato unitivo e il significato procreativo dell’amore coniugale. 5. La possibilità del dono nell’esperienza della sterilità. 6. Conclusione. Per una convivenza più umana tra gli uomini.
II. Il dono dell’essere nell’amore umano. Sessualità e procreazione
Nella persona umana spirito e corpo costituiscono due elementi irriducibili l’uno all’altro e inscindibili l’uno dall’altro. Nel loro agire si rivelano e si richiamano reciprocamente: come lo manifesta, così il corpo contribuisce a plasmare l’io interiore nella sua identità più profonda. La tendenza sessuale, propria perché rivolta ad una per-sona umana, costituisce il terreno e il fondamento dell’amore, dal canto suo non comprensibile come pura cristallizzazione bio-psico-fisiologica di tale impulso. L’amore umano si forma infatti sempre grazie agli atti volontari posti a quel livello della persona in cui essa può giungere a fare liberamente dono di sé37.
1. Fenomenologia ed ermeneutica della tendenza sessuale
Una fenomenologia della tendenza sessuale e una corretta interpretazione del suo significato sono la necessaria premessa all’analisi metafisica dell’amore (sponsale, in particolare) che, nella sua verità, altro non può affermare se non il valore della persona e la comunione delle persone (communio personarum). Il modello di comprensione comportamentista, invece, così come quello puramente bio-fisiologico, applicati all’attività sessuale umana, rivelano la loro parzialità e la loro non esaustività, dal momento che l’attività sessuale umana possiede determinati significati obiettivi che solo il punto di vista personalistico risulta in grado di evidenziare attraverso un’integrazione morale dell’amore38.
L’impulso sessuale è dunque «un orientamento delle tendenze umane, naturale e congenito, in base al quale l’uomo si evolve e si perfeziona intcriormente» (AR, p. 34). Appare in esso, lungi da ogni determinismo, il bisogno umano di un complemento esistenziale, indice di una carenza ontologica. «Se l’uomo si esaminasse abbastanza in profondità attraverso questa esigenza, comprenderebbe più facilmente i propri limiti e la propria insufficienza, e anche, indirettamente, quel che la filosofia chiama la contingenza dell’essere (contingenza)» (AR, p. 35)39. Mentre in tutte le altre specie animali l’impulso sessuale agisce come forza istintiva irriflessa, nell’uomo esso possiede la naturale tendenza a trasformarsi in amore. Si tratta, in radice, di determinare il corretto rapporto e le implicanze reciproche esistenti tra l’impulso sessuale quale è dato nell’uomo e l’amore per la persona, che la norma personalistica mostra come principio primo dell’edificio etico.
Così come all’amore verso la persona, per sé, non è necessario l’impulso, allo stesso modo l’amore, per sé, non è determinante per la finalità intrinseca dell’impulso, proiettato alla conservazione della specie homo (pro-creatio). È proprio il significato esistenziale della tendenza sessuale che, però, esclude ogni sorta di biologismo e ogni sua possibile utilizzazione a prescindere dal principio dell’amore. «Se la tendenza sessuale avesse solo un significato “biologico”, la si potrebbe considerare come una sfera di godimento, si potrebbe ammettere ch’essa costituisce per l’uomo un oggetto dell’uso nella stessa misura dei diversi esseri naturali viventi o inanimati. Ma dal momento che essa possiede il carattere esistenziale, dal momento che è legata all’esistenza stessa della persona umana, bene primo e fondamentale di essa, bisogna che sia sottoposta ai principi che obbligano ogni persona. Quindi, benché l’impulso sia a disposizione dell’uomo, questo non deve mai farne uso al di fuori dell’amore verso una persona e, meno ancora, contro di esso» (AR, p. 38)40.
Perché la sua stessa finalità naturale possa essere conservata, è perciò necessario (paradossalmente) che l’impulso sessuale sia strettamente connesso all’amore: solo così anche le componenti ludiche della vita sessuale, associate all’impulso, assurgono al livello della dignità della persona. «Gustare il piacere sessuale senza tuttavia trattare la persona come un oggetto di godimento: ecco il nocciolo del problema morale sessuale» (AR, p. 44). La moralità sessuale «è una sintesi continua e più matura della finalità naturale della tendenza sessuale e della norma personalistica» (AR, p. 49)41.
