La radice della crisi ecclesiale

Il card. Ratzinger: l’idea di Chiesa. Molti non credono piu’ che sia una realta’ voluta dal Signore. Anche alcuni teologi la credono una realta’ umana

CAPITOLO TERZO
(J. Ratzinger, “Rapporto sulla fede”, ed. Paoline 1985, tratto dal sito: http://utenti.tripod.it/armeria/Rap_fede_03.htm )
ALLA RADICE DELLA CRISI: L’IDEA DI CHIESA


 


La facciata e il mistero


Crisi, dunque. Ma dov’è, a suo parere, il principale punto di rottura, la crepa che, allargandosi, minaccia la stabilità dell’intero edificio della fede cattolica?


Per il cardinal Ratzinger non ci sono dubbi: l’allarme va focalizzato innanzitutto sulla crisi del concetto di Chiesa, sull’ecclesiologia: “Qui è l’origine


di buona parte degli equivoci o dei veri e propri errori che insidiano sia la teologia che l’opinione comune cattolica”.


Spiega: “La mia impressione è che tacitamente si vada perdendo il senso autenticamente cattolico della realtà “Chiesa” senza che lo si respinga espressamente. Molti non credono più che si tratti di una realtà voluta dal Signore stesso. Anche presso alcuni teologi, la Chiesa appare come una costruzione umana, uno strumento creato da noi e che quindi noi stessi possiamo riorganizzare liberamente a seconda delle esigenze del momento. Si è cioè insinuata in molti modi nel pensiero cattolico, e perfino nella teologia cattolica, una concezione di Chiesa che non si può neppure chiamare protestante, in senso ” classico “. Alcune idee ecclesiologiche correnti vanno collegate piuttosto al modello di certe “chiese libere” del Nord America, dove si rifugiavano i credenti per sfuggire al modello oppressivo di “chiesa di Stato” prodotto in Europa dalla Riforma. Quei profughi, non credendo più nella Chiesa come voluta da Cristo e volendo nello stesso tempo sfuggire alla chiesa di stato, creavano la loro chiesa, un’organizzazione strutturata secondo i loro bisogni”.


Per i cattolici, invece?


“Per i cattolici – spiega – la Chiesa è composta sì da uomini che ne organizzano il volto esterno; ma, dietro di questo, le strutture fondamentali sono volute da Dio stesso e quindi sono intangibili. Dietro la facciata umana sta il mistero di una realtà sovrumana sulla quale il riformatore, il sociologo, l’organizzatore non hanno alcuna autorità per intervenire. Se la Chiesa è vista invece come una costruzione umana, come un nostro artifizio, anche i contenuti della fede finiscono per diventare arbitrari: la fede, infatti, non ha più uno strumento autentico, garantito, attraverso il quale esprimersi. Così, senza una visione che sia anche soprannaturale e non solo sociologica del mistero della Chiesa, la stessa cristologia perde il suo riferimento con il Divino: a una struttura puramente umana finisce col corrispondere un progetto umano. Il Vangelo diventa il progetto-Gesù, il progetto liberazione-sociale, o altri progetti solo storici, immanenti, che possono sembrare anche religiosi in apparenza, ma sono ateistici nella sostanza”.


Durante il Vaticano II si è molto insistito – negli interventi di alcuni vescovi, nelle relazioni dei loro consulenti teologici, ma anche nei documenti finali – sul concetto di Chiesa come “popolo di Dio”.


Una concezione che è poi sembrata dominante nelle ecclesiologie post-conciliari.


