di LUCIANO BENASSI. La rivoluzione evoluzionistica, l’evoluzionismo scientifico, i suoi principi ed i suoi inganni
[Tratto da: http://www.alleanzacattolica.org/indici/articoli/benassil95.htm ]
Il 19 aprile 1882, compiuti da poco i settantatré anni, Charles Robert Darwin moriva nella sua casa di Down, nel Kent. Gli sopravvivevano la moglie Emma, sette dei suoi dieci figli, una mole notevole tra libri, articoli e memorie scientifiche; ma il suo nome sarebbe rimasto indissolubilmente legato a una delle maggiori mistificazioni della storia della scienza e della cultura occidentale: la teoria della evoluzione (1).
I. La rivoluzione evoluzionistica
A cento anni dalla scomparsa, il mondo scientifico ufficiale, con grande dispiego di mezzi, ha celebrato nel 1982 l'”anno darwiniano”. Quotidiani, settimanali, riviste di divulgazione hanno offerto generosamente le proprie pagine alla memoria del “fondatore” e alla diffusione del suo “messaggio”: una claque invadente e ossessiva ha applaudito senza interruzione alle vecchie tesi evoluzionistiche riproposte, come sempre, secondo enunciati ambigui e sfuggenti e con il consueto corredo di “prove” (2). Lo spazio per il dissenso è stato pressoché nullo e su ogni voce discorde è stata fatta gravare un’atmosfera ora di ironia, ora di disinteresse. Non è consentito avere dubbi “sulla validità della teoria […]. L’impostazione corretta di questo dubbio non è […] “se l’evoluzione è vera”, ma se sappiamo tutto dell’evoluzione” (3).
Della evoluzione, in pratica, si conosce ben poco. Giuseppe Montalenti, presidente dei Lincei, fautore e divulgatore in Italia della teoria evoluzionistica, ammette, per esempio, che “non è a credere che tutto sia chiaro, che tutti i problemi siano risolti. Al contrario, molti rimangono aperti e intorno a essi si discute e si ricerca molto. […] Molti e gravi sono i problemi anche in quello che abbiamo chiamato l’aspetto storico dell’evoluzione. Il quadro del processo evolutivo appare disegnato nelle sue grandi linee in modo abbastanza attendibile, ma quando si cerca di fissare il particolare si incontrano spesso grandi difficoltà” (4).
Se le difficoltà permangono, come sempre, e se nessun fatto nuovo, nessuna verifica sostanziale sono intervenuti in questi cento anni a fare sì che l’evoluzionismo sia qualcosa di più di un disegno “attendibile” soltanto nelle sue “grandi linee”, le celebrazioni riservate a Darwin e alla sua teoria, fatto anomalo nella storia della scienza, inducono a un atteggiamento di sospetto. Il sospetto cade e diviene certezza se si considera che Darwin e l’evoluzionismo sono troppo importanti per essere lasciati al vaglio della usuale metodologia scientifica: non tanto per il rischio di vedere cadere ciò che affermano, quanto per il timore di dovere affermare ciò che negano. Ne ha chiara coscienza Francois Jacob, evoluzionista, premio Nobel per la medicina nel 1965: “Quello che Darwin ha mostrato è che per rendere conto dello stato attuale del mondo vivente non c’era affatto bisogno di ricorrere ad un Ingegnere Supremo. […] Tuttavia se l’idea di un progetto, di un piano generale del mondo vivente, stabilito da un creatore è scomparsa con il darwinismo, questo ha conservato un alone di armonia universale” (5). Quindi, per evitare che l’“Ingegnere Supremo”, cacciato dalla porta principale più di cento anni fa, rientri per quella di servizio attraverso la oggettiva constatazione della “armonia” della sua opera, ovvero della perfezione e della finalità delle sue parti, si rende necessario un costante rilancio della teoria evoluzionistica, nel quale non siano discussi e criticati i dubbi e le prove, ma sia posto l’accento sull’impatto rivoluzionario che essa ha avuto e continua ad avere su ogni concezione del mondo che faccia ricorso a un creatore.
Un creatore presuppone una volontà, e una volontà esprime una intenzione, un progetto: ebbene, continua Jacob, “la teoria della selezione naturale consiste precisamente nel capovolgere questa affermazione. […] In questo rovesciamento, in questa specie di rivoluzione copernicana sta l’importanza di Darwin per la nostra rappresentazione dell’universo e della sua storia” (6). Se poi si considera che la concezione tradizionale del mondo “ha nella dottrina cristiana il suo più saldo fondamento” (7), non è difficile collocare il movimento evoluzionistico nel quadro più ampio del movimento che il pensiero contro-rivoluzionario denomina “Rivoluzione” e che si realizza nella lotta e nella demolizione tematica di ogni espressione conforme a quella dottrina: sul piano religioso, su quello politico-sociale-istituzionale, su quello economico, fino a colpire, da ultimo, i legami microsociali e l’individuo stesso.
Seguendo lo schema di Plinio Corrêa de Oliveira (8), lo svolgimento storico mette in evidenza, dalla fine dei Medioevo cristiano, una I Rivoluzione, protestantica, che distrugge i legami religiosi; una II Rivoluzione, liberale-illuministica, che distrugge i vincoli e i legami dell’antico ordine sociale; una III Rivoluzione, comunistica, che abolisce il residuo ordine economico. Ma, ulteriore al comunismo, Corrêa de Oliveira intravede una “IV Rivoluzione nascente” (9), il cui tratto saliente sta nel carattere ristretto del suo campo d’azione: i legami microsociali, cioè la trama di relazioni che ogni uomo tesse in quanto membro di una comunità, di una famiglia, in quanto genitore. E dopo i legami microsociali, spesso in diretta relazione con essi, si pone l’ordine interiore della persona, che trova nella gerarchia intelletto-volontà-sensibilità il riferimento di ogni azione e di ogni manifestazione.
