Santo Stefano, primo re cristiano degli ungheresi
JÓZSEF TÖRÖK – Docente di storia della Chiesa alla Facoltà di Teologia di Budapest
Le celebrazioni dell’anno 2000 coincidono con quelle del millesimo anniversario dell’esistenza dello Stato cristiano ungherese. Fu infatti nell’autunno del 1000 che Papa Silvestro II inviò la corona a re santo Stefano. Il granduca ungherese venne consacrato re ed incoronato in occasione del Natale del 1000 ad Esztergom, dove, sulla Cittadella, già a quel tempo, esisteva la chiesa dedicata al protomartire santo Stefano.
Questo anniversario ha offerto una ottima occasione agli storici che conducono ricerche relative al Medio Evo ungherese, perché possano nuovamente riassumere tutti i dati finora conosciuti grazie alle fonti storiche a disposizione, nonché completarli con le loro ipotesi. Alcuni degli storici che dedicano i loro studi a santo Stefano ed alla sua epoca, di volta in volta, si ispirano ad una teoria dei precedenti decenni – che non è in tutto e per tutto fondata – secondo cui santo Stefano avrebbe costretto il popolo ungherese con la forza ad accettare la fede cristiana. Per dimostrare la veridicità di tale tesi esagerano nel sottolineare gli episodi della vita di Stefano che si riferiscono al fatto che il primo re ungherese fu pronto a difendere il nuovo ordine sociale cristiano anche con le armi. Ma grazie alle critiche delle fonti storiche, nel corso dell’ultimo decennio è divenuto sempre più evidente il fatto che l’opera di santo Stefano – sebbene abbia significato una svolta decisiva nell’abbracciare il cristianesimo! – può essere considerata piuttosto come la felice conclusione di un processo abbastanza lungo e non tanto come il complesso di decisioni e di lotte senza precedenti, dettate dall’assolutismo reale. Sebbene esistano opinioni secondo cui santo Stefano fosse nato nel 980, la data di nascita tradizionale, cioè il 969-970 è maggiormente credibile in base alle fonti a disposizione. Quando nel 997 Stefano ereditò da suo padre il potere di granduca, il giovane sovrano fu caratterizzato da una assai ferma risolutezza dal momento in cui percorse dalla Fortezza di Nyitra, sede del principe ereditario, l’itinerario che lo condusse ad Esztergom, da dove proseguì a capo delle sue schiere – composte da ungheresi e tedeschi – verso la città di Veszprém. Infatti, non si delinea affatto la figura di un giovane diciassettenne trascinato dalla corrente degli avvenimenti, costretto a rimettersi ai suoi consiglieri. Ma si profila un sistema omogeneo nelle manifestazioni dell’esercizio del potere che nel corso del suo regno di quattro decenni si traduce in una vera e propria opera di vita.
Come le due facce di una medaglia coniata in un metallo nobile rappresentano due figure diverse, anche se formano un’unica opera, così anche nel caso di re Stefano la fondazione dello Stato e l’organizzazione della Chiesa si fusero in una indivisibile unità anche se ambedue si poterono appoggiare su seri precedenti. Dallo Stato di un popolo nomade, che ereditò da suo padre, in tre anni (997-1000) formò un regno cristiano che poteva essere opera solo di un carismatico personaggio maturo, pronto a saper governare, il quale da quando venne portato sugli scudi (verso i primi anni del 990) si era consapevolmente preparato al suo compito da realizzare. Il giovane granduca educato da cristiano parlava ancora la lingua delle steppe, e così seppe rivolgersi anche a coloro che comprendevano solo questa. Secondo le usanze turco bulgare, ereditate ancora nel corso delle migrazioni per le steppe, la salma di Koppány, che perse la vita nella battaglia decisiva del 997, venne dilaniata dai guerrieri e su ordine del vincitore portata in quattro fortezze del Paese (Veszprém, Gyõr, Székesfehérvár, Gyulafehérvár) ed inchiodata sulle porte di esse. Questo fatto, dal punto di vista cristiano ritenuto un vilipendio dei cadaveri, secondo la pratica