…FARE IL BENE. LA MISERICORDIA. SOCCORSO ALL’INDIGENZA. Nozione. Obbligatorietà dell’elemosina. Entità dell’obbligo. Avarizia. La carità e le opere sociali. LA CORREZIONE FRATERNA. Varie specie di correzione. Correzione fraterna. VERITÀ E CARITÀ. PECCATI CONTRARI ALLA CARITÀ FRATERNA. DISCORDIA. SCANDALO. COOPERAZIONE AL MALE O AL PECCATO….
Trattato di Teologia morale
PARTE III
I DOVERI DELL’UOMO NEI SUOI RAPPORTI CON IL PROSSIMO
4. DIRITTI E DOVERI SOCIALI
B) I DOVERI CONNESSI CON LA GIUSTIZIA E LE ALTRE VIRTÙ CARDINALI
C ) I DOVERI DI CARITÀ
2. OPERE DELL’AMORE DEL PROSSIMO
Gli atti di carità sono molti. Fondamentale atto di carità è amare, quindi l’amore di benevolenza, amore che i latini dicono diligere, dilectio, la quale alla benevolenza aggiunge affetto e compiacimento.
L’amore di Dio deve essere diretto a Dio come causa finale ed efficiente; immediato quindi e non come mezzo ad un fine superiore; totale, sia perché in Dio tutto il bene è essenza, sia perché l’uomo deve dirigere a Dio tutto se stesso, quindi sommo, ossia senza riserva.
L’amore del prossimo non può esser che indiretto, come riflesso dell’amore di Dio; quindi mediato, sebbene dalle creature noi risaliamo al Creatore; parziale per la limitatezza stessa dell’argomento; quindi non sommo, ma subordinato all’amore di Dio.
I. FARE IL BENE.
Gli atti esterni della carità verso Dio formano oggetto della religione. Gli atti esterni della carità verso il prossimo possono ridursi, nel loro senso più ampio, come l’atto di fare del bene al prossimo per amore di Dio; e quindi anche a se stesso in quanto uomo creatura di Dio, destinata a Dio come fine soprannaturale.
II. LA MISERICORDIA (435).
Il fare il bene, quando è rivolto verso i miseri prende i1 nome di misericordia.
Il catechismo cattolico distribuisce le opere di misericordia in due categorie, corporali e spirituali.
a) Le sette opere di misericordia corporale sono. 1) dar da mangiare agli affamati; 2) dar da bere agli assetati; 3) vestire gl’ignudi; 4) alloggiare i pellegrini; 5) visitare gl’infermi; 6) visitare i carcerati; 7) seppellire i morti.
b) Le sette opere di misericordia spirituale sono: 1) consigliare i dubbiosi; 2) insegnare agli ignoranti; 3) ammonire i peccatori; 4) consolare gli afflitti; 5) perdonare le offese; 6) sopportare pazientemente le persone moleste; 7) pregare Dio per i vivi e per i morti.
Così intensa, la misericordia è un dovere di legge naturale e positivo divina: ” Andate maledetti nel fuoco eterno… poiché ebbi fame e non mi deste da mangiare, ebbi sete e non mi deste da bere, fui pellegrino e non mi riceveste; nudo e non mi copriste; ammalato e in carcere e non mi visitaste… quando non faceste queste cose al più piccolo (dei vostri fratelli), non le faceste a me” (436).
Gli atti della misericordia tendono dunque a dare al prossimo l’aiuto di cui ha bisogno sia nell’ordine spirituale, sia nell’ordine materiale. Molte delle opere di misericordia si assommano nell’elemosina, di cui è necessario parlare dettagliatamente. Tra le opere spirituali merita particolare menzione, anche per le difficoltà di applicazione, la correzione fraterna.
III. SOCCORSO ALL’INDIGENZA (437).
1. Nozione.
È l’azione con cui, spinti dalla compassione, si da aiuto materiale all’indigente per amore di Dio.
Formalmente è un atto della virtù della misericordia. Ma poiché la misericordia è effetto della carità, per conseguenza dare l’elemosina è un atto di carità, esercitato attraverso la misericordia. Si può dire, più propriamente, che è un atto elicito dalla misericordia e imperato dalla carità. Può tuttavia venir comandato anche da altre virtù, come la religione, la penitenza, ecc.
L’elemosina è un dovere, che obbliga ogni qualvolta v’è necessità vera da parte dell’indigente e possibilità morale di dare da parte di colui, a cui l’elemosina viene richiesta. Secondo S. Tommaso questa possibilità morale esiste non appena ci sia qualche cosa di superfluo o al di sopra del necessario secondo la nostra condizione (438).
2. Obbligatorietà dell’elemosina.
Il dare l’elemosina è, come si è detto, un dovere di diritto naturale e positivo-divino.
Lo scopo dei beni è il loro uso e consumo da parte dell’uomo. Ora è evidente che, non avendo il proprietario alcun bisogno ragionevole di essi ed essendovi sulla terra altri esseri simili a lui che fanno parte della società umana, la ragione che pure ci presenta l’uomo come membro della società, ci dice che, perché questa società sia ordinata, è necessario che questi beni vadano all’indigente in forza dell’aiuto scambievole, doveroso tra i vari membri della società e della necessità che la vita di ogni membro della società abbia i mezzi necessari alla sussistenza, a cui per il fatto stesso della nascita l’uomo acquista diritto.