“È vero, c’è stata e c’è questa insistenza, la quale, però, nei testi conciliari, è in equilibrio con altre che la completano; un equilibrio che è andato perduto presso molti teologi. Eppure, a differenza di quanto pensano costoro, in questo modo si rischia di tornare indietro piuttosto che andare avanti. Qui c’è addirittura il pericolo di abbandonare il Nuovo Testamento per ritornare nell’Antico. “Popolo di Dio” è infatti, per la Scrittura, Israele nel suo rapporto di preghiera e di fedeltà con il Signore. Ma limitarsi unicamente a quell’espressione per definire la Chiesa, significa non indicare del tutto la concezione che ne ha il Nuovo Testamento. Qui, infatti, Il popolo di Dio, rinvia sempre all’elemento veterotestamentario della Chiesa, alla sua continuità con Israele. Ma la Chiesa riceve la sua connotazione neotestamentaria più evidente nel concetto di ” Corpo di Cristo “. Si è Chiesa e si entra in essa non attraverso appartenenze sociologiche, bensì attraverso l’inserzione nel corpo stesso del Signore, per mezzo del battesimo e della eucaristia. Dietro il concetto oggi così insistito di Chiesa come solo “popolo di Dio” stanno suggestioni di ecclesiologie le quali tornano di fatto all’Antico Testamento; e anche, forse, suggestioni politiche, partitiche, collettivistiche. In realtà, non c’è concetto davvero neotestamentario, cattolico, di Chiesa senza rapporto diretto e vitale non solo con la sociologia ma prima di tutto con la cristologia. La Chiesa non si esaurisce nel “collettivo” dei credenti: essendo il ” Corpo di Cristo ” è ben di più della semplice somma dei suoi membri”.


Per il Prefetto, la gravità della situazione è accentuata dal fatto che – su un punto così vitale come l’ecclesiologia – non sembra possibile intervenire in modo risolutivo mediante documenti. Nonostante anche questi non siano mancati, a suo avviso sarebbe necessario un lavoro in profondità: “Bisogna ricreare un clima autenticamente cattolico, ritrovare il senso della Chiesa come Chiesa del Signore, come spazio della reale presenza di Dio nel mondo. Quel mistero di cui parla il Vaticano II quando scrive quelle parole terribilmente impegnative e che pure corrispondono a tutta la tradizione cattolica: “La Chiesa, cioè il regno di Cristo già presente in mistero” (Lumen Gentium, n. 3)”.


“Non è nostra, è Sua”


A conferma della differenza “qualitativa” della Chiesa rispetto a qualunque organizzazione umana, ricorda che “solo la Chiesa, in questo mondo, supera anche il limite invalicabile per eccellenza dell’uomo: il confine della morte. Vivi o morti che siano, i membri della Chiesa vivono congiunti nella stessa vita che promana dall’inserzione di tutti nello stesso Corpo di Cristo”.


È la realtà, osservo, che la teologia cattolica ha sempre chiamato communio sanctorum, la comunione dei “santi”; dove “santi” sono tutti i battezzati.


“Certo – dice -. Ma non bisogna dimenticare che l’espressione latina non significa solo l’unione dei membri della Chiesa, vivi o defunti che siano. Communio sanctorum significa anche avere in comune le “cose sante”, cioè la grazia dei sacramenti che sgorgano dal Cristo morto e risorto. È anche questo legame misterioso eppure reale, è questa unione nella Vita che fa sì che la Chiesa non sia la nostra Chiesa, della quale potremmo disporre a piacimento; è, invece, la Sua Chiesa. Tutto ciò che è solo nostra Chiesa non è Chiesa nel senso profondo, appartiene al suo aspetto umano, dunque accessorio, transitorio”.


La dimenticanza o il rifiuto attuali di questo concetto cattolico di Chiesa, chiedo, comporta conseguenze anche nel rapporto con la gerarchia ecclesiale?