Risulta perciò conseguente il rifiuto tanto della concezione rigorista quanto quello della concezione permissivistico-libidiniana della sessualità, colte nella loro unilateralità e disarmonia. Entrambe suppongono infatti, nonostante l’apparente antitesi, di poter separare fra loro il godimento (momento soggettivo), il fine biologico della sessualità (momento oggettivo) e l’amore (momento specificamente umano). Il principio fondamentale del personalismo etico, all’opposto, mentre garantisce, da un punto di vista oggettivo, l’amore come dovuto alla persona, rimanda, per la verità qualitativa dell’amore stesso, alla struttura ontologica essenziale dell’uomo. Tutto ciò può essere espresso in una formula concisa: «il fatto che io debba amare ha la sua base oggettiva nella dignità personale dell’uomo al quale l’azione è indirizzata (norma personalistica); il fatto, invece, di come debba amare ha la sua base oggettiva nella natura umana» (cfr. AR, nota 20, p. 230).
2. Metafisica dell’amore
L’esperienza attesta che «in un soggetto individuale, l’amore si forma passando attraverso l’attrazione, la concupiscenza e la benevolenza» (AR, p. 69). Dato però che l’amore si realizza e trova la sua pienezza non tanto nel soggetto, quanto piuttosto in un rapporto tra soggetti, è indispensabile passare dall’analisi della tendenza-amore all’analisi dell’amore-tendenza, intesa come possibilità che una persona possa far totalmente dono ad un’altra di se stessa (amore sponsale)42. Già nell’esperienza dell’attrazione (amar complacentiae) è insito il riconoscimento di un valore, che impegna la conoscenza e la libertà: se «”piacere” significa più o meno “presentarsi come un bene”…, nel fatto di “piacere” è già implicito un elemento del “volere”, benché ancora molto indiretto… Si potrebbe dire che si tratta di una conoscenza che impegna la libertà, in quanto è stata da essa impegnata» (AR, p. 54). Un corpo percepito non potrebbe piacere, se il giudizio della coscienza non lo qualificasse, intrinsecamente, come un bene (ed è anche così colta, dal punto di vista antro-pologico, l’equivalenza trascendentale di bontà e bellezza).
L’analisi dei gradi successivi dell’amore, poi, l’amor concupiscentiae e l’amor benevolentiae, indica nella maniera più precisa la struttura del soggetto dell’amore nei confronti dell’oggetto (che è pure un soggetto personale) e la sua essenziale variazione. Mentre nel caso della concupiscenza, l’oggetto dell’amore «appare come il desiderio di un bene per sé: “io ti voglio perché tu sei per me un bene”» (AR, p. 59), nell’amore di benevolenza il soggetto si stacca da ogni residuo di interesse e si apre totalmente al tu: «la benevolenza è il disinteresse in amore; non: “io ti desidero come un bene”, ma: “io desidero il tuo bene”, “io desidero ciò che è un bene per te”» (AR, p. 60). Ciò che diventa preminente, nell’amore di benevolenza, è l’interesse totale per l’altro, percepito come costitutivo di sé quale soggetto personale amante. Solo la benevolenza può costituire perciò una solida base per l’amore fra le persone, che, nella sua essenza, si qualifica come sponsalità e come dono. Solo l’amar benevolentiae offre all’amar complacentiae e all’amar concupiscentiae l’orizzonte adeguato per una loro integrazione umana personale43.
Il problema dell’amore sponsale racchiude — bisogna ancora riconoscerlo — un duplice paradosso: che il soggetto cioè, per natura inviolabile ed inalienabile (alteri incommunicabilis), possa uscire-da-sé e offrirsi (amore come auto-donazione) e che, facendo ciò, non solo non si perda, ma addirittura possa ritrovare se stesso (amore come auto-realizzazione). Dal momento che la struttura propria dell’amore è quella di una comunità interpersonale, l’appartenenza reciproca delle persone non può essere assicurata e garantita da un calcolo equilibrato di egoismi, ma solo da una libera scelta di mutua-donazione: «il dono di sé può avere pieno valore solo se è la parte e l’opera della volontà. Perché è precisamente in virtù del libero arbitrio che la persona è padrona di se stessa ed è un qualcuno inalienabile e incomunicabile. L’amore sponsale, amore in cui ci si dona, impegna la volontà in modo particolarmente profondo… Secondo le parole dell’Evangelo, bisogna “donare la propria anima”» (AR, p. 91). Bisogna cioè lavorare su di sé (ascesi) per compiere una scelta veramente libera e bisogna farlo con l’altro per farlo sponsalmente. L’amore sponsale implica così il lavoro della donazione44.