Questa dottrina è radicata poi nel diritto positivo-divino, come consta dallo stesso Antico Testamento: ” Non defraudare l’elemosina del povero e non distogliere i tuoi occhi dal povero ” (439). ” Beato colui che viene in aiuto dell’indigente e del povero; nel giorno della sventura il Signore lo libererà “(440) ” … Elargì, diede ai poveri; la sua giustizia rimarrà nei secoli…” (441). Il Nuovo Testamento non è meno esplicito; “Ciò che avanza, datelo in elemosina ” (442). ” Se uno possiede beni di questo mondo, e vedendo il suo fratello nella necessità, gli chiude il suo cuore, come mai l’amore di Dio potrà dimorare in lui? “(443). Ed il testo già citato: “Avevo fame e non mi deste da mangiare, ecc… Quando non avete fatto ciò al minimo dei vostri fratelli, non l’avete fatto a me ” (444).
Nel qual testo è da notare: a) che Cristo stesso dice di essere rappresentato dai poveri, tanto da considerare come fatto o non fatto a sé, quanto viene fatto o non fatto ad essi; b) che la sanzione di pena eterna è pronunziata da Gesù Cristo a chi non soccorre l’indigente. Tutto ciò suppone un precetto, e grave, almeno quando si tratta di sovvenire alla necessità estrema o quasi estrema del prossimo.
L’osservanza di questo precetto è, attraverso i secoli, inculcata ed illustrata: a) dai SS. Padri, come appare da molti testi, tra i tanti, di S. Ambrogio, di S. Basilio, ecc. (445) ; b) dai teologi di ogni tempo, che con le loro discussioni (446) hanno cercato di precisare ancora il motivo e l’entità dell’elemosina (447); dalla prassi di tanti secoli in cui la Chiesa (448) è stata sempre fautrice di ogni opera di carità in misura maggiore o minore, secondo le possibilità dei tempi e dei luoghi e infine dal magistero della Chiesa.
A questo riguardo è noto quanto abbiano fatto i Padri, richiamando i fedeli all’osservanza di questo precetto (oltre all’azione coordinatrice degli ordini ed istituti religiosi e secolari, dedicati alle opere di beneficenza) con l’insegnamento vivo, soprattutto nelle encicliche Rerum novarum di Leone XIII del 15 maggio 1891; e in quella di Pio XI Quadragesimo anno del 15 maggio 1931.
3. Entità dell’obbligo.
Per sviluppare un concetto, già altre volte accennato e che spesso ricorre in morale, quando il prossimo è di fronte al pericolo di perdere la vita od altro male veramente grave che non può da sé superare sia fisicamente che moralmente, si dice trovarsi in necessità estrema o quasi estrema rispettivamente (la quasi estrema è detta anche gravissima: qui è equiparata all’estrema). Se può superarla, ma con notevole incomodo, la necessità si dice grave; se infine può farlo con qualche incomodo non notevole o non grave, la necessità si chiama comune. A riscontro di questi tre gradi di necessità di chi deve ricevere, vanno considerati tre gradi di superfluo in chi deve dare; il superfluo dell’individuo ossia ciò che non è strettamente necessario a vivere; il superfluo della persona, ossia ciò che non è necessario ad un certo sviluppo delle proprie facoltà; il superfluo dello stato, ossia ciò che non è indispensabile per uno sviluppo completo della propria vita, secondo le esigenze della propria persona e del proprio stato.
Tenuti presente i diversi ordini di superfluo e applicando ora i diversi casi di necessità al precetto dell’elemosina, c’è da dire che: a) nei casi di estrema o grave necessità tanto è da darsi o da permettere che si prenda, quanto sia necessario ad uscire da tale necessità; nell’estrema anche dai beni necessari allo stato; nella grave dai soli beni superflui; b) nella necessità comune o in opere di bene, il superfluo da erogarsi varia secondo le facoltà del possessore. I teologi hanno cercato anche di precisare la quantità da erogarsi, per evitare il peccato contro il precetto, in termini matematici, ma forse le cifre dicono poco.
II principio fondamentale per la teologia della giustizia prima ancora che della carità verso i poveri è la destinazione universale dei beni terreni, che non consente di tenere per sé ciò che eccede un margine ragionevole di esigenze proprie e familiari di fronte alle necessità altrui, che si presentano gravi. Si diviene così anche responsabili di fronte alle tensioni sociali.
4. Avarizia.
L’elemosina dev’essere pronta, opportuna, affinché il povero non precipiti nella miseria e disperazione. Al dovere del soccorso all’indigenza è contraria l’avarizia, amore immoderato delle ricchezze, delle comodità e dei piaceri che esse procurano, e che ha per effetto l’indurirsi del cuore, l’ingiustizia, l’allontanarsi da Dio. Dell’eminente dignità dei poveri nella Chiesa ha scritto stupendamente Bossuet: ” Questi sono primogeniti nella Chiesa; bisogna onorarli, assisterli; … con il portar loro sollievo i ricchi si stanno liberando dal proprio fardello, che è quello delle loro ricchezze accumulate, delle quali fanno sovente cattivo uso, e di cui dovranno fendere conto… I poveri sono i privilegiati di Cristo; col venir loro in aiuto il ricco partecipa ai loro privilegi ” (449). Nel medio evo si diceva di solito; il povero è l’inviato di Dio.
5. La carità e le opere sociali.
Il principio fondamentale è questo: ” Chiunque ha ricevuto da Dio abbondanza maggiore di beni temporali o spirituali, ha ricevuto questi sia per la propria perfezione sia per adoperarli a vantaggio degli altri, come ministro della Provvidenza (450). La carità debitamente ordinata deve prevenire la miseria col dare al povero la possibilità di provvedere ai propri bisogni, mentre deve indurre questo a praticare la virtù. I patronati, le scuole artigiane, i giardini operai, le assicurazioni sociali, i sindacati professionali possono contribuirvi in modo cospicuo, riavvicinando i padroni agli operai ed impedendo in tal modo la lotta di classe.