V’è ora da chiedersi: se l’evoluzionismo, come non esitano ad affermare i suoi esponenti più rappresentativi, è una rivoluzione, nel senso di “sovvertimento” e non in quello, purtroppo diffuso, di semplice “cambiamento” rispetto a un ordine precedente, come collocarlo all’interno dello schema ora tracciato?
Per il suo carattere intellettuale e accademico, l’evoluzionismo si pone innanzitutto su di un piano non immediatamente legato ai fatti e ai comportamenti delle persone: l’evoluzionismo è una rivoluzione nelle idee. Cionondimeno, analogamente ai grandi sistemi ideologici del passato, esso aspira a fornire una giustificazione al comportamento individuale e sociale. Ciò è tanto più vero in un’epoca come la nostra che “si è lasciata gradatamente persuadere che l’essere umano, analizzato, scomposto, scandagliato dalle varie direttive di ricerca non è altro che una macchina, di volta in volta meccanica, chimica, elettrica o cibernetica” (10). Ora, è al contenuto delle idee evoluzionistiche e alla loro capacità di penetrazione che si deve guardare per rispondere alla importante domanda che ho posto prima.
Già ho osservato che il loro carattere sovversivo generale risiede nell’affermazione di una visione del mondo che fa a meno di un creatore. Tuttavia non è difficile constatare che esse si spingono ben oltre, negando anche l’ordine morale che deriva dalla esistenza di un creatore e che, per questo, è vincolante. L’evoluzionismo, infatti, traendo l’uomo dal caso e facendone un “prolungamento delle cose […] sullo stesso piano degli animali” (11), lo sottrae a ogni responsabilità: la storia diventa storia della biologia, dove “tutto è permesso” (12) e dove “non vi sono più leggi divine che assegnino limiti all’esperimento” (13).
Una volta esclusi Dio e la sua volontà, cioè una volta rotto il legame Creatore-creatura, rimane la constatazione del puro divenire. Da esso gli esseri emergono non in vista di un fine secondo un progetto, ancorché immanenti al movimento stesso, bensì in virtù del puro gioco delle fluttuazioni statistiche. “L’evoluzione — scrive Jacob — mette in gioco intere serie di contingenze storiche” (14), così che “il mondo vivente avrebbe potuto essere diverso da quello che è, o addirittura non esistere affatto” (15). Questa affermazione è molto importante per il tipo di analisi che sto conducendo. Essa dimostra, infatti, che l’evoluzionismo contiene in sé anche gli elementi della II e della III Rivoluzione: la rottura dei legami politici, cioè delle antiche solidarietà sociali fondate sulla gerarchia e sull’ordine, e di quelli economici. Se ne rende ben conto lo stesso Jacob: “Finché l’Universo era opera di un Divino Creatore, tutti gli elementi erano stati da lui creati per accordarsi in un insieme armonioso, accuratamente preparato al servizio del componente più nobile: l’uomo. […] Era un modo di concepire il mondo che aveva importanti conseguenze politiche e sociali, in quanto legittimava l’ordine e la gerarchia della società” (16). Ora, invece, perde di senso qualunque tentativo di fondare un ordine e una gerarchia: “il migliore di tutti i mondi possibili è diventato semplicemente il mondo che si trova a esistere” (17).
In questo emergere prepotente del “caso” come fonte ed essenza della realtà, in questa dissolvenza dell’essere umano, della sua libertà e della sua volontà nel movimento evolutivo, risiede il carattere originale della rivoluzione darwiniana: una originalità che la distingue dallo stesso marxismo e da ogni altra ideologia di matrice hegeliana. Nella dialettica hegeliana e in quella marxistica, il movimento universale, dell’Idea o della Materia, conservava pur sempre una sua finalità, una “direzione privilegiata”, “ascendente”, e offriva agli individui più consapevoli la possibilità di tuffarsi nella corrente e di accelerare in qualche modo il corso della storia. Ma ora che il mondo esistente non può essere che il frutto del caso, costruito come una quaterna del lotto, ogni pretesa di perfettibilità diventa inutile e assurda: anche il mondo di domani, come quello di oggi, uscirà “alla cieca” dall’urna dei “mondi possibili”.
Distinta dal comunismo, dunque, ma anche “oltre” il comunismo (18): la rivoluzione darwiniana procede inesorabile secondo una logica folle di trasgressioni successive. Abbattute le barriere tra le specie, in una visione del mondo vivente nel quale gli organismi perdono la loro tipicità e la loro fissità strutturale, dove “oggetto effettivo di conoscenza è la popolazione nel suo insieme” (19), l’avanguardia evoluzionistica propone, da ultimo, il programma di ricostruzione della società e degli individui sulle basi delle indicazioni della sociobiologia e della ingegneria genetica. L’inserimento dell’aborto nelle legislazioni di molti paesi, accompagnato da campagne propagandistiche sul suo uso come strumento di selezione in base alle caratteristiche genetiche dei feti (20); la diffusione della fecondazione artificiale, che esclude ogni rapporto di paternità e di maternità, lasciano intravedere l’inquietante scenario di una umanità pianificata e manipolata artificialmente, che attraverso la tecnica della clonazione (21), realizza il sogno utopico della uguaglianza assoluta: quella relativa al patrimonio ereditario degli individui.
Il movente occulto della Rivoluzione è l’odio a Dio. Non potendo questo odio scagliarsi contro Dio stesso, si proietta contro le sue opere e, nella sua forma più consapevole e compiuta, contro il capolavoro del creato: l’uomo. Nell’uomo Dio ha infuso la scintilla dell’intelletto, che lo distingue dagli animali, ma a ogni uomo ha anche assegnato una vita interiore, un modo di affacciarsi al reale e di riflettere su di esso del tutto diverso da quello di ogni altro uomo: è il dono della personalità. È evidente che l’aggressione organizzata e tematica della Rivoluzione al creato deve prevedere il momento di lotta specifica all’essere umano: questo attacco, come si è detto, si compie con la IV Rivoluzione. Nel quadro di questa battaglia, forse quella finale che la Rivoluzione si accinge a combattere (22), la rivoluzione evoluzionistica svolge il ruolo di aggressivo genetico, fornendo le idee per una alterazione delle differenze psico-somatiche tra gli individui.