Il compito etico significato da questo precetto ha, e non potrebbe non avere, la sua condizione di possibilità nella struttura ontologica della persona umana. Essendo essa un’entità sostanziale (e non un puro fascio di fenomeni, totalmente variante in ogni singolo atto), l’amore sponsale (amore auto-donativo) è pure ontologicamente inscritto nell’essere stesso della persona, che è perciò stesso messa in grado di sperimentare la propria vita in rapporto alla vita dell’altro e di far confluire, integrandolo, l’io nel noi. «L’amore, così concepito, trascende la soddisfazione passeggera dell’impulso sessuale e permette alle persone in esso coinvolte di raggiungersi l’un l’altra reciprocamente dall’interno, attraverso una fondata amicizia che consente loro di crescere l’una verso l’altra e l’una grazie all’altra»45. La persona, perciò, che per natura ed essenzialmente appartiene a se stessa nell’appartenenza alla radice dell’Essere, può essere di un’altra solo attraverso il dono libero del suo amore.
3. Metafìsica del pudore
Il timore di non essere assunti dall’altro, in una relazione interpersonale, nella propria irripetibile soggettività e di non essere riconosciuti nella propria specifica interiorità, sta alla radice del sentimento del pudore. Esso impedisce che si inverta l’ordine gerarchico dei valori: l’apprezzamento per i valori sessuali del corpo, infatti, è in funzione dell’apprezzamento del valore della persona e non viceversa. È per questo motivo che nelle serrate analisi di Amore e Responsabilità il pudore viene considerato, dal punto di vista della singola esistenza personale, anche come un atteggiamento di timore e tremore di fronte allo sguardo dell’altro. In tale sentimento, lungi dal venire meno l’apertura al tu, si esprime invece la coscienza dell’uomo nella sua radicalità e nella sua irriducibilità ad ogni oggettivazione46.
Appare tanto più giustificato allora, in seconda istanza, il fatto che l’uomo e la donna sottraggano le manifestazioni del loro amore allo sguardo di terzi. L’atto sessuale, legato all’amore, trova in esso la propria ragione e giustificazione oggettiva. «Ma quelle due persone sono le sole ad aver coscienza di questa ragione e di questa giustificazione; solo per loro il loro amore è una questione di “interiorità” di anime e non soltanto di corpi. Per ogni uomo che si mantenga all’esterno dell’atto, esistono solo le manifestazioni esteriori di questo, mentre l’unione delle persone, essenza oggettiva dell’amore, rimane per lui inaccessibile. E perciò comprensibile che il pudore, che tende a nascondere i valori sessuali per proteggere il valore della persona, tenda anche a nascondere l’atto sessuale per proteggere il valore dell’amore» (AR, pp. 131-132).
Affermare la persona per poter accedere all’amore: sembra essere questa la duplice funzione del pudore sessuale, che nella sua essenza esprime, secondo le parole di Max Scheler, «la singolare posizione che l’uomo occupa nella grande serie degli esseri, cioè la sua collocazione tra il divino e la sfera animale»47.
Si tratta di non abbassare la persona al rango di oggetto di godimento sessuale, ma di riconoscerle la dignità che, strutturalmente, le è dovuta (norma personalistica), rispettando l’ordine finalistico in cui è inscritta la tendenza sessuale (legge di natura). Il pudore sessuale, perciò, non è una fuga davanti all’amore; è piuttosto il mezzo adeguato per accedervi. Dal punto di vista strettamente etico, la persona è chiamata ad esercitare la virtù della castità, riverbero dell’ordine ontologico-metafisico espresso dal sentimento del pudore e condizione soggettiva del darsi di un amore vero. L’amore infatti «è psicologicamente maturo solo quando acquista un valore morale, quando diventa la virtù dell’amore» (AR, p. 122). La castità esprime così la positiva integrazione della sessualità nella persona e conse-guentemente l’unità interiore dell’uomo nel suo essere corporeo e spirituale48.
Detto con le parole del Catechismo della Chiesa Cattolica: «La sessualità, nella quale si manifesta l’appartenenza dell’uomo al mondo materiale e biologico, diventa personale e veramente umana allorché è integrata nella relazione da persona a persona, nel dono reciproco, totale e illimitato nel tempo, dell’uomo e della donna» (n. 2337). Pertanto «essa si realizza in modo veramente umano solo se è parte integrante dell’amore con cui l’uomo e la donna si impegnano totalmente l’uno verso l’altra fino alla morte» (CCC, n. 2361).
