Card. J. Ratzinger: “Liberazione” sembra essere la bandiera di tutte le culture attuali. Al seguito di queste culture, la volonta’ di cercare una “liberazione” passa attraverso il movimento teologico dei diversi ambiti culturali del mondo…
[Tratto da: http://utenti.lycos.it/armeria/Rap_fede_12.htm ]
CAPITOLO DODICESIMO
UNA CERTA “LIBERAZIONE”
Una “Istruzione” da leggere
Nei giorni del colloquio con il card. Ratzinger a Bressanone, non era ancora pubblica (sarebbe stata presentata a settembre) la Istruzione su alcuni aspetti della teologia della liberazione che pure era già pronta, portando la data del 6 agosto 1984. Era però già stata pubblicata – con un’indiscrezione giornalistica – la riflessione in cui Ratzinger spiegava la sua posizione personale, di teologo, attorno all’argomento. Era poi già preannunciata la “convocazione a colloquio” di uno degli esponenti più noti di quella teologia.
Dunque, il tema “teologia della liberazione” aveva già invaso le pagine dei giornali; e le avrebbe occupate ancora più dopo la presentazione della Istruzione. E bisogna pur dire che sconcerta come molti dei commenti – anche i più ambiziosi, anche quelli pubblicati dalle testate più illustri – abbiano giudicato il documento della Congregazione senza averlo letto se non in qualche sintesi incompleta, magari sospetta di partito preso. Inoltre, quasi tutti i commenti si sono occupati solo delle implicazioni politiche del documento, ignorandone le motivazioni religiose.
Anche per questo, la Congregazione per la fede ha poi deciso di rifiutare ulteriori commenti, rinviando a un testo tanto dibattuto quanto misconosciuto. Leggere la Instructio: è quanto noi stessi siamo stati pregati di chiedere al lettore, quali che siano poi le sue conclusioni.
Ci è sembrato invece importante mettere qui a disposizione il testo che – pur pubblicato con quella che dicevamo una “indiscrezione giornalistica” -, è divenuto ormai di dominio pubblico, rispecchia fedelmente il pensiero di Joseph Ratzinger (in quanto teologo: non, dunque, in quanto Prefetto della Congregazione per la fede) e non è di facile reperimento per il lettore non specialista. Questo testo può servire a comprendere il pensiero personale del card. Ratzinger su un tema così spinoso e attuale. Qui più che mai, per il Prefetto, “difendere l’ortodossia significa davvero difendere i poveri ed evitare loro le illusioni e le sofferenze di chi non sa dare una prospettiva realistica di riscatto neppure materiale”.
Segnaliamo inoltre quanto l’Instructio afferma sin dalla introduzione: “Questa Congregazione per la dottrina della fede non intende qui affrontare nella sua completezza il vasto terna della libertà cristiana e della liberazione. Essa si ripropone di farlo in un documento successivo che ne metterà in evidenza, in maniera positiva, tutte le ricchezze sotto l’aspetto sia dottrinale che pratico”. Solo una prima parte, dunque, di un discorso che va completato.
Inoltre, “il richiamo” contenuto nella prima parte, quella “negativa”, “non deve in alcun modo essere interpretato come una condanna di tutti coloro che vogliono rispondere con generosità e con autentico spirito evangelico alla ” opzione preferenziale per i poveri “. La presente Istruzione non dovrebbe affatto servire da pretesto a tutti coloro che si trincerano in un atteggiamento di neutralità e di indifferenza di fronte ai tragici e pressanti problemi della miseria e dell’ingiustizia. Al contrario, essa è dettata dalla certezza che le gravi deviazioni ideologiche denunciate finiscono ineluttabilmente per tradire la causa dei poveri. Più che mai, è necessario che numerosi cristiani, di fede illuminata e risoluti a vivere la vita cristiana nella sua integralità, si impegnino nella lotta per la giustizia, la libertà e la dignità dell’uomo, per amore verso i loro fratelli diseredati, oppressi o perseguitati. Più che mai la Chiesa intende condannare gli abusi, le ingiustizie e gli attentati alla libertà, ovunque si riscontrino e chiunque ne siano gli autori e lottare, con i mezzi che le sono propri, per la difesa e la promozione dei diritti dell’uomo, specialmente nella persona dei poveri”.
Il bisogno di redenzione
Prima di passare a riprodurre il documento “Privato” del teologo Ratzinger, diamo intanto conto sempre nel tentativo di situare la sua posizione su uno sfondo generale – di quanto è emerso nel nostro colloquio a proposito del termine “liberazione” E uno scenario di portata mondiale.
“Liberazione – dice infatti il Cardinale – sembra essere il programma, la bandiera di tutte le culture attuali, in tutti i continenti. Al seguito di queste culture, la volontà di cercare una “liberazione” passa attraverso il movimento teologico dei diversi ambiti culturali del mondo”.