“Certo. E tra le più gravi. È qui l’origine della caduta del concetto autentico di “obbedienza”; la quale, secondo alcuni, non sarebbe neppur più una virtù cristiana, ma un retaggio di un passato autoritario, dogmatico, quindi da superare. Se la Chiesa, infatti, è la nostra Chiesa, se la Chiesa siamo soltanto noi, se le sue strutture non sono quelle volute da Cristo, allora non si concepisce più l’esistenza di una gerarchia come servizio ai battezzati e stabilita dal Signore stesso. Si rifiuta il concetto di un’autorità voluta da Dio, un’autorità che ha la sua legittimazione in Dio e non – come avviene nelle strutture politiche – nel consenso della maggioranza dei membri dell’organizzazione. Ma la Chiesa di Cristo non è un partito, non è un’associazione, non è un club: la sua struttura profonda e ineliminabile non è democratica ma sacramentale, dunque gerarchica; perché la gerarchia basata sulla successione apostolica è condizione indispensabile per raggiungere la forza, la realtà del sacramento. L’autorità, qui, non si basa su votazioni a maggioranza; si basa sull’autorità del Cristo stesso, che ha voluto parteciparla a uomini che fossero suoi rappresentanti sino al suo ritorno definitivo. Solo rifacendosi a questa visione sarà possibile riscoprire la necessità e la fecondità cattolica di Chiesa dell’obbedienza alle sue legittime gerarchie”.


Per una vera riforma


Eppure, dico, accanto all’espressione tradizionale communio sanctorum (in quel significato pieno sottolineato), c’è un’altra frase latina che ha sempre avuto diritto di cittadinanza tra i cattolici: Ecclesia semper reformanda, la Chiesa è sempre bisognosa di riforma. Il Concilio è stato chiaro al proposito: “Benché la Chiesa, per la virtù dello Spirito Santo, sia rimasta sempre Sposa fedele del suo Signore e non abbia mai cessato di essere segno di salvezza nel mondo, essa tuttavia non ignora affatto che tra i suoi membri, sia chierici che laici, nella lunga serie dei secoli passati, non sono mancati quelli che non furono fedeli allo Spirito di Dio. E sa bene, la Chiesa, quanto distanti siano tra loro il messaggio che essa reca e l’umana debolezza di coloro cui è affidato il Vangelo. Qualunque sia il giudizio che la storia dà di tali difetti, noi dobbiamo esserne consapevoli e combatterli con forza e con coraggio, perché non ne abbia danno la diffusione del Vangelo” (Gaudium et Spes, n. 43). Pur rispettandone il mistero, non siamo dunque chiamati a uno sforzo di cambiamento della Chiesa?


“Certo – replica – nelle sue strutture umane la Chiesa è semper reformanda. Bisogna però intendersi in che modo e sino a che punto. Il testo citato del Vaticano II ci dà già una indicazione ben precisa, parlando della “fedeltà della Sposa di Cristo” che non è messa in questione che dalle infedeltà dei suoi membri. Ma, per spiegarmi ancor meglio, mi rifarò alla formula latina che la liturgia romana faceva pronunciare al celebrante in ogni messa, al “segno di pace” che precede la comunione. Diceva dunque quella preghiera: “Domine Jesu Christe ( … ), ne respicias peccata mea, sed fidem Ecclesiae tuae”; cioè: “Signore Gesù Cristo, non guardare ai miei peccati, ma alla fedeltà della tua Chiesa”. Adesso, in molte traduzioni (ma anche nel testo latino rinnovato), dell’ordinario della messa la formula è stata portata dall’io al noi: “Non guardare ai nostri peccati”. Un simile spostamento sembra irrilevante ed è invece di grande rilievo”. Perché annettere tanta importanza al passaggio .dall’io al noi? “Perché è essenziale che l’invocazione di essere perdonati sia pronunciata in prima persona: è un richiamo a quella necessità di ammissione personale della propria colpa, a quella indispensabilità della conversione personale che oggi è invece molto spesso nascosta nella massa anonima del “noi”, del gruppo, del “sistema”, dell’umanità; dove tutti peccano e, dunque, alla fine, nessuno sembra avere peccato. In questo modo si dissolve il senso della responsabilità, delle colpe di ciascuno. Naturalmente si può intendere in maniera corretta la nuova versione del testo, poiché nel peccato si intrecciano sempre l’io e il noi. L’importante è che, nella nuova accentuazione del noi, l’io non scompaia”.