4. Il significato unitivo e il significato procreativo dell’amore coniugale
La struttura propria dell’amore coniugale è quella di una «totalità unificata»49. La densità antropologica di tale formula può essere dinamicamente colta proprio a partire dall’esperienza del dono di sé nell’amore coniugale. «L’amore/atto coniugale comporta il reciproco dono degli sposi, più precisamente il dono personale e totale: dono personale, nel quale e con il quale gli sposi si donano non tanto le “cose” che “hanno” quanto le “persone” che “sono”; dono totale, totale in quanto personale: la persona, infatti, è un tutto unico, indiviso e indivisibile di corpo, psiche e spirito, cosicché il dono degli sposi o è totale proprio perché personale o non è personale proprio perché non totale»50. La non totalità del dono si manifesta senz’altro nella separazione dei due significati inscindibilmente racchiusi nell’amore/atto coniugale.
Il principio primo, quello per cui la natura e la finalità dell’atto matrimoniale sono salvaguardati, è «la connessione inscindibile, che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere di sua iniziativa, tra i due significati dell’atto coniugale: il significato unitivo e il significato procreativo»51. E come «l’unione coniugale deve avvenire nel rispetto dell’apertura alla procreazione», così «la procreazione di una persona deve essere il frutto e il termine dell’amore sponsale»52.
Il processo generativo umano — momento nel quale i coniugi sono «cooperatori dell’amore di Dio Creatore» (Gaudium et spes, n. 50; cfr. anche CCC, n. 2367ss.) — si articola in alcune fasi successive, la cui separazione — dato di fatto ormai praticato su larga scala — altera di fatto la verità dell’amore umano nei suoi specifici significati esistenziali. Diversificata nelle sue modalità, essa consente da una parte l’unione dell’uomo e della donna senza apertura alla procreazione, così come, dall’altra (ed è un’acquisizione di tempi più recenti), una procreazione senza previa unione sessuale dei coniugi. Nel momento in cui però si assume tale semplice fattibilità tecnica quale criterio ultimo, per valutare moralmente ogni singolo atto coniugale, per condurre campagne di educazione sessuale o per stabilire normatività di tipo legislativo, si viene ad aprire una breccia che, sancendo la separazione dei due inscindibili significati dell’atto coniugale, ferisce drammaticamente l’integrità e la dignità dell’essere e dell’amore umano53.
Humanae vitae insegna dunque, conformemente alla struttura della persona umana come tale, del dono dell’amore all’essere umano e del dono dell’essere nell’amore umano, che l’atto d’unione dell’uomo con la propria moglie deve rispettare l’intrinseco significato procreativo. Unione e procreazione sono i due significati inscindibili dell’atto matrimoniale: dall’esperienza del dono di sé nell’amore coniugale aperto alla trasmissione della vita si riconosce come l’essere umano non sia il padrone della vita, ma il ministro del disegno inscritto da Dio nella natura della sua persona. Salvaguardando ambedue questi aspetti essenziali, unitivo e procreativo, l’atto coniugale conserva integralmente il senso di mutuo e vero amore e il suo ordinamento all’altissima vocazione dell’uomo e della donna alla paternità/maternità. La continenza periodica, i metodi di regola-zione delle nascite basati sull’autoosservazione e il ricorso ai periodi infecondi, mentre rispettano il corpo degli sposi, favoriscono l’educazione ad una libertà autentica54. Sia Egli riconosciuto o no, Dio è infatti presente nell’amore, nell’amore sessuale, di un uomo e di una donna sposati. Era per proteggere questa verità essenziale, che Paolo VI promulgò, nel turbolento 1968, l’Enciclica Humanae vitae.
L’inscindibilità dei due significati dell’atto coniugale va dunque di pari passi con l’inscindibilità dei due elementi, irriducibili l’uno all’altro, che costituiscono assieme l’unità della persona umana: trova in essa il suo adeguato fondamento antropologico.
5. La possibilità del dono nell’esperienza della sterilità
«Quando il corpo dei genitori, nonostante usi un linguaggio unitivo (di dono sponsale), non riesce tuttavia a donare la realtà del figlio, viene messo in luce in maniera sofferta, ma proprio per questo ancor più marcata, il fatto che a un dono non si ha diritto: né a un dono che si vorrebbe ricevere (il figlio, da Dio), né a un dono che si vorrebbe dare (la vita, al figlio). La mancanza del dono pone violentemente in luce proprio la qualità di dono di ciò che pur si desidererebbe. Se i due coniugi sterili si fermano sotto questa luce — per quanto essa possa risultare accecante e addirittura ferire — ne verrà la conseguenza che essi si chiederanno umilmente e con vera disponibilità come poter vincere la propria sterilità»55.
