Del Card. Silvio Oddi
Qualche tempo fa in occasione della commemorazione di un sacerdote spirato in odore di santità, ricordo di aver copiato questo brano tratto dal diario spirituale del defunto: «O prete dell’Eucaristia o morire. Le mie parole e le mie opere devono essere sempre predicare Gesù crocifisso. Essere sacerdote della povertà, della carità, della mansuetudine. Mi studierò di essere un Don Niente; Don Niente nelle mani di Gesù è onnipotente».
Queste parole hanno richiamato alla mia mente le esortazioni che i Sommi Pontefici, gli ultimi specialmente, hanno indirizzato ai sacerdoti invitandoli a non dimenticare che sono tutti un «alter Christus» secondo la forte espressione di S. Paolo: «vivo ego, iam non ego, vivit vero in me Christus» (Gal 2,20).
Divenuto uomo nuovo per la spirituale rigenerazione in Cristo, vivo una nuova vita, e la mia vita è Cristo, il quale in me opera ed in me regna.
Ogni sacerdote deve dunque considerare come il centro della propria vita sacerdotale e di tutta la Chiesa, la celebrazione eucaristica. In essa si edifica la Chiesa e da essa si attinge la forza di Cristo, necessaria all’adempimento della propria missione: dispensatori dunque dei misteri divini nell’opera primaria (del sacerdote): la personale santificazione e l’edificazione del popolo di Dio.
1. Innanzitutto la santificazione del sacerdote
Forse non a torto è stato scritto che «una delle più gravi crisi della Chiesa, oggi messa in rilievo, è quella dei preti che non pregano o che non pregano sufficientemente. Mi riferisco alla preghiera personale, quella che richiede tempo sottratto ad altro per intrattenersi con Dio». Così scrive il P. Maloney sulla base di molti ritiri spirituali tenuti al clero in varie località, in varie Diocesi. La maggior parte dei sacerdoti da lui incontrati non aveva una vita spirituale profondamente sviluppata.
È certo che per essere veri ministri della Parola occorre anche essere uomini di preghiera, come diede l’esempio Gesù stesso.
Due sono le principali motivazioni che si adducono per giustificare questa negligenza: alcuni ritengono che le “vecchie preghiere” apprese e praticate nei tempi andati, non corrispondono più ai bisogni odierni; altri si giustificano asserendo che la loro preghiera consiste nell’attività apostolica.
In realtà scarseggia l’attitudine alla contemplazione perché difetta la capacità di vivere con calma, a causa della superstimolazione odierna e del supereccitamento generale. Eppure non possiamo ignorare che Iddio opera nella calma, senza frastuono, «con voce lieve». E la vita di contemplazione non è altro che la realizzazione della presenza di Dio in noi, come la preghiera è «il respiro della nostra impotenza e dipendenza».
Bisogna pregare sempre, ci ha raccomandato il Signore ed insiste S. Paolo «orate sine intermissione» (Ef 6,18). L’Arcivescovo di Milano, il Card. Martini ha definito lo stato contemplativo, come la tappa sacerdotale, la tappa cioè del cristiano maturo il quale, dopo l’itinerario di maturazione, si chiede quale sia il centro delle molteplici esperienze fatte (Cf «Rivista del clero» n. 8; 1980). Contemplando si prega. È stato detto e giustamente che «ci vuole la passione della preghiera, per buttarsi nelle mani di Dio e compiere i Suoi disegni su di noi». Bisogna farsi guidare dallo Spirito (Cf Gal 5,16).
Occorre povertà di spirito per cercare le ricchezze di Dio e non il successo di questo mondo. Ma appunto la chiave del vero successo di questa povertà di spirito sta nel possesso di Dio: più Lo si possiede, tanto più farà spazio per possederLo maggiormente.
La spiritualità del Clero diocesano è stata abitualmente mutuata da quella propria dei religiosi, mentre è nella diocesanità che si deve ravvisare la caratteristica della sua spiritualità; nella stabile dedizione alla Chiesa locale ed al Vescovo.
Il sacerdote è uomo chiamato e consacrato da Cristo «per il servizio dei fratelli nelle cose che riguardano Dio» (Eb 5,1). Ecco perché il sacerdote deve qualificarsi spiritualmente nella dedizione agli altri «nelle cose che riguardano Dio». Ascoltiamo quello che dice in proposito il Concilio Vat. II: «I sacerdoti, mediante il quotidiano esercizio del proprio ufficio, crescano nell’amore di Dio e del prossimo, conservino il vincolo della comunione sacerdotale, abbondino di ogni bene spirituale e diano a tutti la viva testimonianza di Dio, emuli di quei sacerdoti che nel corso dei secoli, in un servizio spesso umile e nascosto, hanno lasciato uno splendido esempio di santità». «Tutti i sacerdoti – è sempre il Concilio Vat. II che parla – e specialmente quelli che per lo specifico titolo della loro ordinazione sono detti diocesani, ricordino quanto contribuiscano alla loro santificazione, la fedele unione e la generosa collaborazione con il proprio Vescovo» (L.G. 41
2. L’edificazione del Popolo di Dio
Naturalmente alla religiosità di vita va aggiunta l’attività apostolica; essa viene a far parte integrante della religiosità stessa per il pastore di anime.
