La proprietà nel cattolicismo

P. L. Taparelli d'A. S.J. Riassunto: principio eterodosso: guerra universale – 2. Soluzione pagana del problema: la schiavitù – 3. Soluzione fra cristiani – I) anarchia e comunismo – 4. – II.) Gratuità delle forze naturali – 5. – III.) tolleranza del popolo e speranza – 6. Logica di coteste teorie – 7. e loro conclusione pratica 8; Trionfo del comunismo – 9. Stato della quistione – 10. Il cattolicismo. conferma la proprietà negl'intelletti – 11. – I.) rendendola intelligibile storicamente – 12. – II.) accertando la con la fede -13. – III.) assicurandola con l'autorità – 14. Affeziona ad essa le volontà – 15. e negativamente col disprezzo delle ricchezze – 16. e positivamente con l'amore della povertà – 17. Fortifica colle istituzioni la riverenza al diritto, ecc.

LA PROPRIETÀ NEL CATTOLICISMO
«La Civiltà Cattolica», 1857, a. 8, Serie III, vol. VIII, pp. 17-40.

SOMMARIO

Riassunto: principio eterodosso: guerra universale – 2. Soluzione pagana del problema: la schiavitù – 3. Soluzione fra cristiani – I) anarchia e comu­nismo – 4. – II.) Gratuità delle forze naturali – 5. – III.) tolleranza del popolo e speranza – 6. Logica di coteste teorie – 7. e loro conclusione pratica ­8; Trionfo del comunismo – 9. Stato della quistione – 10. Il cattolicismo. conferma la proprietà negl'intelletti – 11. -I.) rendendola intelligibile storicamente – 12. – II.) accertando la con la fede -13. – III.) assicurandola con l'autorità – 14. Affeziona ad essa le volontà – 15. e negativamente col disprezzo delle ricchezze – 16. e positivamente con l'amore della pover­tà – 17. Fortifica colle istituzioni la riverenza al diritto – I.) esemplando la povertà nei religiosi – 18. – II.) raccomandandola in ogni occasione – 19. – III.) rendendola possibile – 20. col nobilitare il povero – 21. Osservazio­ne critica sopra una dottrina del Marescotti – 22. Istituzione a perpetuare la riverenza verso i poveri – 23. La rende possibile col sussidio materiale – 24. costituendo i ricchi amministratori di fiducia – 25. gli ecclesiastici amministratori di giustizia – 26. i caritativi raccoglitori per beneficenza – Conclusione – 27. Si conoscerà a suo tempo la necessità del cattolicismo per assicurare la proprietà – 28. Solo esso la rende universalmente evidente, riverita, possibile – 29. perché esso solo ne abbraccia il vero prin­cipio inculcandolo ai poveri; la vera pratica raccomandando carità ai ricchi.

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1. Terminando di parlare intorno alla proprietà estesa ed alla minuta fummo ricondotti al principale soggetto del nostro discorso, all'influenza cattolica sulla proprietà, la quale dee mettere un compimento ai concetti filosofici fin qui dimostrati. Tenteremo fra poco di porre in viva luce la gagliardia di cotesta influenza: prima peraltro torniamo brevemente al pensiero il concetto presentato finora della dottrina eterodossa intorno alla proprietà considerata nei suoi principii, nel suo svolgimento; nella sua estensione.
L' eterodossia partendo dal principio dell'uomo indipendente, la cui libera mente sceglie a suo talento un dio Caso, un dio Fatalità, un dio Pan, un dio Pensiero ecc.; non può imporre a cotesto uomo libero né il concetto dell'ordine creato, né l'obbligazione di mantenerlo. L'uomo dunque ridotto ad architettare da sè e il dise­gno dell'universo e le leggi della propria operazione, sarà naturalmente strascinato dalla bramosia del piacere invece di guidarsi con un principio di ordine. Conceduto a tutti indistintamente uguale diritto di godere, verrà esclusa dal mondo ogni disuguaglianza di diritto. Ma potrà ella escludersi egualmente la disuguaglianza di fat­to? No certamente: ed ecco per conseguenza la società ridotta al diritto di guerra di ciascuno contro tutti; e questa equivale nel caso nostro a guerra dei poveri contro gli abbienti.