giudiziaria turco bulgara, scritta e non scritta, era una soluzione ammessa in caso di crimini che gridavano vendetta ed era di insegnamento a tutti coloro che mancavano di comprensione. Grazie a ciò, Stefano, nel corso del suo lungo regno (997-1038), solo due volte dovette ancora ricorrere ad interventi militari tra i confini del suo Paese, nei confronti di ungheresi. Il transilvano Gyula, suo zio materno con sede centrale a Gyulafehérvár, e Ajtony con sede principale a Marosvár, costituirono una Signoria regionale che mise in pericolo il concentramento del potere indispensabile all’organizzazione dello Stato. Quando nel 1003 re santo Stefano entrò in guerra contro Gyula si riuscì ad evitare lo spargimento di sangue, perché quando le schiere di Stefano affluirono in gran numero, le varie parti della Transilvania si arresero e si sottomisero al suo potere. Mentre il condottiere Ajtony, sulla fascia sud est delle frontiere del Paese, nel 1028 (o forse già nel 1008) reagì con le armi e «… chi di spada ferisce di spada perisce … », Ajtony venne sconfitto da Csanád, condottiere di Stefano. Il fatto che ambedue i Signori delle due regioni beneficiarono del battesimo di rito bizantino, non ebbe particolare importanza: infatti, a quel tempo, il cristianesimo Orientale ed Occidentale erano ancora uniti. La fondazione dello Stato e l’organizzazione della Chiesa erano due processi in stretta correlazione e coloro che collaborarono alla loro realizzazione (le fonti ricordano solo alcuni nomi) non seppero e non vollero separare le loro attività. Re Stefano nonché i suoi collaboratori presero atto della collocazione territoriale della popolazione ancora assai multiforme, che in misura sempre maggiore si stava insediando in dimore fisse, e vararono le decisioni in merito alla costituzione delle sedi vescovili e regionali, cioè delle castellanie. Il re seguì il modello bavarese e ben presto fece coniare le prime monete tra le quali è degno di attenzione il denaro che su una delle facce raffigura in mezzo alla leggenda «Lancea regis» («la lancia del re») la «manus Dei» («il braccio di Dio») che emerge da una nuvola e tiene nella mano una lancia con uno stendardo. La moneta la cui leggenda è «Regia civitas» («città regia») probabilmente vuol fare riferimento alla città di Esztergom dove venne aperta la prima zecca. In quest’epoca venne formulato il primo codice in base ai modelli Carolingi. Gli articoli delle leggi definirono i compiti, le sfere di attività ed i privilegi di cui godevano nell’ambito della giurisdizione i Vescovi e le gerarchie ecclesiastiche. I patrimoni della Chiesa godevano della protezione regale, la proprietà privata e reale era inviolabile. Anche la messa in pratica della fede cristiana venne formulata con la prescrizione dell’osservanza delle domeniche, delle festività, dei digiuni e delle celebrazioni dei sacramenti. Le leggi proibivano gli atti in contrasto con i Dieci Comandamenti (l’assassinio, la violazione di fede, il ratto delle giovani, la lussuria, gli incendi dolosi, la magia, la ciarlataneria); allo stesso tempo tutelavano le diverse forme del diritto alla libertà precisate dettagliatamente. La deposizione della prima pietra dell’organizzazione ecclesiastica ungherese venne effettuata nel corso del Concilio di Ravenna tenuto in occasione della Pasqua nel 1001, quando in presenza di Papa Silvestro II, che nel corso dell’autunno precedente aveva inviato la corona, e dell’imperatore del Sacro Impero Romano Germanico, Ottone III, che aveva assecondato con un cenno affermativo, con gli aiuti ed il beneplacito del Pontefice, nacque il grande progetto: l’organizzazione delle Diocesi sotto l’egida dell’Arcidiocesi di Esztergom. La città di Esztergom, sin dagli inizi, aveva avuto un ruolo guida, in qualità di «Mater et caput» («Madre e Capo»). La tesi tradizionale, secondo cui il Papa avrebbe inviato al re la croce con i bracci corti