Un intervento medico sulla sterilità della coppia è realmente terapeutico56 e dunque eticamente accettabile solo se realizza un aiuto all’atto coniugale, che risultasse di per sé completo, ma non efficace ai fini della procreazione. L’intervento terapeutico è infatti tale se rivolto al bene della totalità della persona, comprendente non solo l’aspetto fisico, ma anche quello psicologico e morale/spirituale: il bene del corpo va perseguito nel quadro d’insieme del bene della persona. Per questo i metodi con i quali l’aiuto all’atto coniugale viene realizzato non devono essere né manipolatori né sostitutivi dell’atto coniugale stesso. La posizione antropologica ed etica qui «delineata nei suoi principi di fondo si presenta [così] come posizione razionale, sia nel senso che può essere elaborata e giustificata alla luce della ragione (illuminata dalla fede, per la morale cristiana), sia nel senso che corrisponde a un’esigenza razionale, a un’e-sigenza profondamente “umana”. E una posizione egualmente lontana dall’interpretazione “sacrale” e da quella “laica”»57. Ciò che è in gioco è sempre il carattere personalistico della procreazione umana, come frutto e segno della reciproca donazione totale degli sposi. «L’umanizzazione della medicina, che viene oggi insistente-mente richiesta da tutti, esige il rispetto dell’integrale dignità della persona umana in primo luogo nell’atto e nel momento in cui gli sposi trasmettono la vita a una nuova persona»58.
Come comportarsi allora di fronte a casi di infertilità inguaribile? Come coglierne il senso umano, personale? Si tratterà, da parte degli sposi toccati da questa dolorosa situazione, di ricercare «le forme concretamente possibili per offrire il dono della loro unione sponsale: e poiché da essa non viene il dono del figlio, il problema necessariamente si capovolgerà. L’esistenza oggettiva di certi “doni filiali” (a cui non corrisponde la cura di altrettante “unioni sponsali” adeguate: orfani, abbandonati, persone bisognose dal punto di vista educativo/assistenziale), si proporrà alla loro unione sponsale per chiedere accoglienza. Sarà uno di quei casi misteriosi in cui, per così dire, non saranno il padre e la madre a generare i loro figli, ma saranno i figli a generare il loro padre e la madre, invocandoli»59.
La struttura della fecondazione in vitro60, per contro, non è, obiettivamente, una struttura di donazione, di relazione trans-personale, bensì di produzione che ha a che fare con tanti atti diversi, nessuno dei quali ha la struttura di un atto interpersonale: atto del prelievo delle cellule, atto della fusione, atto della cultura in vitro, atto del trasferimento… Nonostante l’intenzione sia quella di “generare un figlio”, l’insieme di questi atti non forma un indivisibile atto d’amore. In azione non è la coppia che amandosi si apre alla vita, ma una équipe medico-biologica. Il problema etico delle tecniche artificiali che intervengono nella trasmissione della vita è allora per intero legato alla verità dell’umanità, alla dignità personale dei soggetti in questione, sia di coloro che pongono questi atti, sia di colui che è il frutto di tali atti posti. Perché, mentre non si da diritto al figlio, è proprio il figlio che ha il diritto di essere il frutto dell’atto specifico dell’amore coniugale dei suoi genitori e il diritto di essere «rispettato e trattato come una persona fin dal suo concepimento»61.
Dunque non c’è solo la questione del rapporto indissociabile tra gli elementi costitutivi — corpo e anima — della singola persona umana. Non c’è solo la questione del rapporto indissociabile tra le persone degli sposi e i loro rispettivi corpi. «C’è anche la questione dell’unione moralmente indissolubile tra il corpo-persona del bambino concepito e il corpo-persona dei genitori. È tra essi che deve avvenire il dono trans-personale: è il dono tra due persone (gli sposi) che deve farsi dono di una nuova persona». In definitiva, «sempre si tratta del rapporto del “corpo” con la “persona”» ed è precisamente tale rapporto, contro ogni dualismo antropologico smentito dall’esperienza, «ad essere il punto di osservazione per decidere della moralità o della immoralità dei comportamenti legati al mondo della sessualità e della generazione»62.