La carità deve ispirare nel caso la realizzazione delle tre Specie di giustizia: la commutativa, la distributiva, la legale e l’equità, onde poter promuovere in tal modo le leggi più giuste e far applicare queste con equità.
Com’è ovvio, la giustizia non basta da sola ad assicurare la concordia e la pace; occorre pure la carità, visto che neanche la giustizia può essere perfetta senza di questa; anzi senza di questa può essere, a volte, tentata a ricorrere a mezzi illeciti di violenza (451).
IV. LA CORREZIONE FRATERNA.
È pure un altro dovere di carità, che obbliga quando il prossimo ha sicuramente commesso un peccato grave, il quale cagiona effettivamente danno a un’altra persona, alla famiglia od alla comunità mentre v’è da sperare ch’egli, ammonito, si corregga, in modo che la correzione possa venire effettuata senza inconveniente notevole.
1. Varie specie di correzione.
Si distinguono tre specie di correzione: la correzione paterna, giudiziaria e fraterna. La correzione paterna fatta per correzione è uno dei doveri di pietà dei genitori, degli esercenti la patria potestà o più generalmente degli esercenti la potestà dominativa sui figli, pupilli o sudditi.
La correzione giudiziaria è quella eseguita dal superiore, in quanto tale, allo scopo di tutelare in primo luogo il bene della comunità e solo indirettamente per rimettere l’errante nella via del bene. Costituisce obbligo di giustizia.
2. Correzione fraterna.
La correzione fraterna è invece dovere di carità. È innanzitutto ispirata dalla legge naturale, essendo una speciale applicazione dell’amore che si è tenuti a portare al prossimo. È stata poi riaffermata e perfezionata dalla legge positivo-divina (Mt 18, 15).
L’obbligo è grave, purché però si verifichino alcune condizioni e cioè: a) ci sia la certezza che il prossimo è caduto in una grave mancanza; b) si possa ritenere che la correzione sia efficace; e) si debba ritenere pure che il prossimo non si risollevi, se non viene richiamato; d) la correzione fraterna non sia per chi la deve compiere eccessivamente gravosa (452). L’ordine da osservarsi
nella correzione fraterna è stato insegnato da Gesù Cristo stesso (453). La correzione dev’essere fatta prima in segreto; se ciò non giovi, venga ripetuta in presenza di testimoni; se anche ciò non dà frutto, si proceda alla denunzia ai superiori. L’ordine dev’essere normalmente osservato per non compromettere la fama del prossimo. Si può da esso recedere, quando il peccato o il male già fosse pubblico o vicino ad inevitabile pubblicità. Se ne deve recedere pure quando altrimenti ne soffrissero danno i terzi o la comunità. Quanto al modo, deve farsi sempre con mitezza, con delicatezza, umiltà e dolcezza. La cattiva volontà di umiliare il fratello caduto od errante, lo spirito di vendetta, anziché giovare, aggraverebbero la situazione.
Gli scrupolosi sono scusati da questo dovere, perché, per il loro carattere, non potrebbero adempierlo senza riuscire molesti. Ma anche senza essere scrupolosi è così difficile avere il tatto necessario per adempiere a questo dovere, che pure è di prima necessità nell’ordine sociale. Ciò spiega come questo precetto sia purtroppo così poco praticato.
Va aggiunto anche uno spirito di eccessivo individualismo, diffuso da idee e da tendenze razionaliste e liberali.
V. VERITÀ E CARITÀ.
Quando si tratta di conciliare la carità con la verità, è facile incappare in due errori opposti; l’uno consiste nel menomare la verità per debolezza, la quale vorrebbe presentarsi come carità, mentre è solo liberalismo; l’altro invece consiste nel dimostrare per la verità uno zelo aspro ed interessato, alieno dalla vera carità. Succede pure che uno sia propenso a commettere sia l’uno che l’altro errore per opportunismo, a seconda delle circostanze, rimanendo in tal modo nella mediocrità, a mezza strada, invece di alzarsi alla perfezione cristiana. Questa è una cima, in cui la verità e la carità vengono a conciliarsi nel vero zelo disinteressato, paziente e dolce, e nondimeno forte, lo zelo per la gloria di Dio e la salvezza delle anime. Lo vediamo nella vita dei Santi, i quali da una parte difendono con grande fortezza tutta la verità rivelata, senza venire a nessun compromesso con l’errore, mentre dall’altra dimostrano tanta misericordia a quelli che si smarriscono nell’errore. Questa misericordia, unitamente ad una fede fortissima, piega l’ostinazione degli erranti, mentre nessuna incauta concessione, nessuna attenuazione della verità li potrebbe convertire.
VI. PECCATI CONTRARI ALLA CARITÀ FRATERNA.
I peccati Contrari alla carità fraterna sono l’invidia, la detrazione, il rallegrarsi del male capitato al prossimo o il rattristarsi per la prosperità di questi, la discordia, come pure lo scandalo e la cooperazione all’altrui peccato.
Di molti di questi vizi si è già parlato in diverse occasioni, perché spesso offendono anche altre virtù. Resta ancora qualche cosa da dire: della discordia, dello scandalo e cooperazione al male.
VII. DISCORDIA (454).
La divergenza di opinioni, anche se spesso prepara il terreno, non è ancora tuttavia discordia, per la quale occorre la divergenza di due o più volontà circa lo stesso bene necessario, accettato dagli uni e respinto dagli altri. La malizia non è nel discostarsi delle volontà, ma nel rifiuto del bene da parte di uno o alcuni, per voluttà, spesso, di affermare la propria volontà di fronte alle altre.