raddoppiati, cioè la croce di Lorena o patriarcale, perché potesse svolgere anche un’attività «apostolica», non regge alla luce della critica della storia. La presenza della Croce patriarcale potrà invece essere riscontrata solo dal regno di re Béla III (1172-1196). Nella fortezza di Veszprém, residenza della regina, dove la moglie di santo Stefano, la beata Gisella, spesso si tratteneva, parallelamente a ciò venne organizzata la Diocesi, sebbene a buon diritto si può supporre che dall’inizio dell’anno 970 la cittadina di Veszprém fosse il centro di attività e il luogo di residenza invernale di uno o di più Vescovi missionari i cui nomi sono sconosciuti. Nella cittadina di Kalocsa, che era considerata sede delle proprietà terriere della famiglia reale, venne fondata la Diocesi nel 1002. Malgrado ciò, entro un decennio l’alto prelato di Kalocsa viene insignito già del titolo di Arcivescovo. Così sin dagli inizi il Paese ebbe due Arcidiocesi. Diocesi vennero costituite ad Eger verso il 1004, a Gyõr prima del 1009, a Pécs nel 1009, ed in quei tempi esisteva già anche la Diocesi della Transilvania con sede a Gyulafehérvár. Dunque nel primo decennio del secondo millennio vennero organizzate sette Diocesi di cui due Arcidiocesi. In seguito, verso il 1025, venne fondata la Diocesi di Bihar, la cui sede venne insediata nella Fortezza di Bihar, residenza del principe ereditario sant’Emerico. Questo centro ecclesiastico, più tardi, venne spostato a Nagyvárad da re san Ladislao (1077-1095). Dopo la vittoria riportata sul condottiero Ajtony, nella parte meridionale del Paese, sulle rive del fiume Maros, a Marosvár (più tardi denominato Csanád), nel 1030 venne fondata una nuova Diocesi che ebbe come primo Vescovo san Gerardo giunto da Venezia, il quale fu martirizzato dai pagani nel 1046. Entro il 1038 l’ultima Diocesi venne costituita a Vác. Merito imperituro di santo Stefano e dei suoi collaboratori fu l’aver creato un sistema di Diocesi che si era esteso su tutto il Bacino dei Carpazi, su tutto il territorio dell’Ungheria storica che, tutto sommato, rimase invariato fino al sec. XX. Il regno di santo Stefano ebbe una tragica fine. Infatti il principe ereditario, suo figlio Emerico, morì nel 1031. Re santo Stefano, malgrado la tragedia umana e politica, seppe a chi rivolgersi ed offrì alla Beata Vergine Maria la sua corona ed il suo Paese.
«Santa mano destra gloriosa…»: la reliquia del protomartire
GÉZA SZABÓ
Parroco della Basilica di santo Stefano di Budapest
«Santa Mano Destra gloriosa vista dagli ungheresi con anelito» echeggia da vari secoli il canto popolare ungherese che inneggia alla reliquia della mano destra di santo Stefano, primo re degli ungheresi. La reliquia, cioè la mano destra di santo Stefano, gode grande considerazione sia dal punto di vista religioso sia da quello della vita pubblica, sociale. La «destra» è una Reliquia nazionale; infatti è il pugno del nostro re Santo, fondatore del nostro Paese, rimasto tuttora tra di noi. La sua storia è articolata. Il nostro primo re, dopo la sua morte, ai sensi della sua ultima volontà, venne sepolto nella Basilica della Beata Vergine Assunta di Székesfehérvár da lui fondata. La sua salma imbalsamata venne messa in un sarcofago di marmo romano, che a sua volta venne sistemato al centro della Basilica davanti all’altare maggiore.
Quando nel 1061 divampò nel Paese la rivolta pagana capeggiata da Giovanni, figlio di Vata, i sommi sacerdoti cattolici, il capitolare della Basilica della Beata Vergine Assunta ed i nobili religiosi deposero le spoglie mortali del re Santo in un sarcofago che venne riscolpito con motivi cristiani e lo nascosero in una camera sepolcrale sotterranea nelle vicinanze della Basilica. Questo sarcofago venne ritrovato nel 1803 nel corso dei primi scavi effettuati tra i ruderi, mentre la tomba, che si trova al lato sud-ovest della chiesa, venne rinvenuta dagli archeologi nel 1970.