Continua: “Come ho già osservato parlando della crisi della morale, la “liberazione” è la tematica chiave anche della società dei ricchi, del Nord America e dell’Europa Occidentale: liberazione dall’etica religiosa e, con essa, dai limiti stessi dell’uomo. Ma si cerca ” liberazione ” anche in Africa e in Asia, dove lo sganciamento dalle tradizioni occidentali si presenta come un problema di liberazione dal retaggio coloniale, alla ricerca della propria identità. Ne parleremo in modo specifico più avanti. È ” liberazione ” infine in Sud America, dove la si intende soprattutto in senso sociale, economico, politico. Dunque, il problema soteriologico, cioè della salvezza, della redenzione (della liberazione, come appunto si preferisce dire) è divenuto il punto centrale del pensiero teologico”.
Perché, chiedo, questa focalizzazione, che peraltro sembra corretta anche alla Congregazione (le prime parole della Istruzione del 6 agosto non sono forse: “Il Vangelo di Gesù Cristo è un messaggio di libertà e una forma di liberazione”)?
“Questo è avvenuto e avviene – dice – perché la teologia tenta di rispondere così al problema più drammatico del mondo di oggi: il fatto cioè che malgrado tutti gli sforzi l’uomo non è affatto redento, non è per nulla libero, conosce anzi una crescente alienazione. E questo appare in tutte le forme di società attuale. L’esperienza fondamentale della nostra epoca è proprio quella della “alienazione”, cioè lo stato che l’espressione cristiana tradizionale chiama: mancanza di redenzione. È l’esperienza di un’umanità che si è distaccata da Dio e in questo modo non ha trovato la libertà, ma solo schiavitù”.
Parole dure, ancora una volta, osservo.
“Eppure così è a una visione realistica, che non si nasconda la situazione. E del resto al realismo che sono chiamati i cristiani: essere attenti ai segni del tempo significa anche questo, ritrovare il coraggio di guardare la realtà in faccia, nel suo positivo e nel suo negativo. Ora, giusto in questa linea di oggettività, vediamo che c’è un elemento in comune ai programmi di liberazione secolaristici: quella liberazione la vogliono cercare solo nell’immanenza, dunque nella storia, nell’aldiquà. Ma è proprio questa visione chiusa nella storia, senza sbocchi sulla trascendenza, che ha condotto l’uomo nella sua attuale situazione”.
Resta comunque il fatto, dico, che questa esigenza di liberazione è una sfida che va accettata; non ha dunque ben fatto la teologia a raccoglierla per darle una risposta cristiana?
“Certo, purché quella risposta sia cristiana veramente. Il bisogno di salvezza oggi così avvertito esprime la percezione autentica, per quanto oscura, della dignità dell’uomo, creato a immagine e somiglianza di Dio. Ma il pericolo di certe teologie è che si lascino suggerire il punto di vista immanentistico, solo terrestre, dai programmi di liberazione secolaristici. I quali non vedono, né possono vedere che la ” liberazione ” è innanzitutto e principalmente liberazione da quella schiavitù radicale che il “mondo” non scorge, che anzi nega: la schiavitù radicale del peccato”.
Un testo da “teologo privato”
Da questo quadro generale, torniamo a quel “fenomeno straordinariamente complesso” che è la teologia della liberazione che, pur tendendo a diffondersi un po’ ovunque nel Terzo Mondo, ha tuttavia “il suo centro di gravità in America Latina”.
Torniamo dunque a quel testo “privato” di Ratzinger teologo, che ha preceduto l’Instructio dell’autunno 1984. Le pagine seguenti (in corsivo) lo riproducono per intero. Data l’origine e la destinazione strettamente teologica, il linguaggio non è sempre il più divulgativo possibile. Crediamo comunque che valga la pena di superare qualche passaggio forse complesso per il lettore non specialista: al di là, ripetiamo, delle valutazioni di ciascuno, questo testo aiuta a situare il fenomeno ” teologia della liberazione ” nel più ampio scenario della teologia mondiale. E chiarisce i motivi dell’intervento della Congregazione in una strategia già avviata e che prevede altre “tappe”.
ALCUNE OSSERVAZIONI PRELIMINARI
1) La teologia della liberazione è un fenomeno straordinariamente complesso: essa va dalle posizioni più radicalmente marxiste fino a quelle che pongono il luogo appropriato della necessaria responsabilità del cristiano verso i poveri e gli oppressi nel contesto di una corretta teologia ecclesiale, come hanno fatto i documenti del Celam (la Conferenza Episcopale Latino-Americana), da Medellín a Puebla. In questo nostro testo si utilizza il concetto “teologia della liberazione ” in una accezione più ristretta: una accezione che comprende solo quei teologi che in qualche maniera hanno fatto propria l’opzione fondamentale marxista. Anche qui esistono nei particolari molte differenze nelle quali è impossibile addentrarsi in questa riflessione generale. In questo contesto posso solo tentare di mettere in evidenza alcune linee fondamentali che, senza disconoscere le diverse matrici, sono molto diffuse ed esercitano una certa influenza anche laddove non esiste una teologia della liberazione in senso stretto.