Di per sé la discordia offende la virtù per cui è obbligatorio alla volontà lo stesso bene. Può essere la pietà, la giustizia; ma generalmente è la carità. La discordia produce bene spesso contrasto nell’azione, dispersione di forze, con ripercussioni, non di rado gravi, sul convivere sociale, La sua azione tende alla distruzione, come ebbe a dire Gesù: Omne regnum contra se divisum desolabilur (455).
VIII. SCANDALO (456).
1. Nozione. Scandalo è un detto o un fatto, non retto, che offre ad altri occasione di rovina spirituale.
Scandalo attivo si dice l’azione di chi da scandalo, mentre vien detto scandalo passivo il peccato di colui che si è lasciato trascinare dallo scandalo. Lo scandalo attivo può essere diretto (se è voluto) o indiretto (se non voluto, ma previsto). Il diretto può essere poi a sua volta o formale (si dice anche diabolico), se lo scandalo è inteso come fine principale, oppure semplicemente diretto, se lo scandalo è inteso come fine secondario.
Lo scandalo passivo si suole invece dividere in dato (datum), che è poi quello che viene provocato dall’azione veramente cattiva, e in ricevuto (acceptum), che è poi quello che viene occasionato da un’azione in sé buona.
Quest’ultimo più che dall’azione esterna di chi agisce è provocato dalla ignoranza o dalla malizia di chi prende motivo di scandalo da un’azione in sé buona o indifferente. Se è provocato da ignoranza si chiama scandalo dei pusilli (pusillorum); se da malizia, si chiama scandalo farisaico (così detto dal modo di agire dei farisei, che, data la loro malizia, prendevano motivo di scandalo perfino dalle azioni sante del Divin Salvatore).
2. Malizia.
a) Lo scandalo diretto è peccato mortale ex genere suo, sia contro la carità, sia contro quella virtù, contro cui si induce il prossimo a peccare.
Che sia peccato contro la carità è evidente dal fatto che con questo peccato si va direttamente contro uno dei precetti della carità, che è quello di aiutare il prossimo nelle sue necessità spirituali. Che sia un peccato contro la virtù che viene lesa è pure facilmente comprensibile, se si pensa che da parte di chi da scandalo vi è una cooperazione positiva a quel peccato. Che il peccato in sé sia grave si può facilmente arguire dalle tante parole, pronunziate da Gesù contro coloro che osano dare scandalo: ” Chi poi scandalizzerà uno di questi piccoli, che credono in me, meglio sarebbe stato per lui che una macina da mulino gli fosse stata messa attorno al collo e fosse stato sprofondato in mezzo al mare ” (457).
La colpa sarà tanto più grave, quanto più il peccato del prossimo è voluto, l’azione influisce nel peccato del prossimo, ed il peccato commesso dal prossimo è più grave.
b) Lo scandalo indiretto è peccato contro la carità, ma non contro quella virtù che viene lesa tramite lo scandalo. Così ritengono la maggior parte dei teologi, contro il parere di alcuni, che anche qui vorrebbero vedere la seconda malizia (458).
1) Da ciò ne consegue che chi senza motivo sufficiente causa indirettamente scandalo con un’azione in sé buona o indifferente, pecca solo contro la carità (ad es. uno che regolarmente dispensato mangiasse carne di venerdì in presenza di altri).
2) Ne consegue pure che chi da scandalo indiretto con un’azione cattiva, perpetrata in presenza di altri, commette un doppio peccato, l’uno contro la virtù che lede con la sua azione, l’altro contro la carità; ma non pecca contro la virtù che verrà lesa da colui che prende scandalo dalla sua azione (ad es. il rubare dinanzi ad altri).
3) Chi colpevolmente da scandalo indiretto in presenza di più persone, probabilmente commette tanti peccati, quante sono le persone, essendo ognuna di esse soggetto a sé.
4) Un’azione per propria natura gravemente peccaminosa, commessa dinanzi ad altri, non è scandalo, se non esercita di fatto nessun influsso in coloro che assistono.
3. Obbligo di evitare lo scandalo.
a) Lo scandalo farisaico può essere permesso senza peccato, se vi è una causa ragionevole di agire. Dipende infatti totalmente dall’altrui malizia.
b) Lo scandalo dei pusilli deve essere evitato ogniqualvolta lo si può, senza grave incomodo. La carità infatti ci obbliga ad impedire il male del prossimo quando lo si può con facilità.
c) Non è peccato di scandalo permettere o anche dare, per giusta causa, occasione di peccato ad altri, con un’azione onesta. Difatti permettere il peccato non è un male in sé; anche Dio lo fa. Si possono in caso applicare pienamente le regole del volontario indiretto.
Da quanto si è detto ne consegue; 1) che è lecito per una causa ragionevole chiedere ad altri ciò che altri non ci daranno senza peccato, quando l’azione altrui non è in sé intrinsecamente cattiva, ma diviene peccato solamente per l’altrui malizia. Ad es. chiedere i Sacramenti ad un sacerdote indegno; 2) che è lecito consigliare ad altri il minor male, come già si è detto, quando questo male minore è già virtualmente compreso in un’azione più vasta di peccato, alla quale chi viene consigliato era già determinato; in altre ipotesi un tale consiglio è illecito.