Nel 1061 la prima esumazione della salma
Nel 1061, nel corso della prima esumazione e del secondo seppellimento della salma di re santo Stefano, i presenti, in base ad una decisione segreta, separarono il braccio destro dalle spoglie mortali del re. Questo venne portato da un religioso dal nome Mercurius (in ungherese Mérk) nella regione del Bihar, sul podere famigliare situato su una delle maggiori isole del fiume Berettyó, nel piccolo villaggio di Berekis, dove venne sistemato nella chiesa del monastero (secondo alcuni in una chiesa in legno) dove la preziosa reliquia del nostro primo re venne circondata dalla massima stima e devozione. Quando re Ladislao I, che onoriamo sempre in concetto di santità, il 20 agosto 1083, nel corso della solenne canonizzazione del nostro primo re, Stefano, con il permesso tassativo di Papa Gregorio VII, esumò le spoglie di Stefano, i presenti furono grandemente stupiti, anzi rimasero costernati per la mancanza del braccio destro del sovrano. Dopo la canonizzazione, nel 1084, re Ladislao seppe che il braccio destro di santo Stefano era al sicuro e custodito – circondato da grande devozione – a Berekis, nella regione del Bihar. Il re si recò in pellegrinaggio a Berekis il 30 maggio 1084. Questa data, nel calendario liturgico ungherese è la festività del ritrovamento, del traslazione e della glorificazione della Santa Destra. Re Ladislao fu clemente nei confronti del «pio ladro» Mérk, e gli perdonò. Denominò Szentjobb (cioè Santadestra) il piccolo villaggio di Berekis ed incaricò il principe Álmos di fondare nel villaggio una abbazia dei benedettini. Quando questa venne ultimata, primo abate naturalmente venne nominato Mercurius, cioè Mérk. La Santa Destra più tardi venne riportata a Székesfehérvár, presumibilmente nel sec. XV; infatti lo testimonia anche il ben noto oratore e teologo francescano Padre Laskai Osvát (1450-1511).
La traslazione a Dubrovnik
Dopo Berekis e Székesfehérvár la Santa Destra venne portata a Ragusa, oggi Dubrovnik (in Croazia). Infatti, quando nel 1541 i turchi misero a sacco la città di Székesfehérvár, su richiesta del capitolare furono i francescani, che veneravano con particolare stima la Santa Destra, a portarla in Dalmazia dove la custodirono nella città di Ragusa. Qui, fino al 1771 furono i padri domenicani ad avere cura di essa con grande orgoglio e pia devozione. L’imperatrice Maria Teresa, regina d’Ungheria, fece di tutto perché la reliquia di santo Stefano potesse finalmente tornare nella nostra patria. Come risultato di lunghe trattative diplomatiche la Santa Destra già il 16 aprile 1771 era stata portata a Vienna da dove, nell’ambito di solenni festeggiamenti, venne trasferita a Buda. La regina affidò la reliquia all’Ordine delle Dame Inglesi che la custodirono nella loro chiesa in un armadietto di argento in stile rococò, fatto costruire dall’imperatrice Maria Teresa. Dal 1777 la Santa Destra venne affidata all’Università trasferitasi a Buda. Poi, ai sensi di un decreto varato da Giuseppe II, furono i membri dell’Ordine della Santa Croce a custodirla fino al 1865, cioè fino alla cessazione del loro Ordine. In questo periodo, a spese dei Vescovi ungheresi, venne preparata l’attuale sontuosa reliquia in stile gotico, il cosiddetto «reliquiario di Lippert», in cui nel 1862 venne solennemente sistemata la mano destra di Santo Stefano dall’Arcivescovo di Esztergom, Cardinale János Scitovszky, Principe Primate d’Ungheria.