La prospettiva è al limite; tuttavia non è eliminabile: la direzione in cui l’evoluzionismo lavora nei laboratori di genetica è quella di un mondo popolato da miliardi di esseri uguali, repliche esatte di uno stesso “progetto umano”. Scrive ancora Jacob: “Forse si riuscirà anche a produrre, a volontà e nel numero di esemplari desiderato, la copia esatta di un individuo: un uomo politico, un artista, una reginetta di bellezza, un atleta. Nulla vieta di applicare fin d’oggi agli esseri umani i procedimenti selettivi utilizzati per i cavalli da corsa, i topi da laboratorio o le vacche lattiere […]. Ma tutto questo non ha più a che fare soltanto con la biologia” (23).
È vero, tutto ciò è già oltre la biologia, è la prospettiva sinarchica della Repubblica Universale, di un mondo, come insegna Corrêa de Oliveira “senza disuguaglianze né sociali né economiche, diretto mediante la scienza e la tecnica, la propaganda e la psicologia” (24); di un mondo nel quale, paradossalmente, quella umanità che l’evoluzionismo vuole scaturita dai branchi scimmieschi delle savane, ritorna a essere mandria indistinta e brutale come i suoi mitici progenitori.
II. L’evoluzionismo scientifico
La filosofia insegna che l’unità è un carattere della verità. La verità è compatta: negandone un aspetto, prima o poi si dovrà negarla tutta. L’errore, al contrario, è molteplice, nel senso che il contrario di una affermazione vera non è una affermazione falsa, ma possono essere infinite affermazioni false. Ciò rende, evidentemente, più ardua la difesa della verità, tuttavia ogni errore presenta sempre uno o più punti particolarmente deboli, sui quali intraprendere l’opera di demolizione completa.
Nel caso dell’errore evoluzionistico la situazione descritta è assai favorevole in quanto tutta la visione del mondo che scaturisce da esso trae la propria forza da un preteso riscontro scientifico, cioè da un contesto in cui la verifica della bontà di una affermazione è immediata e, entro certi limiti, inoppugnabile. In altri termini, la rivoluzione evoluzionistica pretende di essere fondata scientificamente, per cui è sul terreno scientifico che può cominciare una seria opera di confutazione nei suoi confronti.
La sproporzione tra la produzione scientifica evoluzionistica e quella antievoluzionistica, decisamente a favore della prima, non deve indurre a credere in una altrettanto sproporzionata differenza di qualità, anzi. Semplicemente il mondo accademico ufficiale, di concerto con i più importanti organi di divulgazione, impedisce che ottimi lavori di valenti uomini di scienza, di impostazione antievoluzionistica, possano raggiungere il vasto pubblico dei lettori. Basti, per tutte, la dichiarazione di Pietro Omodeo, evoluzionista presentato come “il più noto studioso italiano di evoluzionismo” (25), rilasciata nel corso di una intervista sul movimento neo-creazionistico americano. Ascoltando le affermazioni dei suoi avversari, a Omodeo “viene voglia di rispondere con un pernacchio” (26).
Più dei suoni non propriamente civili evocati da Omodeo, ciò che condiziona lo scienzato anticonformista è, naturalmente, il clima di ostracismo e di intimidazione che si crea contro chi avanza ipotesi contrarie alle vedute ufficiali sull’argomento (27). Tuttavia non sono mancati nel passato, e non mancano ancora oggi, autorevoli ricercatori che, con i loro lavori, hanno messo in evidenza le lacune dell’evoluzionismo scientifico e proposto soluzioni radicalmente alternative al problema relativo all’origine e allo sviluppo della vita sulla Terra (28).
Fra questi, merita particolare attenzione, per il prestigio dell’autore e per la completezza e il rigore della trattazione, lo studio dello scienziato francese Georges Salet (29). Docente universitario, profondo conoscitore delle maggiori questioni scientifiche del nostro tempo, Salet, cattolico, non ha esitato a scendere in campo ogni qualvolta l'”intellighentsia” scientista, mistificando i fatti, ha attaccato la Chiesa, le verità di fede, la filosofia naturale e cristiana (30).
Il pregio del volume di Salet consiste nell’andare direttamente al cuore della questione evoluzionistica, confutando i due cardini della teoria: il ruolo della selezione naturale e quello del caso come fonti del mondo vivente, della sua varietà, e della sua pretesa evoluzione. Nella impossibilità di trascrivere in extenso tutte le osservazioni di Salet, svolte in diverse centinaia di pagine, mi limito a esporre i passaggi fondamentali della sua confutazione dell’evoluzionismo, che non è ancora stata smentita.
1. I princìpi della teoria evoluzionistica
Con il termine “evoluzionismo” si intende l’ipotesi scientifica che spiega l’origine della vita a partire dalla materia inerte (evoluzione molecolare), e la successiva diversificazione del mondo vivente a partire dagli esseri più semplici e primitivi, fino a rendere conto dello stato attuale del mondo vivente, con i milioni di specie esistenti nei regni vegetale e animale (evoluzione biologica).