4. Riparazione dello scandalo.
Lo scandalo pubblico deve essere riparato pubblicamente; lo scandalo privato deve essere riparato dinanzi a quelle persone che sono state di fatto scandalizzate. Realizzare una simile riparazione è assai diffìcile; ciò deve essere un motivo di più per trattenerci dal dare scandalo (459).
IX. COOPERAZIONE AL MALE O AL PECCATO.
La cooperazione è qualche cosa di diverso dallo scandalo. Mentre infatti lo scandalo provoca la colpa altrui, la cooperazione presuppone in genere la colpa altrui (salvo che nel mandato) e vi si aggiunge, in quanto è complicità nella colpa (460).
Dopo quanto si è detto, parlando della cooperazione in materia di giustizia, non vi è molto da aggiungere. Va ricordato che non è mai lecita la cooperazione formale al peccato altrui: la cooperazione materiale può essere qualche volta lecita, purché vi sia una ragione sufficiente e l’intenzione sia retta. La ragione è data dal fatto che siamo obbligati ad evitare il peccato altrui per precetto di carità, la quale non obbliga con grave incomodo.
1. Vari casi di cooperazione.
Casi di cooperazione al peccato possono presentarsi a tutte le categorie. Sono più esposte però le persone di servizio, che hanno un contratto di lavoro e di locazione di opera; i commercianti o i pubblici esercenti, in particolare per il loro continuo contatto con il pubblico; gli editori, i tipografi, i giornalai e gli scrittori; gli imprenditori di teatro o di cinema, e più ancora la gente del teatro e del cinema; gli osti o gli albergatori; i professionisti ed in particolare i medici, i magistrati ed i giudici; gli uomini di governo, i deputati, cui è connessa la potestà legislativa ed i loro elettori. Di alcuni di costoro e dei casi più singolari si è parlato nella cooperazione in materia di giustizia e di religione.
Va solo qui notato che questa della cooperazione al male, specie la cooperazione materiale, è in pratica una grave questione che presenta tanti svariati aspetti e di difficile soluzione, ed è tuttavia di quotidiana applicazione.
2. Antichità e difficoltà del problema.
Non solo nel periodo della elucubrazione teologica i teologi moralisti se ne preoccuparono e ne scrissero, ma fin dai primi tempi questioni del genere tennero impegnati i padri e gli scrittori cristiani. Basti ricordare un Tertulliano, che in proposito ebbe delle tesi piuttosto rigide (461).
Problemi che angustiavano i primi cristiani tornano ad affacciarsi anche oggi nel mondo missionario e fuori, sulla liceità ad es. per un cristiano di fabbricare statue e immagini degli dei, i loro templi, ecc.: lo stesso si ripete per i cattolici nei confronti degli eretici.
Molti nuovi casi di cooperazione hanno creato le legislazioni laiche moderne pel magistrati, funzionari, ecc., nell’applicazione, ad es., di leggi sul divorzio, sulla scuola laica, sulla confisca dei beni ecclesiastici. Spesso le questioni sono rese ancor più ardue dal sopravvenire di speciali condizioni di dipendenza o della posizione economica delle persone in questione. Al lume dei princìpi esposti la coscienza del cristiano dovrà orientarsi, quando manchi un più diretto intervento del magistero ecclesiastico.
I princìpi che regolano il risarcimento dei danni intercorsi in tema di cooperazione proibita spettano alla dottrina della restituzione e ne abbiamo già visto. La materia della cooperazione illecita forma a volte oggetto di particolari sanzioni in foro esterno, ed allora la cooperazione al peccato diventa cooperazione al delitto.
Per le interferenze tra cooperazione ed occasione di peccato occorre, per ragioni pratiche, rimandare al trattato della penitenza; qualche cenno si può vedere nel trattato del peccato (462).
Oltre il danno materiale, c’è spesso il danno spirituale, come conseguenza della cooperazione. Anche questo è da ripararsi nei limiti del possibile, e ciò per giustizia, quando si tratti di persone che per ufficio dovevano provvedere all’incremento spirituale di quell’anima che invece danneggiarono con la cooperazione; o di persone che usarono mezzi ingiusti o formalmente cooperarono all’ingiuria. Del resto la carità esige, e in caso di scandalo l’abbiamo già detto come, che il danno si ripari nei limiti del possibile.
3. Frutti della carità.
Riepilogando quanto a diverse riprese si è detto sulla carità, la dottrina cattolica insegna: ” Dobbiamo amare Dio per se stesso, come il sommo Bene, fonte d’ogni nostro bene; e perciò dobbiamo anche amarlo sopra ogni cosa con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutte le forze ” (463).
” Dobbiamo amare il prossimo per amor di Dio che ce lo comanda, e perché ogni uomo è creato ad immagine di Dio, come noi, ed è nostro fratello” (464).
” Siamo obbligati ad amare anche i nemici, perdonando le offese, perché sono anch’essi nostro prossimo, e perché Gesù Cristo ce ne ha fatto espresso comando ” (465).
Solo la carità può assicurare e colmare la giustizia, solo la carità può consolidare e fecondare la pace.
I frutti della carità infatti, anche per noi viatori in questa valle di lacrime, sono: 1) l’amicizia con Dio; 2) il gaudio ineffabile del cuore, balsamo per gli inevitabili dolori di questa terra di esilio, anticipazione di paradiso; 3) la pienezza della giustizia; 4) la pace fraterna tra i figli di Dio, ” fatti tutti a sembianza di Un solo, figli tutti di un solo riscatto “;
5) la misericordia verso tutti i tribolati, nei quali si ravvisa sofferente lo stesso Figlio di Dio, il nostro Redentore; 6) le opere di civiltà più ardue e più fulgide in una gara di eroismi che solo la carità cristiana ha saputo e potuto dare.