2. Qual termine può avere questa guerra? Vi ha chi vuole terminarla con la prepotenza incatenando nella schiavitù il proletario: e questa è la soluzione del problema della proprietà data ab antico nel mondo pagano e continuata in gran parte negli Stati Uniti americani. Essa diceva: «L'uomo ha il diritto di godere, poiché natu­ra gliene diede l'istinto: ha i mezzi di godere, perché gli diè le creature, sopra le quali egli può esercitare le sue facoltà. Ha il li­mite di questo diritto, poiché dalla natura sono circoscritte le forze. Or queste forze sono disuguali: disuguali per conseguenza sono i diritti: ingegno e forza hanno diritto al comando e alla ricchezza; debolezza e stupidità sono condannate alla schiavitù e alla pover­tà». Tale può dirsi la teoria pagana, teoria di schietta violenza, di prepotenza legale. Nella quale peraltro il povero schiavo traeva pu­re qualche vantaggio dalla sua schiavitù, come la bestia da soma, cui è interesse del padrone il nutrir bene; poiché a proporzione del sostentamento che le somministra potrà usufruttuarne la fatica.

3. Ma questa schifosa dottrina di tirannia non potè riprodursi, dopoché il Cristianesimo disconobbe la distinzione di greco e di barbaro, e tutti uguagliò nella libertà cristiana. Qui dunque il principio eteredosso dovette assumere una maschera di diritto, e combinare, acutamente sofisticando, l'uguaglianza e l'indipendenza da lui piantata per base con la inferiorità e con la dipendenza dei proletarii faticatori. A tale uopo l'eterodossia ricorre per lo più ad mm di queste soluzioni.
Gli uni dicono col Proudhon: «Stia ferma l'uguaglianza e l'indipendenza e il mondo vi si approssimi continuamente, spogliando a poco a poco proprietarii governanti. Comunanza di tutti a tutto e compiuta anarchia: tale è la soluzione del problema secondo i princi pii d'uguaglianza e d'indipendenza». Non può negarsi che questa soluzione dopo tali principii ha il merito di essere e logica e schietta: ma ognuno vede che essa è la compiuta abolizione della proprietà scomunicata dal Proudhon col noto aforismo: La propriété c'est le vol: e che inoltre essa è una contraddizione inclusa logicamente nel principio: giacché dal principio contraddittorio: CREATURA INDIPENDENTE, deduce la conseguenza contraddittoria: FATICHE ALTRUI, ROBA MIA.

4. Altri dicono col Bastiat: «La proprietà non è disuguaglianza, giacché i beni di natura non sono appropriati a nessuno: e se alcuni sembrano averne il monopolio, è pura apparenza; giacché in realtà usufruttano soltanto le loro fatiche». Cotesta dottrina ha l'inconveniente soltanto di riuscire incredibile al senso comune: ma se questo potesse persuadersi che la terra non dà frutti spontanei, o ­che la spontaneità si distrugge quando viene coltivata, ci condurrebbe forse una volta alla concordia dei proletarii coi possidenti.

5. Frattanto peraltro una terza dottrina ricorre col Thiers all'ineluttabile legge della necessità; e «Sì, dice, gli uomini sono per diritto indipendenti ed uguali. Ma se un tale diritto si traducesse nel fatto, le terre non verrebbero coltivate, né usufruttuati i capitali, e ciò con danno universale: all'opposto coltivate le terre e trafficati i capitali, la società può sperare dopo alcuni secoli un'agiatezza di paradiso. Voi dunque che per ora patite e servite, abbiate un po' di pazienza: godranno i vostri pronipoti».

6. Così finalmente, movendo dal medesimo principio contraddittorio: CREATURA INDIPENDENTE, e premesso l'assioma pratico: HAI DIRITTO A GODERE QUANTO PUOI, i tre sistemi conducono alla negazio­ne della proprietà: il primo negandola assolutamente e nel diritto e nell'interesse e nel fatto. La proprietà è usurpata: dunque non è diritto: la proprietà è rovinosa pel popolo; dunque non torna a conto: a basso il capitale, la proprietà è abolita nel fatto. Il secondo sistema per sostenerne il diritto abolisce il fatto, dicendoci che le forze naturali non sono appropriabili; che il pretendere di possederle è un'ingiustizia non solo, ma anche un assurdo, un impossibile. Il terzo sistema finalmente riconosce bensì che la proprietà esi­ste; che essa costituisce una vera disuguaglianza fra i cittadini: ma cotesta disuguaglianza è un malum necessarium; giacché se con abolirla potrebbe guadagnare la giustizia pareggiando gl'individui, ci perderebbe l'interesse coll'impoverimento della società.