La custodia del clero di Esztergom
Dal 1865 furono i membri del clero dell’Arcidiocesi di Esztergom a custodire la Santa Destra. Fino al 1944 la mano destra del nostro re Santo era collocata nella cosiddetta Cappella Zsigmond del Palazzo Reale di Buda. Tra le vicissitudini della Seconda Guerra Mondiale la reliquia, che venne con viva forza portata all’estero, fu riportata a Budapest in rovina, la sera del 19 agosto del 1945, da Salisburgo, da un distaccamento dell’esercito statunitense – di cui fece parte anche un colonnello di origine ungherese, György Kovács. Il giorno dopo molte migliaia di fedeli accompagnarono la preziosa reliquia rientrata in Ungheria sulla piazza antistante alla Basilica di santo Stefano di Budapest. In seguito essa venne custodita di nuovo nella già menzionata chiesa delle Dame Inglesi. Nel 1950, dopo che le autorità statali avevano fatto sciogliere gli Ordini religiosi ungheresi, la Santa Destra venne portata nella canonica della Basilica di santo Stefano. Qui venne conservata in un tabernacolo chiuso e custodita nascosta ai fedeli. Nel corso dei quarant’anni di comunismo venne proibita la venerazione pubblica della Santa Destra. Una lieve distensione, che si era manifestata negli ultimi anni di questi decenni, rese possibile, secondo il desidero dell’Arcivescovo di Esztergom, il Cardinale László Lékai, Primate d’Ungheria (1976-1986), la sistemazione della Santa Destra sistemata nella cosiddetta Cappella di san Leopoldo della Basilica di santo Stefano di Budapest, la maggiore chiesa ed il maggior centro spirituale della capitale della nostra Patria, dove venne custodita in un tabernacolo realizzato in base ai progetti di György Dominek (sacerdote, scultore e architetto morto in giovane età). La nuova e degna sede venne realizzata sempre nella Basilica per il 20 agosto 1987. Essa venne benedetta dall’Arcivescovo di Esztergom Budapest, Cardinale László Paskai, Primate d’Ungheria.
Il culto religioso di santo Stefano è strettamente legato alla reliquia della Santa Destra e dopo quarant’anni di regime comunista è stata ripristinata anche la tradizionale processione con essa, culmine delle celebrazioni del 20 agosto, festività di Santo Stefano e festa nazionale.
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Il Messaggio di Giovanni Paolo II al popolo magiaro in occasione della ricorrenza millenaria
La fedeltà al cristianesimo porti gli ungheresi a coltivare i valori del rispetto reciproco e della solidarietà, che hanno nella dignità della persona umana il loro indistruttibile fondamento
Carissimi Fratelli e Sorelle in Cristo!
Amato Popolo Ungherese!
1.Te Deum laudamus, Te Dominum confitemur! Queste gioiose parole dell’inno Te Deum ben si addicono alla solenne celebrazione del primo Millennio dell’incoronazione di santo Stefano. In quest’ora di grazia il pensiero va a quell’evento chiave che segna la nascita dello Stato ungherese. Con cuore riconoscente, desideriamo lodare Dio e ringraziarlo per le grazie ricevute dal popolo d’Ungheria in questi mille anni di storia. È una storia che inizia con un Re santo, anzi con una «famiglia santa»: Stefano con la moglie, la Beata Gisella, ed il figlio Sant’Emerico costituiscono la prima famiglia santa ungherese. Sarà un seme che germoglierà e susciterà una schiera di nobili figure che illustreranno la Pannonia Sacra: basti pensare a san Ladislao, a sant’Elisabetta ed a santa Margherita! Guardando poi al tormentato secolo ventesimo, come non ricordare le grandi figure del compianto Card. József Mindszenty, del beato Vescovo martire Vilmos Apor e del venerabile László Batthyány-Strattmann? È una storia che si snoda nei secoli con una fecondità che a voi spetta di continuare ed arricchire con nuovi frutti nei vari campi dell’attività umana. Nello scorrere del suo glorioso passato, l’Ungheria è stata anche baluardo di difesa della cristianità contro l’invasione dei tartari e dei turchi. Non mancarono certo, in così ampio arco di tempo, momenti oscuri; non mancò l’esperienza amara di arretramenti e sconfitte, su cui è doveroso ritornare con un esame critico che metta in luce le responsabilità e induca a ricorrere, in ultima analisi, alla misericordia di Dio, il quale sa trarre il bene anche dal male. Nel suo insieme, tuttavia, la storia della vostra Patria è ricca di splendide luci sia nell’ambito religioso che in quello civile, così da suscitare l’ammirazione di quanti ne intraprendono lo studio.