Circa i meccanismi di questo processo non esistono spiegazioni univoche, e questo fatto, già di per sé, non depone a favore della bontà della teoria. Grosso modo, le teorie esplicative della evoluzione possono riassumersi in tre gruppi:
a. spiegazioni spiritualistiche: sono quelle che fanno appello a non meglio identificati princìpi immateriali, che orienterebbero la materia verso stati sempre più complessi e perfezionati;
b. spiegazioni verbali: si tratta di definizioni tautologiche della evoluzione, dissimulate sotto la maschera di discorsi dotti e di terminologie scientifiche. Questo tipo di spiegazioni sono dovute, per esempio, ai biologi marxisti, come il sovietico Oparin e l’inglese Haldane, e a uno spiritualista come Teilhard de Chardin, con la sua legge di “complessità-coscienza” (31);
c. spiegazioni scientifiche: sono i tentativi di spiegare il processo evolutivo attraverso i fatti di osservazione.
Sui primi due gruppi la scienza non può formulare giudizio alcuno, in quanto essi stessi si pongono al di fuori del suo campo di azione. Per quanto riguarda le spiegazioni scientifiche si può dire che, attualmente, pur nella grande varietà delle posizioni dei singoli ricercatori, la maggior parte degli evoluzionisti concorda su spiegazioni dell’evoluzione che combinano le acquisizioni della genetica sulla eredità e sulle mutazioni, con l’idea originale di Darwin intorno alla selezione naturale: le teorie attuali sui meccanismi della evoluzione non sono altro che messe a punto di questa “teoria-base” detta “mutazioni-selezione”. Vediamo che cosa afferma.
La genetica, branca della biologia che si occupa della eredità, mostra che il patrimonio ereditario di ciascun individuo è strutturato secondo unità microscopiche perfettamente individuate, dette geni. I geni sono localizzati nei cromosomi, situati nel nucleo di ogni cellula, secondo un ordine ben determinato: ciascun gene, o una data sequenza di essi, corrisponde a una serie complessa di funzioni, che la cellula è o sarà chiamata a svolgere. Il corredo di geni di ogni individuo contiene, in altri termini, la descrizione dell’individuo stesso, il suo progetto o piano di montaggio: è questo corredo di geni che, per esempio, è all’origine dello sviluppo dell’uomo così come di ogni animale pluricellulare. Esso stabilisce i tempi e le modalità della crescita del feto: quando e come si deve formare il tessuto nervoso, quando e come quello osseo, quando e come gli occhi, i capelli, e così via.
Accade, tuttavia, che nel corso dello sviluppo di un individuo, o durante la sua vita, il suo patrimonio genetico subisca mutazioni, cioè alterazioni di struttura. Ricorrendo di
nuovo alla immagine del piano di montaggio, è come se le linee di esso fossero state in qualche modo alterate. Ciò che la genetica ha accertato intorno al fenomeno delle mutazioni si può riassumere nelle seguenti proposizioni:
> le mutazioni si trasmettono ereditariamente secondo le leggi di Mendel;
> il loro tasso è estremamente basso: presso gli animali superiori è appena di 1 ogni 10.000 / 100.000 individui;
> fanno generalmente apparire delle anomalie, delle tare, a volte delle vere e proprie mostruosità, che limitano notevolmente gli individui colpiti;
> se l’organo colpito è un organo fondamentale, l’individuo muore prematuramente, spesso allo stadio di embrione;
> il carattere delle mutazioni è profondamente casuale, cioè non si conosce alcun agente mutageno con azione specifica;
> il numero delle mutazioni letali è da 10 a 15 volte superiore a quello delle mutazioni “vitabili”, cioè delle mutazioni che mantengono comunque in vita l’individuo colpito.
Per la teoria evoluzionistica “mutazioni-selezione”, le mutazioni costituiscono la fonte della variabilità del mondo vivente, alla quale attinge la selezione naturale per trattenere gli individui nei quali le mutazioni hanno incrementato il tasso di natalità o diminuito quello di mortalità, cioè gli individui favoriti dalle mutazioni.
Anche la selezione naturale è un fatto di osservazione, definitivamente acquisito alla scienza. Le sue modalità di azione, quando possono esplicarsi, sono estremamente incisive. Per esempio, se in una coltura di un milione di batteri compare un individuo mutato, o mutante, il cui ritmo di duplicazione è superiore dell’1 % rispetto agli altri, dopo 4000 generazioni, cioè qualche giorno su scala batterica, il rapporto di popolazione sarà invertito: un individuo originale per milione di mutanti.
La selezione naturale, utilizzando i prodotti delle mutazioni e con l’effetto dell’isolamento geografico delle popolazioni, rende perfettamente conto di quelle modificazioni limitate in seno alle specie, note da sempre ai naturalisti, che talvolta prendono il nome di microevoluzione. Una delle sue manifestazioni più conosciute è la formazione di razze all’interno di una specie.
La microevoluzione, però, non ha nulla a che vedere con l’evoluzionismo: tra essi esiste una differenza di natura. Quasi sempre gli evoluzionisti trascurano tale differenza con disinvoltura colpevole, così che fenomeni microevolutivi vengono interpretati come esempi di evoluzione (32). La microevoluzione implica modificazioni organiche limitate ed esclude completamente la comparsa di nuovi organi o di nuove funzioni; l’evoluzionismo, invece, per rendere conto delle differenze organiche e funzionali tra i gruppi di viventi passati e attuali, deve postularle: la microevoluzione è indifferente o regressiva, l’evoluzionismo è progressivo.
La teoria evoluzionistica dunque, parte da basi concrete — le mutuazioni, la selezione —, in grado di rendere conto delle modificazioni limitate dei viventi, realmente riscontrabili in natura, per spiegare la comparsa di nuovi gruppi della classificazione sistematica attraverso modifiche profonde e apparizioni di funzioni e di organi nuovi negli esseri viventi. Per rendere plausibili questi fantomatici passaggi, gli evoluzionisti ricorrono a sofismi e a mistificazioni, con i quali il ruolo delle mutazioni e della selezione viene completamente alterato.