2) Con l’analisi del fenomeno della teologia della liberazione diventa manifesto un pericolo fondamentale per la fede della Chiesa. Indubbiamente bisogna tener presente che un errore non può esistere se non contiene un nucleo di verità. Di fatto un errore è tanto più pericoloso quanto maggiore è la proporzione del nucleo di verità recepita. Inoltre l’errore non potrebbe appropriarsi di quella parte di verità se questa verità fosse sufficientemente vissuta e testimoniata lì dove è il suo posto, cioè nella fede della Chiesa. Perciò, accanto alla dimostrazione dell’errore e del pericolo della teologia della liberazione bisogna sempre affiancare la domanda: quale verità si nasconde nell’errore e come recuperarla pienamente?
3) La teologia della liberazione è un fenomeno universale sotto tre punti di vista:
a) questa teologia non intende affatto costituire un nuovo trattato teologico a fianco degli altri già esistenti, come per esempio elaborare nuovi aspetti dell’etica sociale della Chiesa. Essa si concepisce piuttosto come una nuova ermeneutica della fede cristiana, vale a dire come una nuova forma di comprensione e di realizzazione del cristianesimo nella sua totalità. Perciò cambia tutte le forme della vita ecclesiale: la costituzione ecclesiastica, la liturgia, la catechesi, le opzioni morali.
b) la teologia della liberazione ha sicuramente il suo centro di gravità in America Latina, però non è affatto un fenomeno esclusivamente latinoamericano. Non è pensabile senza l’influenza determinante di teologi europei ed anche nordamericani. Ma esiste anche in India, nello Sri Lanka, nelle Filippine, a Taiwan e in Africa, sebbene qui sia in primo piano la ricerca di una “teologia africana ” L’Unione dei teologi del Terzo Mondo è fortemente caratterizzata dall’attenzione prestata ai temi della teologia della liberazione.
c) la teologia della liberazione supera i confini confessionali: essa cerca di creare, fin dalle sue premesse, una nuova universalità per la quale le separazioni classiche delle chiese debbono perdere la loro importanza.
I. Il concetto della teologia della liberazione e i presupposti della sua genesi
Queste osservazioni preliminari ci hanno frattanto già introdotto nel nucleo del tema. Hanno però lasciato aperta la questione principale: che cos’è propriamente la teologia della liberazione?
In un primo tentativo di risposta possiamo dire: la teologia della liberazione pretende dare una nuova interpretazione globale del cristianesimo; spiega il cristianesimo come una prassi di liberazione e pretende di porsi essa stessa come una guida a tale prassi. Ma siccome secondo questa teologia ogni realtà è politica, anche la liberazione è un concetto politico e la guida alla liberazione deve essere una guida all’azione politica.
“Nulla resta fuori dall’impegno politico. Tutto esiste con una colorazione politica”, scrive testualmente uno dei suoi più noti esponenti sudamericani. Una teologia che non sia “pratica ” ‘ vale a dire essenzialmente politica, è considerata “idealistica” e condannata come irreale o come veicolo di conservazione degli oppressori al potere.
Per un teologo che abbia imparato la sua teologi . a nella tradizione classica e che abbia accettato la sua vocazione spirituale, è difficile immaginare che si possa seriamente svuotare la realtà globale del cristianesimo i . n uno schema di prassi socio-politica di liberazione. La cosa è tuttavia possibile, in quanto molti teologi della liberazione continuano ad usare gran parte del linguaggio ascetico e dogmatico della Chiesa in chiave nuova, in maniera tale che chi legge e chi ascolta partendo da un altro retroterra, può ricevere l’impressione di ritrovare il patrimonio antico con l’aggiunta solamente di qualche affermazione un poco “strana “, che però, unita a tanta religiosità, non potrebbe essere così pericolosa.
Proprio la radicalità della teologia della liberazione fa sì che ne venga spesso sottovalutata la gravità, perché non entra in alcuno schema esistente fino ad oggi di eresia; la sua impostazione di partenza si trova al di fuori di ciò che può venir colto dai tradizionali schemi di discussione.
Per questo vorrei tentare di accostarmi all’indirizzo fondamentale della teologia della liberazione in due tappe: prima occorrerà dire qualche cosa sui presupposti’ che l’hanno resa possibile; successivamente vorrei esplorare alcuni dei concetti basilari che permettono di conoscere qualcosa della sua struttura
Come si è arrivati a quell’orientamento completamente nuovo del pensiero teologico che trova espressione nella teologia della liberazione? Vedo principalmente tre fattori che l’hanno resa possibile.
1) Dopo il Concilio si produsse una situazione teologica nuova:
a) si creò l’opinione che la tradizione teologica esistente fino ad allora non fosse più accettabile e che di conseguenza si dovesse cercare, a partire dalla Scrittura e dai segni dei tempi, orientamenti teologici e spirituali totalmente nuovi;
b) l’idea dì apertura al mondo e di impegno nel mondo si trasformò spesso in una fede ingenua nelle scienze; una fede che accolse le scienze umane come un nuovo vangelo, senza volerne riconoscere i limiti ed i problemi propri. La psicologia, la sociologia e l’interpretazione marxista della storia furono considerate come scientificamente sicure e quindi come istanze non più contestabili del pensiero cristiano;
c) la critica della tradizione da parte della esegesi evangelica moderna, specialmente di Rudolf Bultmann e della sua scuola, divenne una istanza teologica inamovibile che sbarrò la strada alle forme fino ad allora valide della teologia, incoraggiando così anche nuove costruzioni.