2. Agli albori del Millennio si staglia la figura del santo Re Stefano. Egli volle fondare lo Stato sulla pietra salda dei valori cristiani, e per questo desiderò ricevere la corona regale dalle mani del Papa, il mio Predecessore Silvestro II. In tal modo, la Nazione ungherese si costituiva in profonda unità con la Cattedra di Pietro e si legava con stretti vincoli agli altri Paesi europei, che condividevano la medesima cultura cristiana. Proprio questa cultura fu la linfa vitale che, permeando le fibre della pianta in formazione, ne assicurò lo sviluppo ed il consolidamento, preparandone la futura, straordinaria fioritura. Nel cristianesimo il vero, il giusto, il buono, il bello si ricompongono in mirabile armonia sotto l’azione della grazia, che tutto trasforma ed eleva. Il mondo del lavoro, dello studio e della ricerca, la realtà del diritto, il volto dell’arte nelle sue molteplici espressioni, il senso dei valori, la sete – spesso inconscia – di cose grandi ed eterne, con il bisogno di assoluto che è presente nell’uomo, trovano il loro estuario in Gesù Cristo, che è la Via, la Verità, la Vita. È quanto rilevava Agostino, quando affermava che l’uomo è fatto per Dio, e per questo il suo cuore è irrequieto finché non riposa in Lui (cfr Confess. I, 1). In questa inquietudine creativa pulsa tutto ciò che esiste di più profondamente umano: il senso di appartenenza a Dio, la ricerca della verità, l’insaziabile bisogno del bene, la sete ardente d’amore, la fame di libertà, la nostalgia del bello, lo stupore del nuovo, la voce sommessa ma imperativa della coscienza. Proprio questa inquietudine rivela pertanto la vera dignità dell’uomo, il quale nel più profondo del suo essere avverte come il proprio destino sia indissolubilmente legato a quello eterno di Dio. Ogni tentativo di elidere o di ignorare questo insopprimibile bisogno di Dio riduce ed immiserisce il dato originale dell’uomo: il credente, che di ciò è consapevole, deve farsene testimone nella società, per servire anche in questo modo l’autentica causa dell’uomo.
3. È a tutti noto che la vostra nobilissima Nazione si è formata sulle ginocchia materne della Santa Chiesa. Purtroppo nelle due ultime generazioni, non tutti hanno avuto la possibilità di conoscere Gesù Cristo, nostro Salvatore. Tale periodo della storia è stato segnato da tribolazioni e sofferenze. Ora spetta a voi, cristiani ungheresi, il compito di portare il nome di Cristo e di annunciare la sua Buona Novella a tutti i vostri cari concittadini, facendo loro conoscere il volto del nostro Salvatore. Quando santo Stefano scrisse i suoi Ammonimenti al figlio Emerico, è a lui soltanto che egli si rivolgeva? È questa la domanda che vi ponevo, nel corso del mio primo viaggio pastorale in Ungheria, durante l’indimenticabile celebrazione avvenuta nella Piazza degli Eroi, il 20 agosto del 1991. Osservavo allora: «Non ha forse il Santo Re scritto i suoi Ammonimenti per tutte le future generazioni degli Ungheresi, per tutti gli eredi della sua corona? Il Re che voi venerate, cari figli e figlie della Nazione ungherese, vi ha lasciato come eredità non soltanto la sacra corona, ricevuta dal Papa Silvestro II, ma vi ha lasciato anche un testamento spirituale, un’eredità di valori fondamentali e indistruttibili: la vera casa costruita sulla roccia». Resta, inoltre, sempre attuale quanto il Santo Re, in quel testo venerando, ricordava al figlio: «Un paese che ha una sola lingua e un solo costume è debole e cadente. Per questo ti raccomando di accogliere benevolmente i forestieri e di tenerli in onore, così che preferiscano stare piuttosto da te che non altrove» (Ammonimenti, VI). Come non ammirare la lungimiranza di un simile monito? Vi è delineata la concezione di uno Stato moderno, aperto verso le necessità di tutti, alla luce del Vangelo di Cristo.