2. Il primo inganno evoluzionistico: il ruolo della selezione naturale
Spiega Salet che la reale variabilità del mondo vivente può riassumersi nella seguente proposizione: “Gli organismi si modificano a caso. Ogni modificazione (mutazione) che corrisponde al MIGLIORAMENTO di un organo è automaticamente selezionata”
(33). Ed ecco, invece, ciò che gli evoluzionisti, al seguito di Darwin, continuano a insinuare: “Gli organismi si modificano a caso. Le modificazioni (mutazioni) che corrispondono all’APPARIZIONE di una nuova funzione (e quindi, in senso lato, di un nuovo organo) SONO automaticamente selezionate” (34).
Le due proposizioni, come si vede, differiscono per le parole scritte in maiuscolo:
> “mutazione”, che era singolare, è diventata plurale;
> “miglioramento” è diventato “apparizione”.
Questi cambiamenti, apparentemente banali, sono tali da trasformare una proposizione esatta in un sofisma. Infatti è chiaro che la selezione naturale può intervenire sul mutante soltanto dopo che si sono verificate tutte le mutazioni necessarie alla comparsa del nuovo organo o della nuova funzione, cioè soltanto dopo che il nuovo organo è completamente costituito ed è in grado di esplicare perfettamente la nuova funzione: la selezione non può in alcun modo trattenere mutazioni intermedie perché non corrispondono ad alcunché di compiuto nell’organismo; anzi, un individuo in un simile stato sarebbe svantaggiato rispetto agli individui originali e la selezione naturale provvederebbe a cancellarlo in breve tempo dalla faccia della Terra. Per esempio, un essere vivente dotato di un organo a mezza strada tra una pinna e un arto non è né un pesce capace di nuotare nell’acqua, né un animale da terraferma. Un organo come un arto implica ossa, che ne assicurino la rigidità; articolazioni, che ne assicurino la mobilità, e muscoli, tendini e nervi, che ne assicurino la forza. Parlare di formazione progressiva e lenta degli arti è un puro esercizio verbale, privo di ogni riscontro scientifico. La selezione naturale non avrebbe nulla su cui agire.
Dietro una simile concezione circa il ruolo della selezione, oltre al misconoscimento dei fatti, vi è una cattiva comprensione dei concetti di “organo” e di “funzione”. Nei trattati, nei libri di scuola e in ogni articolo sull’evoluzionismo, spesso si dice che un organo nuovo compare in forma molto semplice e che, in seguito, esso si perfeziona sotto il controllo della selezione come se, afferma Salet, bastasse “un poco di organo” per avere assicurata anche “un poco di funzione” (35). Gli evoluzionisti dimenticano che il “diagramma” della funzione svolta da un organo è del tipo “tutto o niente”, proprio come accade per le macchine: nessun funzionamento fino a quando non sono a posto tutti i dispositivi componenti della macchina. Lo sanno bene gli automobilisti, dice Salet, che “senza carburatore o senza dispositivo di accensione un’auto non viaggia “meno bene”: non viaggia affatto” (36).
Di fatto, una via di uscita esiste, ed è quella di ritenere che le mutazioni relative alla comparsa di un organo nuovo e di una nuova funzione avvengano tutte simultaneamente, così che la selezione può intervenire subito per conservare il risultato finale. Come si comprende, il problema si sposta verso il calcolo delle probabilità, poiché occorre stabilire che valore di probabilità hanno mutazioni casuali di verificarsi simultaneamente e di costruire qualcosa di nuovo.
Quella che sembra una via di uscita pone, in realtà, quesiti ancora più gravi dei precedenti e, ancora una volta, gli evoluzionisti propongono soluzioni illusorie.
3. Il secondo inganno evoluzionistico: il tempo necessario alla evoluzione
Fino dai tempi di Darwin, ancora prima di individuare nelle mutazioni la fonte della variabilità del mondo vivente, i biologi avevano intuito le connessioni tra matematica ed evoluzione, ma nessuno tentò mai di impostare rigorosamente il problema (37). Ancora oggi l’atteggiamento evoluzionistico è quello di una certa “sufficienza”: avendo avuto a disposizione un periodo dell’ordine di due miliardi di anni, si ritiene sostanzialmente inutile chiedersi cosa sia possibile o impossibile per la evoluzione in un tempo tanto lungo. Basta attendere: il tempo compirà da solo il miracolo della creazione della vita e della sua trasformazione. Ma non sarà un’attesa inutile?
A fronte di affermazioni gratuite e non provate, Salet dimostra che la formazione casuale di un organo nuovo, anche modesto, richiederebbe periodi di tempo di durata inimmaginabile, che, espressi in anni, sarebbero dell’ordine di 10 seguito da parecchie centinaia o migliaia di zeri. Nella impossibilità di ripercorrere punto per punto i suoi calcoli, riporto qui di seguito i passaggi principali della dimostrazione.
Occorre osservare, innanzitutto, che la casualità delle mutazioni non implica affatto che esse possano produrre un qualsiasi risultato. Anche le fantasie del caso, dice Salet, hanno limiti. Nella teoria delle probabilità, questi limiti si chiamano soglie di impossibilità e rappresentano quei valori di probabilità al di sotto dei quali vi è la certezza che un evento casuale, di una certa natura, non si è mai verificato né mai si verificherà.