7. E qual è poi finalmente la conseguenza pratica? Pei comunisti essa è ben chiara, ma logica e contraddittoria come tutte le loro premesse. Se la proprietà è un rubare, il rubare costituirà una proprietà. Se dunque il popolo vuole godere secondo suo diritto, rubi agli abbienti.
Questa conseguenza nondimeno sapeva dell'ostico alle altre due classi di economisti, le quali, conceduto il diritto di godere quanto si può, s'ingegnarono di acconciarlo con la giustizia e col bene pubblico, svolgendo ciascuna classe il proprio principio. «Avete diritto a godere, disse la seconda col Bastiat, e per conseguenza alla ricchezza. Or la ricchezza altro non è che fatica accumulata: dunque chi vuole godere, fatichi; o viceversa chi vuole animare il popolo alla fatica, lo riscaldi nell'amore del godimento.
La terza classe all'opposto volendo che il popolo aspetti la terra promessa per le generazioni venture tollerando nella presente privazioni e stenti, s'ingegna di provare che tutta l'agiatezza goduta dai ricchi ridonda in vantaggio dei poveri. «Faticate, dunque, soggiunge, e persuadetevi che l'aumento della produzione è arricchimento della società; l'arricchimento della società ridonda in bene dei poveri. Dunque faticando pei ricchi, voi faticate per voi medesimi; e quanto più bramate essere ricchi, tanto più dovete faticare per altrui».

8. Qualunque sia il valore comparativo di coteste tre soluzioni pratiche, dobbiamo pure confessare che, stabilito il principio d'indipendenza e di utilismo, l'assioma del Proudhon riesce al popolo molto più commodo e intelligibile, essendo per lui difficile il comprendere che il campo non frutti per naturale fecondità, come vorrebbe il Bastiat, o che la fame dei viventi possa satollarsi, come vorrebbe il Thiers, coi buoni pranzi che faranno i pronipoti. Sicché in fine dei conti il comunismo è poi quello che va guadagnando; e il giornalismo spagnuolo ci ha detto poc'anzi es­sere cotesto il gran partito che fa oggi palpitare nei tumulti di Utrera e di Catalogna, diramati per tutta la Penisola iberica quel­la grande e sventurata nazione, come già tutti sanno che palpita nell'ambasce medesime, benché il paiano meno, la Francia peri­colante e il Piemonte moderato. Né può essere altrimenti, non essendovi spediente più ridicolo in sostanza, benché sommamente logico in apparenza, di quello adoprato dagli economisti. I quali volendo ricchi i popoli scaldarono la smania di ricchezza, sperando che a proporzione di questa smania crescerebbe l'amore della fatica. Né s'avvedevano i dabbenuomini che, fatica e pena essendo generalmente. compagne, compagni sono ugualmente l'amore del piacere e l'odio della fatica. Scaldato dunque l'amore del piacere come oggetto di beatitudine e fine d'ogni umano intendimento; la fatica diviene per sè medesima odiosa in ragione di fine, benché si tolleri in quanto è mezzo. Ma siccome il mezzo non si adopera se non in quanto è necessario, tutti gli altri mezzi per arricchire verranno sempre preferiti dal popolo al penoso mezzo della fatica. Qual meraviglia dunque che esso preferisca il mezzo del Proudhon al faticare per sè che gli consiglia il Bastiat, o al faticare pei pronipoti che gli consiglia il Thiers?