L’azione apostolica segna una peculiare specificità nell’esistenza spirituale, ecclesiale, trinitaria, di chi si consacra al servizio delle anime.
Non si tratta di qualcosa di estraneo, di giustapposto alla religiosità, alla preghiera, all’intimità col Padre: si tratta piuttosto di un momento della vita e della missione divina ricevute nello Spirito, in quanto l’opera di Cristo si dispiega nelle umane opere apostoliche per la forza dello Spirito.
L’apostolato, esprimendo la missione di Cristo in questo mondo per l’annuncio del Regno, caratterizza l’azione presbiterale e quella integrata di ogni vita consacrata (Cf Chapelle, «Vie consacré» 79, n. 6). L’attività pastorale pone il curatore d’anime al centro di mille problemi del vivere pratico. La gente va dal sacerdote in cerca di speranza e di fiducia: non sarebbe giusto deluderla, ma non sarebbe saggio neppure trasformare la Parrocchia in una agenzia, anche se il fattore spirituale non è esclusivo.
3. La ricerca di interiorità
Nella consegna del Vangelo all’ordinazione diaconale e del pane e del vino in quella sacerdotale ci fu detto: «Sii consapevole di quanto farai, sii imitatore di ciò che compirai e ispira la tua vita al mistero della croce del Signore» (Pontificale romano; rito dell’ordinazione diaconale e presbiterale).
In queste frasi è espressa sinteticamente quella esigenza di interiorizzazione che comporta spazi di silenzio, momenti di riflessione, clima di raccoglimento, l’uso appropriato e personalizzato dei mezzi offerti dalla tradizione spirituale della Chiesa ed infine il coraggio e la costanza di confrontarci periodicamente su questo stesso cammino con saggi Confratelli esperti nelle vie dello spirito.
Parlare di vita interiore non è fare un discorso moralistico, ma cogliere la vita sacerdotale in tutta la sua profondità.
«Un’esperienza di tutti – ha scritto Mons. Franzi -, è il sentirci interiormente vuoti, bronzi squillanti, tamburi rombanti. Ma questa esperienza di vuoto ci stimola a cercare al di dentro la vita interiore, per essere leali, autentici, coraggiosi» (S.Ecc.za Mons. Francesco Franzi, Vescovo Ausiliare di Novara).
È stato anche scritto: «Un sacerdote in tensione non risolta o un sacerdote isolato costituiscono un pericolo per la buona salute del clero locale» (Seminarium, 1979 n. 3).
«…Incrementare la fraternità sacerdotale, significa anche difendere, custodire e accrescere il dono della consacrazione totale dei presbiteri al Signore» (Sacerdotalis coelibatus n. 79).
Il Vaticano II nel decreto sull’Ordine del Presbiterato indica con chiarezza nella vita comune un aiuto alla vita sia spirituale che intellettuale e ad una pastorale più efficace.
Questa vita comune non è sempre facile né possibile; il che però non esclude una generosa disponibilità verso i confratelli, coltivando una genuina vita spirituale e favorendo le occasioni di incontro con i propri confratelli in spirito di amicizia sacerdotale per pregare insieme, confrontarsi e sostenersi a vicenda.
È ancora il Vaticano II che afferma: «Ciascuno è unito agli altri membri del presbiterio da particolari vincoli di carità apostolica, di ministero di fraternità… Ciascuno dei presbiteri è unito ai confratelli con il vincolo della carità, della preghiera e della collaborazione, manifestando così quell’unità con cui Cristo volle che i Suoi fossero una cosa sola» (P.O. n. 8).
Nessun sacerdote è tale da solo, ma lo è autenticamente solo se resta in comunione con il Vescovo nel presbiterio a favore di tutto il Popolo di Dio.
A proposito della fraternità sacerdotale è opportuno ricordare il monito preciso del Concilio Vat. II: «In virtù della comune sacra ordinazione e missione, tutti i sacerdoti sono tra loro legati da un’intima fraternità, che deve spontaneamente e volentieri manifestarsi nel mutuo aiuto spirituale e materiale, pastorale e personale, nei convegni e nelle comunità di vita, di lavoro e di carità» (L.G. n. 28).
Posso permettermi di terminare con una frase di Virgilio: «Omnia vincit amor, et nos cedamus amori» (Virgilio, Egloga X, verso 69): Iddio ci ha amati chiamandoci a Sè; ha vinto tutte le difficoltà, ha trascurato tutte le debolezze e noi abbiamo ceduto all’invito di amore. Procuriamo di rispondervi il meno indegnamente possibile, seguendo anche in questo l’esempio dei santi sacerdoti che abbiamo incontrato nel corso della nostra vita, fra i quali mi piace ricordare l’indimenticabile Mons. Novarese nel nome e per iniziativa del quale ci troviamo qui riuniti per riflettere sulla nostra santificazione e sul nostro apostolato.