Sulla scorta delle speculazioni di Émile Borel, uno dei massimi matematici del nostro secolo, Salet determina le soglie di impossibilità assoluta per eventi di natura chimica e biochimica sulla Terra e nell’Universo. Considerando la velocità dell’elettrone nell’atomo e la sua massa si può stabilire in 1038 il massimo numero di eventi chimici che si possono svolgere ogni secondo in 1 grammo di materia. Stimando ancora, con larghissimo margine, che il Sole abbia riserve di idrogeno per 100 miliardi di anni, si può ritenere che il nostro pianeta, esistente già da qualche miliardo di anni, possa avere una vita di 1018 secondi. Infine, ritenendo che gli esseri viventi possano muovere una quantità di materia pari, al più, a quella contenuta in uno strato terrestre dello spessore di 1 chilometro, cioè 1024 grammi, si giunge alla cifra di 1080 come limite superiore sicuro del numero di tutto ciò che è possibile immaginare sulla Terra relativamente a eventi di natura chimica e biochimica. Questo numero è molto importante perché il suo inverso, cioè 10-80 (=1/1080), costituisce proprio la soglia di impossibilità assoluta per eventi chimici e biochimici (38). Salet riassume in un teorema queste considerazioni: “la realizzazione sulla Terra di un evento supposto o di un insieme di eventi supposti di natura chimica è impossibile se la probabilità di realizzazione di tale evento o insieme di eventi, in una sola prova, è inferiore a 10-100” (39).
Un altro dato utile ai fini della dimostrazione della impossibilità evolutiva è il numero massimo di esseri viventi che sono potuti esistere da quando la Terra può ospitare la vita, cioè da due miliardi di anni. I calcoli forniscono 1045 come valore. Nel caso particolare dei vertebrati tetrapodi, cioè anfibi, rettili, uccelli e mammiferi, ovvero i grandi gruppi della sistematica animale, si ottiene come valore massimo la cifra di 1025.
Sulla scorta di questi limiti superiori e dei relativi valori inversi di probabilità, Salet calcola i valori di probabilità delle serie di mutazioni casuali, che possono portare alla comparsa di novità vantaggiose nel patrimonio ereditario di un individuo. I risultati non lasciano adito a dubbio alcuno: tali valori di probabilità sono talmente inferiori ai limiti superiori da fare ritenere impossibile non solo la evoluzione nel suo complesso, ma anche la singola mutazione, o gruppo di mutazioni, capace di fare apparire un organo nuovo, per quanto semplice possa essere.
Per dare una idea, consideriamo il caso particolarmente interessante dei vertebrati tetrapodi, di cui si è detto sopra. L’interesse nasce da due considerazioni: la prima è che gli evoluzionisti hanno elaborato numerose e contraddittorie teorie sulla filiazione di un gruppo di vertebrati da un altro (40); la seconda è che ai mammiferi appartiene anche l’uomo che, per questo, verrebbe ricollegato ad antenati animaleschi.
Consideriamo, dunque, una specie S di vertebrati tetrapodi costituita da M individui. Se P è la probabilità che n geni del patrimonio ereditario di un individuo abbiano acquisito un nuovo carattere, in seguito a mutazioni casuali, si può scrivere che
dove p1, p2,…, pn sono le probabilità di mutazione vantaggiosa dei singoli geni (41). Chiamando p il valore più grande tra essi si può scrivere che la probabilità di mutazione degli n geni è inferiore a pn , cioè
Ora, il numero probabile di individui della specie che hanno subito la mutazione sarà
cioè la probabilità per un individuo moltiplicata per il numero totale degli individui (42). In virtù della diseguaglianza scritta sopra vale allora che
Assegniamo adesso valori ai simboli della disequazione, cercando di essere benevoli con la evoluzione. Supponiamo che alla mutazione siano interessati soltanto 5 geni (n = 5); che la probabilità della singola mutazione sia di un milionesimo (p = 10-6) e che la popolazione della specie sia addirittura uguale al numero massimo di vertebrati tetrapodi (M = 1025): con questa ipotesi il numero di individui mutati risulta inferiore a 10-30 x 10-25 = 10-5, cioè a 1 su 100.000.
Nel contesto della nostra dimostrazione questo numero significa che, in un periodo di un miliardo di anni la probabilità che sia apparso un solo vertebrato munito di 5 nuovi geni funzionali, è di 1 su 100.000, ovvero che occorrono 100.000 miliardi di anni per avere la quasi certezza di vederne uno.
Queste cifre danno solo una pallida idea del tipo di problema che sorge quando si vuole assegnare al caso la genesi e la complessità del mondo vivente. Basta supporre, per esempio, che i geni interessati alla novità siano 6 anzichè 5, perché la certezza della comparsa di un mutante risulti di 1 su 100 miliardi di miliardi di anni! Dato che la cosmologia più recente assegna all’Universo una età di circa 20 miliardi di anni (43), si può ritenere assurda ogni ipotesi che faccia ricorso al caso come a fonte di variabilità vantaggiosa, sia in ambiente pre-vivente che in ambiente vivente.
Salet riassume quanto succintamente ho esposto nel seguente principio generale: “Se una costruzione nuova necessita di n nuovi geni, il tempo necessario perché mutazioni geniche conferiscono loro il carattere voluto è una funzione esponenziale di n rapidamente crescente. Tempi largamente superiori a quelli delle ere geologiche sono raggiunti per valori di n molto modesti” (44).
Conclusione
Questo principio, e i calcoli da cui deriva, non hanno trovato smentita di nessun genere. Ed è anche molto inverosimile che possano trovarne. L’atteggiamento evoluzionistico è, di solito, quello di ignorare le difficoltà e le obiezioni e di passare oltre, giocando sulla ignoranza dei molti e su fattori emotivi. Tra questi ultimi trova posto, senza dubbio, la convinzione diffusa che una risposta non scientifica a un problema posto dalla scienza, quale è quello relativo alla origine e alla varietà dei viventi, sia una sorta di capitolazione dell’intelletto, l’ammissione di un limite.
In realtà, ciò che cade e si frantuma, di fronte alle grandi questioni, non è l’intelletto, ma l’orgoglio “originale” che rispunta, oggi, nelle vesti di una scienza egemone del reale, attraverso la tecnica, e intollerante verso ogni fatto che sfugga ai suoi metodi di indagine.