6. Conclusione. Per una convivenza più umana tra gli uomini
E necessaria, ai nostri giorni, «un’opera di riconciliazione delle coscienze dei coniugi moderni con la verità dell’amore umano, del matrimonio come istituzione, che non mira a mortificarlo ma a pro-teggerlo dalle derive soggettivistiche e relativistiche; è necessario far riscoprire la famiglia come “comunità di persone” dove ciascuno può imparare a vivere secondo la “logica del dono” che è la logica propria delle relazioni interpersonali basate non sull’interesse e sullo sfruttamento dell’altro, ma sulla gratuità e sull’affidamento reciproco»63.
Per comprendere la pertinenza di giudizi etici bisogna sempre risalire alla struttura antropologica di base che li fonda e li sostiene. O c’è una natura della persona umana, una realtà da riconoscere per quello che è, un nucleo di evidenze che permane anche qualora la maggioranza dovesse decidere il contrario, oppure il naufragio nel baratro del soggettivismo diventa inevitabile. Occorre domandarsi, ancora più a monte, quale idea di libertà (o di coscienza) gioca nell’affronto di problematiche capitali per l’esistenza. «E impossibile avere una concezione falsa dell’intelligenza e mantenere una concezione vera della libertà e viceversa. Se riteniamo che l’intelligenza dell’uomo non possa cogliere il senso del reale e che, di conseguenza, essa possa solo organizzare il mondo in funzione di finalità determinate in modo irrimediabilmente soggettivo, non potremo concepire la libertà se non come pura spontaneità creatrice che determina i fini a partire da se stessa e da null’altro. Viceversa, se concepiremo l’intelligenza come capacità di aderire all’essere e di disvelare il messaggio dell’essere racchiuso nelle cose, allora inevitabilmente dovremo pensare che la libertà dell’uomo si determina davanti al messaggio dell’essere e che quindi il suo contenuto primo è l’accettazione o il rifiuto di tale messaggio»64.
Vengono alla mente parole del grande Vaclav Havel che, seppur collocate in un contesto affatto differente, appaiono meritevoli di essere qui riprese. «Permettetemi di tornare alla Cattedrale di San Vito, San Venceslao e Sant’Adalberto [si tratta della Cattedrale di Praga]. Perché mai nei tempi passati si costruivano edifici così son-tuosi, di scarsa utilità secondo gli standard attuali? Una possibile spiegazione è che ci sono stati periodi storici in cui il profitto materiale non rappresentava il valore assoluto, in cui gli uomini erano consapevoli dell’esistenza di misteri inspiegabili ai quali si poteva solo guardare con umile meraviglia per poi forse proiettare questa meraviglia in strutture dalle guglie svettanti in alto. In alto, perché si vedessero da lontano indicando a ciascuno ciò che vale la pena di guardare. In alto, oltre i confini dei secoli, in alto, verso ciò che non riusciamo a vedere, la cui silenziosa esistenza preclude, a noi tutti, qualunque diritto di considerare il mondo una fonte infinita di profitti a breve termine e richiede la solidarietà di tutti coloro che dimo-rano sotto la sua volta misteriosa. Per iniziare ad affrontare alcuni dei più profondi problemi del mondo dobbiamo anche noi volgere gli occhi in alto, chinando il capo con umiltà»65.
Senza tale duplice atteggiamento — gli occhi in alto, il capo chinato con umiltà —, proprio solo dell’uomo forte, dignitoso nell’uso delle capacità (grandi ma limitate) della sua ragione, la ragione dell’uomo diventa debole (strumentale, prepotente, tecnica), più neppure in grado di cogliere la meraviglia dell’essere, dell’amore, del dono e del sacrificio di sé. Solo la riscoperta della coscienza che la vita è dono e che Dio solo ne è il padrone potrà rendere più umana la convivenza tra gli uomini.
NOTE
37 Le considerazioni che seguono trovano il loro diretto riferimento in: K. Wojtyla, Amore e Responsabilità, Marietti, Torino 19803 (nel testo, sigla AR). «Diviene qui fondamentale e decisiva la categoria del “dono” per definire il logos, la verità, il dato della vita umana, e conseguentemente per cogliere l’ethos, la storia, il compito della vita umana. Proprio per questa via, apparentemente così lontana e astratta rispetto ai concreti e complessi problemi della bioetica, questi stessi problemi possono ricevere un’illuminazione originale e quanto mai feconda e stimolante»: D. Tettamanzi, Nuova bioetica cristiana, Piemme, Casale Monferrato 2000, p. 43.