NOTE A DOVERI DI CARITÀ
435 La misericordia può essere presa come passione ed allora è nient’altro che la tristezza. Può essere presa come virtù morale speciale, cioè come l’abito che inclina la volontà alla dovuta compassione verso l’altrui miseria ed al soccorso della medesima. Può ancora essere considerata come volontà caritativa, tesa a sollevare l’altrui miseria ed allora non è distinta dalla carità. Sebbene di fatto sia una virtù speciale, tanta è la connessione con la carità, che conviene parlarne insieme.
436 Mt 25, 41-45.
437 Cfr. SOTO, De iustitia et iure, 1. 5, q. 3, a. 4; LESSIO, De ìustitia et iure ceterisque vìrtutibus cardinalibus, 1. 2, c, 12, d. 12; c, 16, dub. 1; HERVATH, Eigentumsrecht nach dem hl. Thomas von Aquin, Graz 1929; N, Russo, L’elemosina, Palermo 1902; L. BOUVIER, Le précept de l’aumóme chez St. Thomas d’Aquin, Montreal 1935; O. LOTTIN, La nature du devoir de l’aumóme chez les predecesseurs de St. Thomas d’Aquin, in Ephem. theol. Louv., 15 (1938) 613-624; C. DAMEN, Derecto usu bonorum superfluorum, in Miscellanea Vermeersch, I, Roma 1935, 63-79; D. ROPS, La miseria e noi, Milano 1936; A. FANFANI, La miseria e i cultori di scienze sociali, in Rivista internazionale di scienze sociali (1941); ID., Colloqui sui poveri, Milano 1944; J. PIROT, Jésus et la richesse, Marsille 1944; A. VYKOPAL, La dottrina del ” superfluo ” in S. Tommaso, Brescia 1945; H. MULTZER, Proprietà senza furto, Milano 1948; THEOPHILUS AB ORBISIO, Vae divitibus malis (Jac. 5, 1-6), in Verbum Domini, 26 (1948) 71-87; H. BREN, De sociali ligatione superflui, in Antonianum, 22 (1947) 49-64; M. ZARA, El motivo de la limosna, in Fomento social, 3 (1948) 421-426; G. B. GUZZETTI, Elemosina, in EC, V, 198-200; G, MANACORDA, Ricchezza e povertà nel millenario pensiero cristiano, in Humanitas, 7 (1952) n. 11; 8 (1953) n. 1 e 6; E. LIO, Osservazioni critico-letterarie e dottrinali nel famoso testo ” proprium nemo dicat ” e testi connessi, in Franciscan Studies, 12 (1952) 214-231; ID., De editione critica operum S. Bernardini Senensis ac de quodam fragmento sermonis circa eleemosynam eidem attributi, in Antonianum, 28 (1953) 321 ss.: ID., Povertà, in EC, IX, 1867-1872; ID., Determinatio “superflui” in doctrina Alexandrì Halensis eiusque scholae, Romae 1953; E, QUARELLO, La vocazione dell’uomo: l’amore cristiano, Bologna 1971.
438 S. Theol. 2-2, q. 32, a. 5 ad 3.
439 Eccli. 4, 1. Cfr. ancora: Dt 15, 11; Tb 4, 7-12.
440 Sal 40, 1. Cfr. ancora: Pro 14, 21; 22, 9.
441 Sal 111, 8. Cfr. ancora il libro di Tobia, dove si afferma che l’elemosina ottiene tutte le grazie, non esclusa la cancellazione dei peccati (Tb 4, 7-9; 12, 9; e inoltre: Sir 3, 33; 7, 36; Dn 4, 24). L’elemosina è preferibile ai digiuni ed agli stessi sacrifici (Is 1, 11-17; 58, 5-7). Alcune forme concrete di aiuto ai poveri sono indicate nel Lv 19, 9 s,; 23, 22; Dt 14, 28; 24, 20.
442 Lc 11, 41. A prescindere che il Vangelo propone la cessione dei beni ai poveri come uno dei presupposti della perfezione (Le 18, 18-23), mostra il soccorso ai poveri come doveroso anche nella Via ordinaria con innumerevoli esemplificazioni (cfr. la parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro, Le 16, 19-31; del fattore infedele, Lc 16, 1-13; la parabola del buon samaritano, Lc 10, 30-37), Mette in guardia dalla ostentazione (Mt 6, 2-19).
443 1 Gv 3, 1. Cfr, ancora: 1 Tm 6, 17; Gc 2, 15; 1 Gv 3, 17. Il ragionamento di S. Giovanni procede a malore ad m’mus. Il cristiano, su l’esempio di Cristo, deve essere disposto a sacrificare anche la vita per il fratello (1 Gv 3, 16); ora come può dirsi che abbia in sé operante l’amore di Dio, colui che non sa sacrificare neppure una parte dei beni terreni ( **** ) che possiede, per sollevare il fratello, che vede e conosce ( *** ) in necessità?
444 Mt 25, 41-46.
445 HERMAS, Mand., 2; TERTULLIANO, Apolog., c. 39 (PL 1, 470-478); CIPRIANO, De opere et eleemosynis, 1. 1, c. 30-34 (PL 16, 65-74); S. AGOSTINO, Serm., 36; 41, 42, 60, 61, 85, 86 (PL 38, 215-221; 247-251; 251-254; 402-409; 409-414; 520-523; 523-530). S. GREGORIO MAGNO, Mor., 1. 21, c. 16-17 (PL 76, 204-205); CLEMENTE ALESSANDRINO, Paedag., 1. 3, c. 6 (PG 8, 603-607); Stromata, 1. 2, c. 18 (PG 8, 1015-1039); CIRILLO GEROSOLIMITANO, Cathech., 15, 26 (PG 33, 907); S. GREGORIO NISSENO, De pauperum amore (PG 35, 858-910).