Questo punto, osservo, è importante, varrà la pena di ritornarci sopra; ma torniamo per ora dove eravamo: al legame tra l’assioma Ecclesia semper reformanda e l’invocazione a Cristo di perdono personale.


“D’accordo, torniamo a quella preghiera che la sapienza liturgica inseriva al momento più solenne della messa, quello che precede l’unione fisica, intima, con il Cristo fattosi pane e vino. La Chiesa presumeva che chiunque celebrasse l’eucaristia avesse bisogno di dire: “Io ho peccato; non guardare, Signore, ai miei peccati”. Era l’invocazione obbligatoria di ogni sacerdote: i vescovi, il Papa stesso alla pari dell’ultimo prete dovevano pronunciarla nella loro messa quotidiana. E anche i laici, tutti gli altri membri della Chiesa, erano chiamati a unirsi a quel riconoscimento di colpa. Dunque tutti nella Chiesa, senza alcuna eccezione, dovevano confessarsi peccatori, invocare il perdono, mettersi quindi sulla via della loro vera riforma. Ma questo non significava affatto che fosse peccatrice anche la Chiesa in quanto tale. La Chiesa – lo abbiamo visto – è una realtà che supera, misteriosamente e insieme infinitamente, la somma dei suoi membri. Infatti, per ottenere il perdono del Cristo, si opponeva il mio peccato alla fede della Sua Chiesa”.


E oggi?


“Oggi questo sembra dimenticato da molti teologi, da molti ecclesiastici, da molti laici. Non c’è stato solo il passaggio dall’io al noi, dalla responsabilità personale a quella collettiva. Si ha addirittura l’impressione che alcuni, magari inconsciamente, rovescino l’invocazione, intendendola come: “non guardare ai peccati della Chiesa ma alla mia fede” Se davvero questo avviene le conseguenze sono gravi: le colpe dei singoli diventano le colpe della Chiesa e la fede è ridotta a un fatto personale, al mio modo di comprendere e di riconoscere Dio e le sue richieste. Temo proprio che questo sia oggi un modo molto diffuso di sentire e di ragionare: è un segno ulteriore di quanto la comune coscienza cattolica si sia allontanata in molti punti dalla retta concezione della Chiesa”.


Che fare, dunque?


“Dobbiamo tornare a dire al Signore: “Noi pecchiamo, ma non pecca la Chiesa che è Tua ed è portatrice di fede”. La fede è la risposta della Chiesa a Cristo; essa è Chiesa nella misura in cui è atto di fede. La quale fede non è un atto individuale, solitario, una risposta del singolo. Fede significa credere insieme, con tutta la Chiesa”.


Dove possono indirizzarsi, dunque, quelle “riforme” che pur siamo sempre chiamati ad apportare alla nostra comunità di credenti che vivono nella storia?


“Dobbiamo avere sempre presente che la Chiesa non è nostra ma sua. Dunque, le “riforme”, “i rinnovamenti” – pur sempre doverosi – non possono risolversi in un nostro darci da fare zelante per erigere nuove, sofisticate strutture. Il massimo che può risultare da un lavoro del genere è una Chiesa “nostra”, a nostra misura, che può magari essere interessante ma che, da sola, non è per questo la Chiesa vera, quella che ci sorregge con la fede e ci dà la vita col sacramento. Voglio dire che ciò che noi possiamo fare è infinitamente inferiore a Colui che fa. Dunque, “riforma” vera non significa tanto arrabattarci per erigere nuove facciate, ma (al contrario di quanto pensano certe ecclesiologie) “riforma” vera è darci da fare per far sparire nella maggiore misura possibile ciò che è nostro, così che meglio appaia ciò che è Suo, del Cristo. È una verità che ben conobbero i santi: i quali, infatti, riformarono in profondo la Chiesa non predisponendo piani per nuove strutture ma riformando se stessi. L’ho già detto, ma non lo si ripeterà mai abbastanza: è di santità, non di management che ha bisogno la Chiesa per rispondere ai bisogni dell’uomo”.