9. Da questo epilogo dei precedenti articoli il nostro lettore potrà vedere qual sia propriamente il vero stato della quistione, quale la vera posizione del problèma economico politico intorno alla proprietà. Esso si riduce in sostanza ai tre assunti seguenti:
1° Chiarirne il diritto agl'intelletti dell'universale.
2° Agevolarne il libero uso insinuandone il rispetto nelle volontà.
3° Regolarlo in modo che riesca profittevole al bene comune. Finché non riunite cotesti tre elementi: finché o gl'intelletti non si persuadono che la proprietà è un diritto, o le volontà non sono condotte a rispettarlo, o la pratica non lo mostra possibile volgendolo a bene comune; vede ognuno che la Proprietà dovrà vacillare per mancanza o di convincimento specolativo o di probità morale o di pratica possibilità.
Piantate così chiare e schiette le condizioni del problema, non è chi non vegga qual pro debba trarre dal Cattolicismo cotesto grande elemento, o, diciamo meglio, cotesto primo fondamento, a cui tutta si appoggia la materiale esistenza dell'edifizio sociale.

10. E incominciando dal convincimento dell'intelletto, il concetto filosofico di proprietà, da noi altrove spiegato mediante il principio di creazione, acquista nel Cristianesimo e tutta la forza della fede che conferma ed assicura il raziocinio ancora nei filosofi, e tutta l'intelligibilità della storia rivelata che lo fa comprendere dai più volgari intelletti, e tutta l'autorità del supremo imperativo che parla nel Decalogo.

11. La prima dote dell'insegnamento cristiano, vale a dire, il rendere intelligibile al volgo con la storia un concetto astratto che male capirebbesi nella pura teoria, è, a parer nostro, la più importante forse e ad un tempo la più difficile condizione di quel primo problema, convincimento degl'intelletti. Il quale pognamo pure che dagli economisti potesse conseguirsi con le loro monche dimostrazioni, come certamente potrebbe conseguirsi da una sana filosofia in alcuni ingegni eletti mediante il principio di creazione e di ordine finale che ne risulta; pure mai non potrebbe accomunarsi al volgo e divenire pane per tutti i denti. Parlasse pure il filosofo dell'essenziale contingenza del creato, della necessità di un primo Ente creatore, dell'impossibilità che egli crei per altro fine che per sua gloria, dell'essenziale connessione fra questa gloria e la spiritualità dell'umana intelligenza glorificatrice, della dipendenza per conseguenza del mondo materiale dall'uomo spirituale ecc. ecc.; quale, forza avrebbe tutta cotesta catena sillogistica sul povero cervello del ragazzo, della rivendugliola, del bifolco, del pizzicagnolo? Ma eccoti dall'alto di sua cattedra, novello Mosè, un parroco cattolico che con uguale semplicità di stile e sublime profondità di concetti prende a raccontare al suo popolo: In principio creabit Deus caelum et terram. Qual cosa più facile a comprendersi di quella storia sì maravigliosa, eppure sì naturalissima? Quale conseguenza più facile ad inferirsi che l'ordine e fisico e morale voluto nell'opera sua dal Creatore? E quest'ordine si va via via svolgendo nella storia della creazione dell'uomo, per cui vantaggio insieme ed occupazione apparisce creato non che il giardino dell'Eden, tutto l'àmbito della terra e la moltiplicità delle creature. Il morso del pomo avvelenato è una storica confutazione del prin­cipio utilitario: la condanna alla penalità del lavoro è un disin­ganno a chi sperasse sottrarsene. Insomma a tutta l'astrusità fastidiosa che accompagna nelle teste volgari ogni teoria filosofica, la rivelazione sostituisce le attrattive di un racconto storico, in cui il primo ontologico viene a personificarsi nel Dio Uno e Trino, e l'economia del lavoro nella storia dell'uomo e della sua caduta. Qual cosa più accessibile, e diciamo ancora, più dilettevole pel volgo, che cotesto filosofare con la storia alla mano? Ora ricordatelo, lettore (vel dicemmo altre volte), in materia di proprietà ciò che sommamente importa è persuadere il volgo; oggidì specialmente che nel volgo appunto va arruolando sue cerne il comu­nismo. Gli abbienti, i ricchi hanno minore incitamento al latroneccio, maggiori interessi da salvare per mezzo dell'ordine. Ma il povero popolo, se perde l'idea del dovere, che può egli sperare dall'ordine, se non lo stento? Che paventare nel disordine se non un trovarsene sottosopra nella stessa miseria che circondavalo nell'ordine?