Il celebre testo, ripetuto nel 1, 1 de off., c. 30 di S. Amhrogio: Pasce fame morientem, si non paveris, occidisti, non è suo, ma preso da S. Gregorio Magno. Di S. Ambrogio cfr. anche l’altro testo: Esurientium panis est, quem tu detines; nudorun indumentum est, quod tu recludis; miserorum redemptio et absolutio est pecunia, quam tu in terram defodis. Lo stesso concetto ribadisce S. Basilio (In Lc 12, 18; destruam horrea meo).
446 Basti citare S. Tommaso, il massimo del teologi: S. Theol. 2-2, q. 32, a. 5, e q. 66, a. 7. Egli, dopo di aver ricordato l’amore del prossimo essere un precetto, soggiunge essere quindi necessario che cada sotto lo stesso precetto tutto ciò senza cui esso non può conservarsi. Ora all’amore del prossimo spetta non solo volergli bene, ma fargliene (diligamus… opere et veritate: 1 Gv 3, 18). L’occasione di fare del bene a qualcuno è data soprattutto dal caso di necessità, in cui pertanto è comandata l’elemosina.
447 Quanto al motivo alcuni hanno ritenuto e ritengono che si tratti solo di un dovere di carità (Soto, Lessio, tra i recenti M. Zara); altri ricorrono alla giustizia sociale, attorno alla quale abbiamo già visto quante controversie vi siano per definirla (Gaietano, Damen); altri infine si spingono fino alla giustizia commutativa (Horvath), la quale ultima opinione appare sempre più fondata su una certa corrente della teologia medievale. Cfr, E. Lio, De elementis traditionalibus iustitiae in primaeva scbola franciscana, in Franciscan Studies, 10 (1950) 164-185, 286-312; 441-458 e gli altri studi, già citati. Cfr. ancora: J. A. GARIN, El precepto de la limosna en un commentario inèdito del Maestro Fray Domingo de Soto sobre la cuéstion 32 de la II-II de Santo Thomàs, Santiago del Chile 1949; E. Lio, La destinazione universale dei beni terreni nella dottrina del Concilio Vaticano II, Roma 1971.
448 L’esercizio della carità fu subito una delle caratteristiche della Chiesa primitiva. La matrona romana Fabiola che per prima istituì un ospedale per gli infermi poveri; Pammachio che creò a Porto Romano un asilo per i pellegrini; Belisario che nel VI secolo fondò a Roma un ospizio per i poveri, sono gli esempi più vistosi di tutta una tradizione di elemosina fatta per amore di Dio.
Nel medioevo le opere di carità a favore dei poveri si estesero sotto la direzione del Papato, ma assunsero multiformi aspetti attraverso l’azione dei vari ordini religiosi e delle confraternite, a sfondo professionale, Per il cristiano del medioevo il mendico è non solo un fratello, ma è anche un mezzo con il quale si offre al benefattore l’occasione di acquistare meriti soprannaturali e di redimere i propri peccati.
Ma verso la seconda metà del secolo XV, a causa dell’aggravarsi delle condizioni generali per opera delle numerose guerre, delle epidemie e delle pubbliche calamità, attenuatesi lo spirito cristiano in conseguenza dell’umanesimo e della riforma, l’opera assistenziale della Chiesa non appare più sufficiente. Intervengono allora in questa epoca, e più ancora in seguito, gli Stati che cominciano a provvedere alla fondazione di pii istituti, specialmente nel campo ospedaliere.
Nei paesi protestanti tutti i beni delle Opere di beneficenza ecclesiastiche vengono secolarizzati. Ma nei paesi cattolici, contemporaneamente all’intervento dello Stato, si ha un risveglio da parte della Chiesa attraverso la creazione, dopo la controriforma cattolica, di istituzioni di beneficenza ad opera dei nuovi ordini dei Teatini, Barnabitì, Somaschi. Gesuiti, e più tardi degli ospedalieri di San Camillo de Lellis, delle Figlie della carità di San Vincenzo de’ Paoli ecc. Questa rinascita continua per tutto il secolo XVII e per la prima metà del secolo XVIII.
Ma nella seconda metà del secolo XVIII, sotto l’influsso dei nuovi insegnamenti dell’illuminismo, si ricomincia ad avere degli scopi della beneficenza non più un concetto cristiano e quindi soprannaturale, ma una considerazione semplicemente naturale. Non sono più la fede e la carità a spingere gli uomini a fare il bene ai bisognosi, ma è la semplice ragione illuminata, è l’ambizione di essere utili agli altri. Frutto di queste dottrine è l’affermazione di un diritto dell’individuo povero concepito come principio di assistenza. Principio che viene assunto dalla legislazione rivoluzionaria francese del 1793. Quindi, in quasi tutta l’Europa si consolidano definitivamente il concetto della beneficenza considerata come dovere dello Stato con un corrispondente diritto del povero e il concetto dell’ingerenza conseguenziale dello Stato nell’amministrazione degli enti di beneficenza.
D’ora in poi l’opera della Chiesa comincia ad essere riguardata solamente come sussidiaria a quella dello Stato, sovvertendosi in tal modo un aspetto divenuto ormai secolare in tal genere di rapporti.