4. La fedeltà al messaggio cristiano porti oggi anche voi, carissimi Fratelli e Sorelle ungheresi, a coltivare i valori del rispetto reciproco e della solidarietà, che hanno nella dignità della persona umana il loro indistruttibile fondamento. Sappiate accogliere con animo riconoscente verso Dio il dono della vita e difendetene con intrepido coraggio il valore sacro a partire dal concepimento fino al suo termine naturale. Siate consapevoli della centralità della famiglia per una società ordinata e florida. Promuovete, pertanto, sapienti iniziative per proteggerne la saldezza e l’integrità. Solo una Nazione che possa contare su famiglie sane e solide è capace di sopravvivere e di scrivere una grande storia, come è stato nel vostro passato. Non manchi poi tra i cattolici d’Ungheria la volontà di coltivare con gli aderenti alle altre confessioni cristiane rapporti di sincero ecumenismo, per essere autentici testimoni del Vangelo. Mille anni fa, la Cristianità non era ancora divisa. Oggi si sente con forza sempre maggiore la necessità di ricomporre la piena unità ecclesiale fra tutti i credenti in Cristo. Le divisioni degli ultimi secoli devono essere superate, nella verità e nell’amore, con impegno appassionato ed insonne. Favorite ed appoggiate, inoltre, ogni iniziativa volta a promuovere la concordia e la collaborazione all’interno della Nazione e con le Nazioni vicine. Avete sofferto insieme durante i lunghi periodi di prova che si sono abbattuti su voi e sugli altri popoli; perché non dovreste poter vivere insieme anche nel futuro? La pace e la concordia saranno per voi fonte di ogni bene. Studiate il vostro passato e cercate di trarre dalla conoscenza delle vicende dei secoli trascorsi l’insegnamento di cui è ricca la storia, magistra vitae anche per il vostro futuro.
5. Salvum fac populum tuum, Domine, et benedic hereditati tuae! Con questa invocazione, che ancora il Te Deum pone sulle nostre labbra, ci rivolgiamo al Signore per implorarne l’aiuto sul nuovo Millennio che si apre. Lo chiediamo per l’intercessione della Vergine Maria, la Magna Domina Hungarorum, la cui venerazione ha tanta parte nella preziosa eredità del Re Santo Stefano. A Lei egli aveva offerto la sua corona, quale segno di affidamento del popolo ungherese alla sua celeste protezione. Quante immagini che rievocano questo gesto si trovano nelle vostre chiese! Seguendo l’esempio del santo Re, sappiate anche voi porre il vostro futuro sotto il manto di Colei a cui Dio affidò il suo Unigenito Figlio! Voi porterete oggi solennemente in processione per le vie della vostra Capitale la Mano Destra di santo Stefano, quella mano con cui egli offrì la corona alla Beata Vergine Maria: la santa mano del vostro antico Re accompagni e protegga sempre la vostra vita! Con questi pensieri intendo rendermi spiritualmente presente alle vostre solenni celebrazioni, porgendo un saluto deferente al Signor Presidente della Repubblica ed a tutte le Autorità della Nazione, al Signor Cardinale Arcivescovo e a tutti i Confratelli nell’Episcopato ed ai loro collaboratori, alle illustri Delegazioni convenute a Budapest per la solenne circostanza, come a tutta la nobile Nazione ungherese. Nell’anno del Grande Giubileo dell’incarnazione del Figlio di Dio e nel solenne millennio della vostra Nazione invoco su voi tutti la più larga benedizione di Dio Padre ricco di misericordia, di Dio Figlio nostro unico Redentore, di Dio Spirito Santo, che fa nuove tutte le cose. A Lui gloria e onore nei secoli dei secoli!
Da Castel Gandolfo, il 16 Agosto del 2000, ventiduesimo di Pontificato.
© L’OSSERVATORE ROMANO 16-17 Agosto 2000 e 21-22 Agosto 2000