Nel costringere i limiti della conoscenza entro i rigori del principio fisico di indeterminazione, Max Born, premio Nobel per la fisica nel 1954, scriveva con disprezzo “Quello che sta al di là, gli aridi tratti della metafisica, lo lasciamo volentieri alla filosofia speculativa” (45).
Dal canto suo, la filosofia naturale e cristiana si fa carico di quegli “aridi tratti”, sorretta dall’antica e ispirata sapienza: “Vani [per natura] sono tutti gli uomini, cui manca la conoscenza di Dio,/ e che dai beni visibili non seppero conoscere Colui che è,/ né dalla considerazione delle opere riconobbero l’artefice./ Ma o il fuoco o il vento o l’aria mobile/ o il cielo delle stelle o la gran massa delle acque/ o il sole e la luna credettero dei, governatori del mondo./ Se dilettati dalla bellezza di tali cose le supposero dei,/ sappiano quanto più bello di esse è il loro Signore,/ giacché l’autore della bellezza creò tutte quelle cose./ Se furono colpiti invece dalla loro potenza ed energia,/ intendano da esse, che più potente di loro è colui che le produsse./ Dalla grandezza invero e dalla bellezza delle creature/ si può conoscere, per analogia, il loro creatore” (46).
Luciano Benassi
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(1) In Giuseppe Sermonti e Roberto Fondi, Dopo Darwin. Critica all’evoluzionismo, Rusconi, Milano 1980, p. 16, chiedendosi se sia “possibile un evoluzionismo senza Darwin“, Sermonti risponde che “se si intende il vero spirito e la vera intenzione dell’evoluzionismo la risposta è no“.
(2) La corsa alle “prove” costituisce, nella storia dell’evoluzionismo, un capitolo a sé. Dalla ricerca dei cosiddetti “anelli mancanti” tra due gruppi di viventi al clamoroso falso paleontologico di Piltdown nel quale ebbe un ruolo attivo padre Teilhard de Chardin gli evoluzionisti non hanno mai tralasciato nulla che potesse confortare la validità della loro teoria. Così non è infrequente imbattersi in notizie come Un bimbo con coda conferma la teoria dell’evoluzione (il Giornale nuovo, 21-5-1982).
(3) Così Claudio Barigozzi, in il Giornale nuovo, 17-6-1982. Questo tour d’esprit è talmente frequente presso gli autori evoluzionisti che, si può dire, caratterizzi la logica dell’evoluzionismo stesso: non è più la teoria a sottostare ai dati della realtà, ma è la realtà a essere forzata entro le maglie rigide della teoria.
(4) Giuseppe Montalenti, Charles Darwin, Editori Riuniti, Roma 1982, pp. 117-118.
(5) Francois Jacob, Evoluzione e bricolage, gli “espedienti” della selezione naturale, Einaudi, Torino 1978, p. VIII.
(6) Ibid., p. 36. Sul carattere rivoluzionario del darwinismo cfr. anche Iring Bernard Cohen, La rivoluzione darwiniana, in Le Scienze, n. 172, dicembre 1982. L’autore — che in realtà è Victor S. Thomas, professore di storia della scienza ad Harvard — ritiene estremamente significativa l’affermazione fatta da Darwin a conclusione dell’Origine delle specie, l’opera con cui presentò al mondo scientifico la sua teoria. Scriveva Darwin: “Quando le opinioni sostenute in questo libro, od altre opinioni analoghe, verranno ammesse dalla generalità degli studiosi, si può prevedere oscuramente che vi sarà una grande rivoluzione nella storia della scienza” (Charles Darwin, L’origine delle specie, ed. originale del 1859 e app. con le varianti dell’ed. del 1872, trad. it., Newton Compton, Roma 1981, p. 557). Cohen commenta così: “Questo evento, una dichiarazione di rivoluzione in una pubblicazione scientifica formale, è apparentemente senza precedenti nella storia della scienza”. Interessante è ancora l’osservazione di Cohen sul fatto che “c’è un solo altro autore scientifico dell’epoca moderna che può essere paragonato a Darwin, […] ed è Sigmund Freud, un dato che mostra l’incredibile intuito che Freud ebbe quando, paragonò l’effetto prevedibile delle sue idee [sull’inconscio e sulla psicanalisi, ndr] a l’effetto di quelle di Darwin”.
(7) G. Montalenti, op. cit., p. 42.
(8) Cfr. Plinio Corrêa de Oliveira, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977.
(9) Ibid., p. 189.
(10) Emanuele Samek Lodovici, Ma l’uomo non è solo una macchina, in Il Settimanale, anno 1980, n. 34-35.
(11) F. Jacob, La logica del vivente, tr. it., Einaudi, Torino 1971, p. 215.
(12) Ibidem.
(13) Ibidem.
(14) Idem, Evoluzione e bricolage, Gli “espedienti” della selezione naturale, cit., p. VIII.
(15) Ibidem.
(16) Ibidem.
(17) Ibid., p. IX.
(18) Cfr. Lucio Colletti, Marx era il suo miglior nemico, in Darwin. Come si diventa uomo, supplemento a L’Espresso, anno XXVII, n. 13, 4-4-1982.
(19) F. Jacob, La logica del vivente, cit., p. 207. Darwin, in pratica, ha negato la specie e il “tipo” o “modello” a cui ogni specie rinvia. Il mondo vivente è, per l’evoluzionismo, un grande sistema i cui elementi, tutti diversi, sono in continua trasformazione.
(20) Il problema è discusso in Harry Harris, Diagnosi prenatale e aborto selettivo, tr. it., Einaudi, Torino 1978.