2) La situazione teologica così mutata coincise con una situazione della storia spirituale anch’essa modificata. Alla fine della fase di ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale, fase che coincise all’incirca con il termine del Concilio, si produsse nel mondo occidentale un sensibile vuoto di significato al quale la filosofia esistenzialista ancora in voga non era in grado di dare alcuna risposta. In questa situazione le differenti forme del neomarxismo si trasformarono in un impulso morale e allo stesso tempo in una promessa di significato che appariva quasi irresistibile alla gioventù universitaria. Il marxismo, con gli accenti religiosi di Bloch e le filosofie provviste di rigore “scientifico” di Adorno, Horkheimer, Habermas e Marcuse, offrirono modelli di azione con i quali si credette di poter rispondere alla sfida della miseria nel mondo e, allo stesso tempo, di poter attualizzare il senso corretto del messaggio biblico.
3) La sfida morale della povertà e dell’oppressione non si poteva più ignorare nel momento in cui l’Europa e l’America del Nord avevano raggiunto un’opulenza fino ad allora sconosciuta. Questa sfida esigeva evidentemente nuove risposte che non si potevano trovare nella tradizione esistente sino a quel momento. La situazione teologica e filosofica mutata invitava espressamente a cercare la risposta in un cristianesimo che si lasciasse guidare dai modelli di speranza, in apparenza fondati “scientificamente”, delle filosofie marxiste.
II. La struttura fondamentale della teologia della liberazione
Quella risposta si presenta del tutto diversa nelle forme particolari di teologia della liberazione, teologia della rivoluzione, teologia politica, eccetera- Non può quindi essere rappresentata globalmente. Esistono tuttavia alcuni concetti fondamentali che si ripetono continuamente nelle diverse variazioni ed esprimono intenzioni di fondo comuni.
Prima di passare ai concetti fondamentali del contenuto, è necessario fare un’osservazione sugli elementi strutturali portanti della teologia della liberazione. Possiamo riallacciarci, a questo fine, a ciò che abbiamo già detto circa la situazione teologica mutata dopo il Concilio.
Come già detto, si è letta l’esegesi di Bultmann e della sua scuola come un’enunciazione della “scienza” su Gesù, scienza che doveva ovviamente essere ritenuta valida. Il “Gesù storico” di Bultmann si presenta tuttavia separato da un abisso (Bultmann stesso parla di Graben, fossato) dal Cristo della fede. Secondo Bultmann, Gesù appartiene solo ai presupposti del Nuovo Testamento, permanendo però racchiuso nel mondo del giudaismo.
Il risultato finale di questa esegesi consisteva nel fatto che veniva scossa la credibilità storica dei Vangeli: il Cristo della tradizione ecclesiale e il Gesù storico presentato dalla scienza appartengono a due mondi differenti. La figura di Gesù fu sradicata dal suo collocamento nella tradizione per mezzo della “scienza”, considerata come istanza suprema, in questa maniera A un lato la tradizione si librava come qualcosa di irreale nel vuoto, dall’altro si dovevano cercare per la figura di Gesù una nuova interpretazione e un nuovo significato.
Bultmann quindi assunse importanza non tanto per le sue affermazioni positive, quanto per il risultato negativo della sua critica: il nucleo della fede, la cristologia, rimase aperto a nuove interpretazioni perché quelli che erano stati sino ad allora i suoi enunciati originali erano scomparsi, in quanto dichiarati storicamente insostenibili. Nello stesso tempo veniva sconfessato il Magistero della Chiesa perché considerato legato ad una teoria “scientificamente ” insostenibile e quindi privo di valore come istanza conoscitiva su Gesù. I suoi enunciati potevano essere considerati solo come “definizioni frustrate di una posizione scientificamente superata”.
Inoltre Bultmann fu importante per lo sviluppo ulteriore di una seconda parola chiave. Egli riportò in auge l’antico concetto di ermeneutica, conferendogli una dinamica nuova. Nella parola “ermeneutica ” trova espressione l’idea che una comprensione reale dei testi storici non si dà attraverso una mera interpretazione storica; ma ogni interpretazione storica include certe decisioni preliminari. L’ermeneutica ha il compito di “attualizzare ” la Scrittura in connessione con i dati che la storia, sempre mutevole, ci presenta: una “fusione degli orizzonti” tra “‘l’allora” e “l’oggi”. Essa pone di conseguenza la domanda: cosa significa “l’allora” al giorno d’oggi? Bultmann rispose a questa domanda servendosi della filosofia di Heidegger e interpretò quindi la Bibbia in senso esistenzialista. Questa risposta non riveste più alcun interesse; in questo senso Bultmann è superato dall’esegesi attuale. Però è rimasta la separazione tra la figura di Gesù della tradizione classica e l’idea che si possa e si debba trasferire questa figura nel presente attraverso una nuova ermeneutica.