Fino a questa epoca il funzionamento degli istituti assistenziali si era mantenuto pressoché uniforme nel mondo civile, poiché la funzione caritativa era opera della Chiesa e questa in conseguenza della sua natura universale caratterizzava in questo senso la sua azione. D’ora innanzi invece, la funzione assistenziale si differenzia da Stato a Stato.
Tra i popoli anglosassoni l’ingerenza statale, detta beneficenza o carità legale, si sviluppa in un modo completo e organico poiché non solo quei popoli raggiunsero rapidamente una solida struttura statale, ma anche perché presso di essi non si è avuta quella fioritura di beneficenza spontanea caratteristica nei paesi latini. Le poche istituzioni ivi esistenti a sfondo cattolico andarono distrutte per effetto delle rivoluzioni dei secoli XVI e XVII.
Nei paesi cattolici si tende a rivalutare l’importante tradizione della carità privata, la cui forza sempre viva è sperimentata specialmente negli anni di guerra 1939-1945 e del dopo-guerra; e a vedere nello Stato solo l’ente coordinatore e di controllo.
449 Cfr. anche la bella conferenza di Lacordaire sulla carità fraterna: conférences de Notre-Dame de Paris, II, [a. 1844-1845], Paris 1877, 95 ss,
450 Rerum novarum, n, 16, II principio è ripreso da Pio XI nella Quadragesimo anno, n. 19 (AAS 23 [1931] 191); da Pio XII, che lo connette espressamente con la virtù della giustizia, oltre alla carità (enc. Sertum laetitiae, AAS 31 [1939] 642); da Giovanni XXIII (All. concist, del 14 dicembre 1960: AAS 52 [1960] 5-11), dal Concilio Vaticano II (cost. past. Gaudium et spes, n. 69). Cfr. l’esegesi del testo conciliare in E. Lio (La destinazione universale dei beni terreni…, p. 29 ss.).
451 Sul tema della violenza vedi quanto si è brevemente detto a proposito della virtù della fortezza. Cfr. ancora: La violenza. Atti della settimana degli intellettuali cattolici francesi, Roma, ed. AVE, 1968,
452 S. Theol. 2-2, q. 35, a, 3,
453 Mt 18, 15 ss.: ” Se il tuo fratello ti offenderà, va e riprendilo a solo a solo con lui. Se ti udirà avrai guadagnato il tuo fratello. E se non ti udirà, prendi con te due o tre testimoni… E se egli non li udirà, denunzialo alla Chiesa “. Sulla correzione fraterna, cfr. I. A, COSTELLO, Moral obligation of fraternal correction, Washington 1949.
454 S. Theol. 2-2, q. 37; ST. CARTOH DE WIART, Tractatus de peccatis et vitiis in genere, Mechliniae 1932.
455 Lc 11, 17.
456 Cfr. G. J. WAFFELAERT, Dissertations morales. La coopération au mal. L’espéce morale du scandalo 2, Bruges 1892; F. TER HAAR, Casus conscientiae de praecipuis peccandi occasionibus, Taurini 1934; N. JUNG, Scandale, in DTC, XIV, 1246-1254; G. B. GUZZETTI, Scandalo, in EC, XI, 11-13; A. HUMBERT, Essai d’une théologie du scandalo dans les synoptiques, in Biblica 1 (1954) 1-28; L, BASINI, Scandalo, in Dizionario enciclopedico di teologia morale, ed. Paoline, 2a ed., 873-877.
457 Mt 18, 6 ss. L’opinione del VASQUEZ (Commentariorum ac disputationum in Summam Theol. 5. Thomas Aq,, vol, VIII, in 1, 1-2, 3 partem, Lugduni 1631, d. 102, e. 7, n. 23-24) che lo scandalo diretto formale sia peccato mortale ex toto genere suo è comunemente rigettata.
458 Che lo scandalo solo se diretto e formale fosse peccato specifico contro la carità fu sostenuto, tra gli altri dal VASQUEZ (o. e., d. 102, e. 1, n. 1-2), dal SANCHEZ (Opus mor. in praec. Decal., t. I, e. 6, p. 17-20), dall’AZOR (Inst. mor., V. 2, 1. 12, c. 16, col. 1151 ss.) ecc. Oggi però è ritenuto peccato specifico contro la carità ogni specie di scandalo, anche indiretto. Così pure fu il VASQUEZ (Opuscula moralìa in aliquot quaestiones 2-2, Lugduni 1631, de scandalo, n. 26), seguito da pochi, a sostenere che anche nello scandalo indiretto si fa propria la malizia del peccato di colui il quale patisce lo scandalo, che, nel caso, non è voluto dall’agente, ma solo previsto.
459 L’aspetto esteriore è dannificatore del prossimo, incluso nello scandalo, ha richiamato l’attenzione del legislatore, soprattutto ecclesiastico (cfr. can. 2147, 2168-2181, 2182-2185, 2218 § 1; 2222 § 1; 2242 § 3; 2251), ma anche dei legislatori civili (cfr. Cod. pen. it., art. 519-521, 527, 553, 726, ecc.).
460 Cfr. la bibliografia citata quando si è parlato di cooperazione in materia di giustizia. In pratica è meno facile distinguere tra scandalo e cooperazione, specialmente quando questa si attua sotto forma di consiglio.
461 Cfr. il De corona; così: CLEMENTE ALESSANDRINO, S. AGOSTINO (In Ps. 18, 2, 13; Sermo 88, 19).
462 Cfr. A. LANZA – P. PALAZZINI, Principi di Teologia morale. I. Morale generale, Roma 1963, 207-208.
463 Catechismo del Conc. di Trento, n. 241.
464 L. c, n. 242.
465 L. c., a. 243.