(21) Clonazione è la tecnica con cui l’intero patrimonio cromosomico di un individuo viene introdotto in una cellula per ottenere un duplicato biologico dell’individuo stesso. Fino dal 1979 i ricercatori Karl Illmensee, svizzero, e Peter Hoppe, statunitense, hanno ottenuto topi clonati, primi tra i mammiferi a essere generati con questo trattamento. Il Corriere Medico del 13/14-1-1981, nel pubblicare un estratto del testo ufficiale con cui i due ricercatori presentavano l’esperimento, titola “profeticamente”: Oggi i topi, domani l’uomo.
(22) Cfr. Massimo Introvigne, Le origini della Rivoluzione sessuale, in Cristianità, anno VII, n. 54, ottobre 1979. L’autore osserva che il mutamento di interesse della Rivoluzione, dai fenomeni macrosociali a quelli microsociali, non è il segno di una “crisi” della Rivoluzione stessa. Al contrario, “il fine della Rivoluzione è la IV Rivoluzione”, ovvero si sono demolite le istituzioni cristiane per quindi demolire l’uomo naturale e cristiano.
(23) F . Jacob, La logica del vivente, cit., p. 375.
(24) P. Corrêa de Oliveira, op. cit., p. 117.
(25) Cfr. il servizio Il nonno perde il pelo, in Panorama, anno XIX, n. 772, 2-2-1981.
(26) Ibidem.
(27) Lo stesso fenomeno si verifica anche in altri settori della ricerca, che hanno immediate implicazioni di carattere filosofico o religioso. Chi scrive è a conoscenza, per diretta notizia da parte dell’interessato, di condizioni poste alla pubblicazione dei risultati di una analisi elettronica, estremamente raffinata, sulla Santa Sindone, da parte della redazione della rivista a cui il lavoro era diretto. La redazione era disposta a pubblicarlo purché l’autore rinunciasse al confronto con i Vangeli che si rivelavano, naturalmente, in pieno accordo con i risultati.
(28) Tra questi autorevoli ricercatori, merita di essere espressamente ricordato A. Ernst Wilder Smith. Sulla sua opera, cfr. Ermanno Pavesi, “Le scienze naturali non conoscono l’evoluzione”, in Cristianità, anno VII, n. 56, dicembre 1979.
(29) Cfr. George Salet, Hasard et certitude. Le Transformisme devant la biologie actuelle, Èditions scientifiques St-Edme, 2a ed., Parigi 1972. Allo stesso livello, anche se con carattere diverso, è da collocare il già citato testo di G. Sermonti e R. Fondi.
(30) Di Salet è uscito un utilissimo studio sul “caso Galileo”, in Courrier de Rome et d’ailleurs, anno XII, n. 11-12, Parigi maggio-giugno-luglio 1980.
(31) Per una confutazione delle teorie abiogeniche di Haldane e Oparin, cfr. G. Sermonti e R. Fondi, op. cit., pp. 162 ss. Sul pensiero e sulla teoria evoluzionistica di Teilhard de Chardin, cfr. Pier Carlo Landucci, Miti e realtà, La Roccia, Roma 1968.
(32) Cfr. G. Montalenti, L’avesse saputo Darwin, in Scienza e Vita nuova, anno IV, 4-5-1982. Montalenti riporta come “un classico” della evoluzione l’esempio della Biston betularia, la falena di cui sono sopravvissuti soltanto individui scuri. Quelli chiari, al tempo della rivoluzione industriale, risaltavano particolarmente sui tronchi di betulla ricoperti di fuliggine, diventando facile preda degli uccelli. Un tipico esempio di azione della selezione naturale è diventato un caso di evoluzione in atto!
(33) G. Salet, Hasard et certitude. Le Transformisme devant la biologie actuelle, cit., p. 212.
(34) Ibidem.
(35) Ibid., p. 214.
(36) Ibidem.
(37) Ammette F. Jacob, La logica del vivente, cit., p. 200, che “Darwin — per analizzare la variazione delle popolazioni — non ricorre a trattamenti matematici complessi, ma fa appello all’intuizione e al buon senso”.
(38) Il criterio per passare da 1080 (= numero massimo di eventi possibili) a 10-80 (= probabilità di un evento), è lo stesso che si applica nel noto caso del dado. Nel lancio del dado il numero massimo di eventi possibili è 6 (le sei facce dei dado), mentre 1/6 è la probabilità di uscita di una faccia.
(39) G. Salet, op. cit., p. 107. Il valore 10-80 è stato arrotondato, per comodità di calcolo, a 10-100 e ciò non cambia la validità della dimostrazione. Il teorema è, in realtà, il corollario di una proposizione più generale, enunciata per la prima volta da É. Borel e nota come “legge unica del caso”. Per brevità non ho ritenuto di citarla in questa sede, anche se l’autore ne fa oggetto di una lunga analisi concettuale e matematica.
(40) Cfr., su questo argomento, l’ottima esposizione di R. Fondi, in G. Sermonti e R. Fondi, op. cit., pp. 233-274.
(41) La formula scritta della probabilità totale di eventi indipendenti come prodotto delle probabilità dei singoli eventi può risultare più chiara ricorrendo a un esempio immediato. Nel lancio di un dado, come si è detto, la probabilità di ottenere un numero, per esempio 4, è 1/6. Nel lancio di una moneta, invece, la probabilità di ottenere, per esempio, “testa” è 1/2. Nel lancio di dado e moneta la probabilità di ottenere 4 e “testa” è proprio 1/6 x 1/2 = 1/12.
(42) Procedendo con l’esempio del dado, si può ritenere, con buona approssimazione, che, su 6000 lanci, il numero di volte in cui uscirà 4 sarà circa 1/6 x 6000 = 1000.
(43) Cfr. Venzo de Sabbata, Universo senza fine. Attualità in astrofisica, Corso, Ferrara 1978, p. 162.
(44) G. Salet, op. cit., p. 156.
(45) Max Born, Fisica atomica, tr. it., Boringhieri, Torino 1968, p. 384.
(46) Sap. 13, 1-5.