A questo punto sorge il secondo elemento, già menzionato, della nostra situazione: il nuovo clima filosofico degli anni Sessanta. L’analisi marxista della storia e della società fu considerata come l’unica a carattere “scientifico”. Ciò significa che il mondo viene interpretato alla luce dello schema della lotta di classe e che l’unica scelta possibile è quella tra capitalismo e marxismo. Significa, inoltre, che tutta la realtà è politica e che deve essere giudicata politicamente. Il concetto biblico del “povero” offre il punto di partenza per la confusione tra l’immagine biblica della storia e la dialettica marxista; questo concetto viene interpretato con l’idea di proletariato in senso marxista e giustifica altresì il marxismo come ermeneutica legittima per la comprensione della Bibbia.
Secondo questa comprensione, poi, esistono e possono esistere solo due opzioni; perciò, contraddire questa interpretazione della Bibbia non è che l’espressione dello sforzo della classe dominante per conservare il proprio potere. Un teologo della liberazione afferma: “La lotta di classe è un dato di fatto e la neutralità su questo punto è assolutamente impossibile”.
Da questo punto si rende impossibile anche l’intervento del Magistero ecclesiale: nel caso in cui esso si opponesse a tale interpretazione del cristianesimo dimostrerebbe solamente di essere dalla parte dei ricchi e dei dominatori e contro i poveri e i sofferenti, vale a dire contro Gesù stesso, e, nella dialettica della storia, si schiererebbe dalla parte negativa.
Questa decisione, apparentemente “scientifica” e “ermeneuticamente” ineluttabile, determina da sé la strada dell’interpretazione ulteriore del cristianesimo, sia per quanto riguarda le istanze interpretative che per i contenuti interpretati.
Per quanto riguarda le istanze interpretative i concetti decisivi sono: popolo, comunità, esperienza, storia. Se fino ad ora la Chiesa – cioè la Chiesa cattolica nella sua totalità che, trascendendo tempo e spazio, abbraccia i laici (sensus fidei) e la gerarchia (magistero) – era stata l’istanza ermeneutica fondamentale, oggi lo è diventata la “comunità”. Il vissuto e le esperienze della comunità determinano la comprensione e l’interpretazione della Scrittura.
Di nuovo si può dire, apparentemente in modo rigorosamente “scientifico”, che la figura di Gesù, presentata nei Vangeli, costituisce una sintesi di avvenimenti e interpretazioni dell’esperienza di comunità particolari, dove tuttavia l’interpretazione è molto più importante dell’avvenimento, che in sé non è più determinabile. Questa sintesi originaria di avvenimento e interpretazione può essere sciolta e ricostruita sempre di nuovo: la comunità “interpreta” con la sua “esperienza “gli avvenimenti e trova così la sua “prassi ” ‘
Questa idea la si incontra modificata in modo alquanto diverso nel concetto di “popolo”, con il quale si’ trasformò l’accentuazione conciliare dell’idea di “popolo di Dio” in un mito marxista. Le esperienze del “popolo” spiegano la Scrittura. “Popolo” diventa così un concetto opposto a quello di “gerarchia” e in antitesi a tutte le istituzioni indicate come forze dell’oppressione. Infine è “popolo” chi partecipa alla “lotta di classe”,- la “Iglesia popular” si pone in opposizione alla Chiesa gerarchica.
Da ultimo il concetto di “storia” diviene istanza ermeneutica decisiva. L’opinione, considerata scientificamente sicura e irrefutabile, che la Bibbia ragioni in termini esclusivamente di storia della salvezza (e quindi in modo antimetafisico) permette la fusione dell’orizzonte biblico con l’idea marxista della storia che procede dialetticamente come portatrice di salvezza; la storia è l’autentica rivelazione e pertanto la vera istanza ermeneutica della interpretazione biblica. Tale dialettica viene appoggiata, talvolta, dalla pneumatologia, cioè dalla concezione dell’azione dello Spirito Santo.
In ogni caso anch’essa vede nel Magistero che insiste su verità permanenti una istanza nemica del progresso, dato che pensa ” metafisicamente ” e contraddice così la “storia ” Si può dire che il concetto di storia assorbe il concetto di Dio e di rivelazione. La “storicità” della Bibbia deve giustificare il suo ruolo assolutamente predominante e quindi deve legittimare allo stesso tempo il passaggio alla filosofia materialista-marxista, nella quale la storia ha assunto il ruolo di Dio.
III. Concetti fondamentali della teologia della liberazione
Con ciò siamo giunti ai concetti fondamentali del contenuto della nuova interpretazione del cristianesimo. Poiché i contesti nei quali appaiono i diversi concetti sono diversi, vorrei, senza pretese di sistematicità, citarne alcuni.
Cominciamo dalla nuova interpretazione di fede, speranza e carità.