38 Cfr. R. Buuttiglione, Il pensiero di Karol Wojtyla, cit., p. 116ss. Per lo sviluppo di un’analisi filosofica sulla tematica, cfr., per esempio, G. Chantraine, Uomo e donna. Riflessioni filosofiche e teologiche, CUSL, Milano 1986; A. Pessina, Bioetica. L’uomo sperimentale, Bruno Mondadori, Milano 1999, pp. 76-93; e R. Lucas Lucas, Antropologia e problemi bioetici, San Paolo, Cinisello Balsamo/Mi 2001, cap. 2-3 («II valore del corpo umano» e «La persona e la sessualità»).
39 Tra “ordine della natura” (esistenziale) e “ordine biologico”, facilmente confusi nella mentalità empiristica contemporanea, l’Autore di Amore e Responsabilità pone questa fondamentale differenza: «L’ordine biologico è ordine della natura nella misura in cui è accessibile ai metodi empirici e descrittivi delle scienze naturali; ma in quanto ordine specifico dell’esistenza, che resta in evidente rapporto con la Causa prima, con Dio Creatore, l’ordine della natura non è più un ordine biologico… L’ordine biologico, in quanto opera dello spirito umano che per astrazione ne separa gli elementi, da ciò che realmente esiste, ha come autore direttamente l’uomo… Ben diversamente avviene per l’ordine della natura, cioè per l’insieme delle relazioni cosmiche che intervengono tra degli esseri che esistono realmente. Questo è quindi un ordine dell’esistenza, e tutte le leggi che vi presiedono trovano il proprio fondamento in Colui che è la sua fonte continua, in Dio Creatore» (AR, pp.41-42). Questa distinzione è essenziale anche al fine di evitare il relativismo nelle concezioni morali.
40 Sulla tematica specifica, cfr. G. Concetti, Sessualità, amore, procreazione, Ares, Milano 1990; C. Caffarra, Etica generale della sessualità, Ares, Milano 1992; e M. Rhonheimer, Etica della procreazione, PUL/Mursia, Roma 2000.
41 Sull’amore sponsale, cfr. A. Scola, Il mistero nuziale, vol. 1: Uomo-donna, PUL/Mursia, Roma 1998 e voi. 2: Matrimonio-famiglia, PUL/Mursia, Roma 2000. Si veda anche R. Bonetti (a cura di), La reciprocità uomo-donna via di spiritualità coniugale e familiare, Città Nuova, Roma 2001.
42 Cfr. san Tommaso, Summa Theologiae, I-II, qq. 26-28.
43 Cfr. le convincenti riflessioni di F. Botturi, Innamoramento e amore, in: G. Borgonovo (a cura di), Alla ricerca delle parole perdute, cit., pp. 54-76. «… L’equivoco fondamentale cade sull’idea di lavoro, di cui non si apprezza l’essere fonte straordinariamente ricca di legame e di soddisfazione, anzi l’unica fonte di soddisfazione vera e propria,rispetto a quella piuttosto solo intuita dell’innamoramento. Il lavoro non è perciò il momento penoso che succede all’entusiasmo iniziale, ma ne è piuttosto la ripresa che lo può far fruttificare: è avviato dalla fiducia nel possibile frutto ed è sostenuto dal gusto e dal piacere della sua stessa costruttività. Il lavoro è infatti sempre lavoro della libertà nel tempo, che assumendo responsabilmente il rapporto, è già di per sé esercizio e crescita gratificante della libertà, in grado di gioire per i benefici che riceve e che sa procurare» (ivi, p. 63).
44 A.N. Woznicki, A Christian Humanism: Karol Wojtyla’s Existential Personalism, cit., p. 37.
45 «II pudore custodisce il mistero delle persone e del loro amore. Suggerisce la pazienza e la moderazione nella relazione amorosa; richiede che siano rispettate le condizioni del dono e dell’impegno definitivo dell’uomo e della donna tra loro»; «appare come il presentimento di una dignità spirituale propria dell’uomo. Nasce con il risveglio della coscienza del soggetto» (CCC, nn. 2522 e 2524). Cfr. anche J. Guitton, Il libro della saggezza e delle virtù ritrovate, Piemme, Casale M. 1999.
46 M. Scheler, Pudore e sentimento del pudore, Guida, Napoli 1979, p. 19.
47 Cfr., all’interno di una trattazione complessiva e sistematica, R. Yepes Stork-J. Aranguren Echevarria, Fundamentos de Antropología. Un ideal de la excelencia humana, Eunsa, Pamplona 19994, soprattutto cap. 7: «Relaciones interpersonales» (pp. 137-156) e cap. 10: «Sexualidad, matrimonio y familia» (pp. 199-223).