Rispetto alla fede, ad esempio, un teologo sudamericano afferma: “L’esperienza che Gesù ha di Dio è radicalmente storica. La sua fede si converte in fedeltà”. Si sostituisce perciò fondamentalmente la fede con la “fedeltà alla storia”. Qui si produce quella fusione tra Dio e storia che dà la possibilità di conservare per Gesù la formula di Calcedonia, anche se con un significato completamente mutato: si vede come i criteri classici della ortodossia non siano applicabili all’analisi di questa teologia. Si afferma dunque che “Gesù è Dio”, aggiungendo però immediatamente che “il Dio vero è solo quello che si rivela storicamente e scandalosamente in Gesù e nei poveri che continuano la sua presenza Solo chi mantiene unite queste due affermazioni è ortodosso…”.
La speranza viene interpretata come “fiducia nel futuro” e come lavoro per il futuro; con ciò la si subordina di nuovo al predominio della storia delle classi.
La carità consiste nella “opzione per i poveri”, cioè. coincide con l’opzione per la lotta di classe. I teologi della liberazione sottolineano con forza, di fronte al “falso universalismo”, la parzialità ed il carattere di parte dell’opzione cristiana; prendere partito è, secondo loro, requisito fondamentale di una corretta ermeneutica delle testimonianze bibliche. A mio avviso qui si può riconoscere molto chiaramente la mescolanza tra una verità fondamentale del cristianesimo e una opzione fondamentale non cristiana, che rende l’insieme tanto seducente: il discorso della montagna sarebbe in realtà la scelta da parte di Dio a favore dei poveri.
Il concetto fondamentale della predicazione di Gesù è davvero il “regno di Dio”. Questo concetto si ritrova anche al centro delle teologie della liberazione, letto però sullo sfondo dell’ermeneutica marxista. Secondo uno di questi teologi, il ” regno ” non deve essere inteso spiritualmente, né universalisticamente nel senso di una escatologia astratta. Deve essere inteso in forma partitica e volto alla prassi. Solo a partire dalla prassi di Gesù, e non teoricamente, è possibile definire cosa significa il “regno”, lavorare nella realtà storica che ci circonda per trasformarla nel “regno di Dio”.
Qui occorre menzionare anche una idea fondamentale di certa teologia postconciliare che ha spinto in questa direzione. £ stato sostenuto che secondo il Concilio si dovrebbe superare ogni forma di dualismo: il dualismo di corpo e anima, di naturale e soprannaturale, di immanenza e trascendenza, di presente e futuro. Dopo lo smantellamento di questi presunti “dualismi ” ‘ resta solo la possibilità di lavorare per un regno che si realizzi in questa storia e nella sua realtà politico-economica.
Ma proprio così si è cessato di lavorare per l’uomo di oggi e si è cominciato a distruggere il presente in favore di un futuro ipotetico: così si è prodotto immediatamente il vero dualismo.
In questo contesto vorrei menzionare anche l’interpretazione del tutto deviante della morte e della risurrezione che dà uno dei leader delle teologie della liberazione. Egli stabilisce innanzitutto, contro le concezioni “universaliste”, che la risurrezione è, in primo luogo, una speranza per coloro che sono crocifissi, i quali costituiscono la maggioranza degli uomini: tutti quei milioni ai quali l’ingiustizia strutturale si impone come una lenta crocifissione. Il credente partecipa tuttavia anche alla signoria di Gesù sulla storia attraverso l’edificazione del regno, cioè nella lotta per la giustizia e per la liberazione integrale, nella trasformazione delle strutture ingiuste in strutture più umane. Questa signoria sulla storia viene esercitata ripetendo nella storia il gesto di Dio che risuscita Gesù, cioè ridando vita ai crocefissi della storia. L’uomo ha assunto così il potere di Dio e qui la trasformazione totale del messaggio biblico si manifesta in modo quasi tragico, se si pensa a come questo tentativo di imitazione di Dio si è esplicato ed ancora si esplica.
Vorrei solo citare qualche altra interpretazione “nuova” di concetti biblici: l’esodo si trasforma in una immagine centrale della “storia della salvezza” il mistero pasquale viene inteso come un simbolo rivoluzionario e quindi l’eucaristia viene interpretata come una festa di liberazione nel senso di una speranza politico-messianica e della sua prassi. La parola redenzione viene sostituita generalmente con liberazione, la quale a sua volta viene intesa, sullo sfondo della storia e della lotta di classe, come processo di liberazione che avanza. Infine è fondamentale anche l’accento che viene posto sulla prassi: la verità non deve essere intesa in senso metafisico; si tratterebbe di “idealismo “. La verità si realizza nel la storia e nella prassi. L’azione è la verità. Di conseguenza anche le idee che si usano per l’azione sono, in ultima istanza, intercambiabili. L’unica cosa decisiva è la prassi. L’ortoprassi diventa così la sola, vera ortodossia.
Viene così anche giustificato un enorme allontanamento dai testi biblici: la critica storica libera dalla interpretazione tradizionale che appare come “non scientifica ” Rispetto alla tradizione si attribuisce importanza al “massimo rigore scientifico” nella linea di Bultmann. Ma i contenuti della Bibbia determinati storicamente non possono a loro volta essere vincolanti in modo assoluto. Lo strumento per l’interpretazione non è, in ultima analisi, la ricerca storica, bensì l’ermeneutica della storia sperimentata nella comunità, cioè nei gruppi politici. Se si cerca di trarre un giudizio globale, bisogna dire che quando uno cerca di comprendere le opzioni fondamentali della teologia della liberazione, non può negare che l’insieme contenga una logica quasi inoppugnabile. Con le premesse della critica biblica e della ermeneutica fondata sull’esperienza da un lato, e dell’analisi marxista della storia dall’altro, si è riusciti a creare una visione d’insieme del cristianesimo che sembra rispondere pienamente tanto alle esigenze della scienza quanto alle sfide morali dei nostri tempi. E pertanto si impone agli uomini in forma immediata il compito di fare del cristianesimo uno strumento della trasformazione concreta del mondo, il che sembrerebbe unirlo a tutte le forze progressiste della nostra epoca. Si può quindi comprendere come questa nuova interpretazione del cristianesimo attragga sempre più teologi, sacerdoti e religiosi, specialmente sullo sfondo dei problemi del terzo mondo. Sottrarsi ad essa deve necessariamente apparire ai loro occhi come un’evasione dalla realtà, come una rinuncia alla ragione e alla morale. Però d’altro canto, se si pensa quanto sia radicale l’interpretazione del cristianesimo che ne deriva, diviene tanto più urgente il problema di che cosa si possa e si debba fare di fronte ad essa. Solo se noi riusciremo a rendere visibile la logica della fede in una maniera altrettanto cogente e a presentarla nell’esperienza vissuta come logica della realtà, cioè come forza reale di una risposta migliore, noi supereremo questa crisi. Proprio perché le cose stanno in questo modo (cioè proprio perché pensiero ed esperienza, riflessione ed azione sono in egual misura sollecitati), tutta la Chiesa è qui interpellata. La sola teologia non basta, il solo magistero non basta: poiché il fenomeno “teologia della liberazione “segnala una carenza di conversione nella Chiesa, una carenza in essa di radicalità della fede, soltanto un di più in conversione e in fede renderanno possibili e risveglieranno quelle intuizioni teologiche e quelle decisioni dei pastori, che corrispondono alla gravità del problema.
Tra marxismo e capitalismo
Questo che abbiamo riportato è dunque il quadro delle riflessioni e delle constatazioni sul cui sfondo, secondo il teologo Joseph Ratzinger, va vista l’ormai celebre “Istruzione su alcuni aspetti della teologia della liberazione”.
Aggiungiamo, che, durante il nostro colloquio, il Cardinale è più volte tornato su un aspetto dimenticato in molti commenti: “La teologia della liberazione, nelle sue forme che si rifanno al marxismo, non è affatto un prodotto autoctono, indigeno, dell’America Latina o di altre zone sottosviluppate, dove sarebbe nata e sarebbe cresciuta quasi spontaneamente, per opera del popolo. Si tratta in realtà, almeno all’origine, di una creazione di intellettuali; e di intellettuali nati o formati nell’Occidente opulento: europei sono i teologi che l’hanno iniziata, europei – o allevati nelle università europee – sono i teologi che la fanno crescere in Sud America. Dietro lo spagnolo o il portoghese di quella predicazione si intravvede in realtà il tedesco, il francese, l’anglo-americano”.
Dunque, per lui anche la teologia della liberazione farebbe parte “della esportazione verso il Terzo Mondo di miti e utopie elaborate nell’Occidente sviluppato. Quasi un tentativo di esperimentare in concreto ideologie pensate in laboratorio da teorici europei. Per qualche aspetto, pertanto, è ancora una forma di imperialismo culturale, seppur presentato come la creazione spontanea delle masse diseredate. È poi tutto da verificare che influsso reale abbiano davvero sul ” popolo ” i teologi che dicono di rappresentarlo, di dargli voce”.
Osserva, continuando su questa linea: “In Occidente il mito marxista ha perso fascino tra i giovani e tra gli stessi lavoratori; si tenta allora di esportarlo nel Terzo Mondo da parte di intellettuali che vivono però al di fuori dei Paesi dominati dal Il socialismo reale “. Infatti, solo dove il marxismo leninismo non è al potere c’è ancora qualcuno che prende sul serio le sue illusorie ” verità scientifiche “”.
Segnala ancora che “paradossalmente – ma non troppo – la fede sembra essere più al sicuro all’Est, dove è ufficialmente perseguitata. Sul piano dottrinale non abbiamo quasi alcun problema con il cattolicesimo di quelle zone. Il fatto è che, là, per i cristiani non c’è certo il pericolo di convertirsi alle posizioni di una ideologia imposta con la forza: la gente sconta ogni giorno sulla sua pelle la tragedia di una società che ha tentato sì una liberazione, ma da Dio. Anzi, in alcuni Paesi dell’Est, sembra emergere l’idea di una ” teologia della liberazione”, ma come liberazione dal marxismo. Il che non significa certo che guardino con simpatia alle ideologie e al costume prevalenti in Occidente”.