48 GIOVANNI PAOLO II, Esortazione Apostolica Familiaris consortio, n. 11.
49 D. Tettamanzi, Nuova bioetica cristiana, cit., p. 222.
50 PAOLO VI, Lettera Enciclica Humanae vitae, n. 12.
51 Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Donum vitae, II, n. 4.
52 Le fasi in cui si articola il processo generativo umano possono essere così distinte: «1) elaborazione delle cellule germinali; 2) loro trasferimento all’interno dell’organismo maschile o femminile; 3) atto coniugale, o passaggio delle cellule germinali maschili nelle vie genitali femminili interne; 4) fusione di due cellule germinali, o concezione; 5) gestazione; 6) parto. La contraccezione, nel suo significato preciso, costituisce un intervento che riguarda le fasi 3 e 4, e mira a rendere infecondo l’atto coniugale impedendo l’incontro fra la cellula germinale maschile e quella femminile, che può conseguire all’atto stesso» (L.Ciccone). Cfr., dell’Autore citato, Uomo-Donna. L’amore umano nel piano divino, LDC, Leumann/TO 1986.
53 Cfr. M.Rhonheimer, Etica della procreazione, PUL/Mursia, Roma 2000, pp. 15-109. «L’atto di tralasciare il rapporto sessuale… è un atto corporeo di responsabilità procreativa. Non è semplicemente un puro e semplice “non fare qualcosa”… bensì uno specifico tipo di azione corporea volontaria, liberamente scelta, cioè un atto di comportamento sessuale scaturente dalla volontà guidata dalla ragione» (pp. 72-73).
54 A. SIicari, Breve catechesi sul matrimonio, Jaca Book, Milano 1991, pp. 80-81.
55 II principio terapeutico «si fonda sul fatto che la corporeità umana è un tutto unitario risultante di parti distinte e fra loro organicamente e gerarchicamente unificate dall’esistenza unica e personale… Esige alcune condizioni per essere applicato: 1) che si tratti di intervento sulla parte malata o che è diretta causa del male, per salvare l’organismo sano; 2) che non vi siano altri modi e mezzi per ovviare alla malattia; 3) che vi sia una possibilità buona e proporzionalmente alta per la riuscita; 4) che vi sia il consenso del paziente o dell’avente diritto. Rimane inteso che in questi casi ciò che è in questione non è tanto la vita, quanto la integrità fisica»: E. Sgreccia, Manuale di bioetica, vol. I: fondamenti ed etica biomedica, cit., pp. 164-165. Detto questo, e senza ulteriormente ora approfondire in rapporto alla sterilità, due fatti inequivocabili si impongono alla considerazione: «Il primo è che la cura della sterilità non può avvenire se non coinvolgendo, e in profondità, la persona umana: la donna o meglio la coppia, il medico che si assume il compito della cura, eventualmente il nascituro come risposta al desiderio e alla volontà di “guarigione”. Il secondo
fatto è che la persona umana coinvolta nella cura della sterilità ha un’essenziale e irrinunciabile dimensione etica»: D. Tettamanzi, Nuova bioetica cristiana, cit., p. 188.
56 D. Tettamanzi, Nuova bioetica cristiana, cit., pp. 192-193.
57 Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Donum vitae, II, n. 7.
58 A.Sicari, Breve catechesi sul matrimonio, cit., p. 81.
59 Cfr. A. Rodriguez Luño-R.. Lopez Mondéjar, La fecondazione “in vitro”. Aspetti medici e morali, Città Nuova, Roma 1986. Nel quadro di una trattazione sistematica, E. Sgreccia, Manuale di bioetica, vol. 1: Fondamenti ed etica biomedica, cit., pp. 385-435 e 505-587; per una introduzione semplice e completa, G. Concetti, La fecondazione medicalmente assistita, Vivere In, Roma 1999.
60 Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione Donum vitae, I, n. 1;cfr. II, n. 5.
61 A. Sicari, Breve catechesi sul matrimonio, cit., pp. 51-57.
62 G. Grandis, Matrimonio e famiglia: un legame necessario in una società che cambia, in: G. Borgonovo (a cura di), Quo vadis familia? La famiglia ieri, oggi e domani, Piemme,Casale Monferrato 2001, pp. 242-243.
63 R. Buttiglione, La crisi della morale, Dino, Roma 1991, p. 22.
64 Articolo apparso sul quotidiano La Repubblica, del 28 dicembre 2000, p. 17.
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© Annales theologici 17 (2003) 43-76