Mi ricorda che “il cardinale primate di Polonia, Stefan Wyszynski, metteva in guardia dall’edonismo e dal permissivismo occidentali non meno che dall’oppressione marxista. Alfred Bengsch, cardinale di Berlino, mi diceva un giorno di vedere un pericolo più grave per la fede nel consumismo occidentale e in una teologia contaminata da questo atteggiamento che non nel comunismo marxista”.
Ratzinger non teme di riconoscere “il marchio del satanico nel mondo con cui in Occidente si sfrutta il mercato della pornografia e della droga”. “Sì – dice – c’è qualcosa di diabolico nella freddezza perversa con cui, in nome del denaro, si corrompe l’uomo approfittando della sua debolezza, della sua possibilità di essere tentato e vinto. È infernale la cultura dell’Occidente, quando persuade la gente che il solo scopo della vita sono il piacere e l’interesse privato”.
Eppure, se gli si chiede quale – a livello di elaborazione teorica – gli sembri il più insidioso tra i molti ateismi del nostro tempo, è ancora al marxismo che ritorna: “Mi sembra che il marxismo, nella sua filosofia e nelle sue intenzioni morali, sia una tentazione più profonda che non certi ateismi pratici, dunque intellettualmente superficiali. È che nell’ideologia marxista si approfitta anche della tradizione giudeo-cristiana, rovesciata però in un profetismo senza Dio; si strumentalizzano per fini politici le energie religiose dell’uomo, indirizzandole verso una speranza solo terrena che è il capovolgimento della tensione cristiana verso la vita eterna. È questa perversione della tradizione biblica che trae in inganno molti credenti, convinti in buona fede che la causa di Cristo sia la stessa di quella proposta dagli annunciatori della rivoluzione politica”.
Il dialogo impossibile
E qui – con aria che mi è sembrata più sofferente che ” inquisitoria ” – mi ha di nuovo ricordato quel “dramma del Magistero” che gli avvenimenti susseguenti alla pubblicazione dell’Istruzione sulla teologia della liberazione avrebbero riconfermato: “C’è questa dolorosa impossibilità di dialogare con i teologi che accettano quel mito illusorio, che blocca le riforme e aggrava la miseria e le ingiustizie, e che è la lotta di classe come strumento per creare una società senza classi”. Continua: “Se, Bibbia e Tradizione alla mano, fraternamente, si cerca di denunciare le deviazioni, subito si è etichettati come ” servi “, “lacchè ” delle classi dominanti che vogliono conservare il potere appoggiandosi anche alla Chiesa. D’altronde, le più recenti esperienze mostrano che rappresentanti significativi della teologia della liberazione si differenziano felicemente (per la loro disponibilità alla comunità ecclesiale e al servizio reale dell’uomo) dall’intransigenza di una parte dei mass-media e di numerosi gruppi di loro sostenitori, prevalentemente europei. Da parte di questi ultimi ogni nostro intervento, anche il più pensato e rispettoso, viene respinto a priori, perché si schiererebbe dalla parte dei “padroni”. Mentre la causa degli ultimi è tradita proprio da queste ideologie, che si sono rivelate fonte di sofferenza per il popolo stesso”.
Mi ha poi parlato dello sgomento provocatogli dalla lettura di molti dei teologi della liberazione: “C’è un ritornello ripetuto senza tregua: ” bisogna liberare l’uomo dalle catene dell’oppressione politico-economica; per liberarlo le riforme non bastano, anzi sono devianti; quel che ci vuole è la rivoluzione; ma il solo modo per fare la rivoluzione è bandire la lotta di classe “. Eppure, coloro che ripetono tutto questo non sembrano porsi alcun problema concreto, pratico, sul come organizzare una società dopo la rivoluzione. Ci si limita a ripetere che bisogna farla”.
Dice ancora: “Ciò che è inaccettabile teologicamente e pericoloso socialmente, è questo miscuglio tra Bibbia, cristologia, politica, sociologia, economia. Non si può abusare della Scrittura e della teologia per assolutizzare, sacralizzare una teoria sull’ordinamento socio-politico. Questo, per sua natura, è sempre relativo. Se invece si sacralizza la rivoluzione mescolando Dio, Cristo, ideologie si crea un fanatismo entusiastico che può portare alle ingiustizie e alle oppressioni peggiori, rovesciando nei fatti ciò che in teoria ci si proponeva”. Continua: “Colpisce dolorosamente poi – in sacerdoti, in teologi! – questa illusione così poco cristiana di potere creare un uomo e un mondo nuovi, non col chiamare ciascuno a conversione, ma agendo solo sulle strutture sociali ed economiche. È il peccato personale che è in realtà alla base anche delle strutture sociali ingiuste. E sulla radice, non sul tronco e i rami dell’albero dell’ingiustizia che bisognerebbe lavorare se si vuole davvero una società più umana. Sono verità cristiane fondamentali, eppure respinte con disprezzo come ” alienanti spiritualiste “.