12. Quando dunque la rivelazione fa comprendere al popolo quell'ordine, da cui nasce il diritto di proprietà, rende con questo alla società un servigio inestimabile, che da niuna filosofia potrebbe compensarlesi. Non crediate tuttavolta che sotto questo solo aspetto la religione sostenga la proprietà nel convincimento. Questo può procedere per varii successivi incrementi dall'infimo grado che è una semplice probabilità, al grado di certezza e di evidenza, che nei convincimenti umani è grado supremo; e quindi più oltre alla soprannaturale infallibilità della Fede: certezza inarrivabile, impareggiabile, che all'uomo comunica l'infinita certezza di Dio, colla facilità onde al fanciullo viene partecipata per via dell'insegnamento la matura sapienza del padre e degli avi.

13. Quelle talpe infelici che o mai non videro balenare un raggio di questo lume ammirabile, o vistolo ed abbacinatine, lo perdettero per noncuranza o per orgoglio, sogghigneranno forse per disprezzo, come quel Primogenito sciagurato parvi pendens quod primogenita vendidisset. Ma voi, lettore cattolico, che sapete qual fermezza abbia nei pari vostri l'affermazione della Fede; voi che sareste disposto, anzi che negarla, a perdere la vita; pensate voi quale sia conforto per un proprietario nelle società cattoliche l'andare seco stesso dicendo: «Quanti capitali io posseggo, tutti sono riconosciuti per miei dai miei concittadini sotto la guarentigia di quel Dio medesimo, dal quale essi attendono ogni loro felicità. E tutti (se non rinnegano da apostati), tutti dal Supremo dei Regnanti all'infimo dei pitocchi, vedendovi scritto il mio nome, sentono arrestarvisi la mano, o, se la mano non trema, abbrividirsi la coscienza». Riflettete, di grazia, lettore, qual sia salvaguardia per la proprietà l'universale adesione a tali principii, e capirete che se altro bene non facesse il cattolicismo che santificare in tal guisa e divinizzare quasi la proprietà, meriterebbe, anche solo per questo titolo, la riverenza degli economisti che lo straziano e lo combattono.
E già avrete notato che mentre universaleggia cotesti principii nel volgo, la religione aggiunge all'universalità la certezza. Se non che questa certezza non è solo un vantaggio della classe infima e più numerosa, ma si distende ancora alle classi più dotte e più elevate della socìale comunanza. Nelle quali, sia pure quale vi piaccia la loro istruzione ed educazione, lascia pur sempre oh quanto! da desiderare e per l'unità del pensare e per la fermezza dell'aderire. Infatti, vedete quanti dispareri fra gli economisti da noi finora mentovati! Guai a noi se fra teste sì discordi dovesse determinarsi ogni quistione di proprietà! Quali incertezze! quali dubbii rimangono in testa agli uditori dopo quelle sedute accademiche, ove cercasi il costrutto di queste quistioni dai più famosi barbassori dell'economia! All'opposto fra Cattolici parla la Chiesa in nome del Creatore, dell'Ordinatore, dell'Imperante supremo; ordina: «Non toccare, anzi non desiderare neppure la roba d'altri»; ed ecco cessato ogni dubbio, ecco abo­lita perfino la possibilità fra Cattolici di violare la proprietà. E tu vedi (e lo sta vedendo appunto ora in Sorrento chi detta queste pagine), vedi rimanersi aperte senza sospetto le case e le stanze; tanto sembra impossibile che altri stenda sul non suo una mano rapace (1). Pur troppo non sono tutti così i paesi cattolici, perché pur troppo non è per ogni dove il sentimento cattolico vivo ugualmente e fecondo; ed anche in queste amene e semplici contrade molto ancora potrebbe guadagnare in vivacità ed efficacia. Ma qual che ne sia il grado di fermezza, secondo le varie disposizioni degli animi; il certo è che la verìtà, la sola verità accessibile al volgo, la sola speranza dell'ordine sociale in materia di proprietà sta in quel domma cattolico: e noi sfidiamo con grande animo tutti gli economisti della terra a fabbricarne col loro ingegno, per via solo di umano discorso, un'altra sì piena e retta nei suoi insegnamenti, sì facile a comprendersi dagl'intelletti volgari, sì salda a credersi e dai sapienti e dagl'idioti.

14. Se non che il crederla è il meno, potendosi pur troppo credere bene ed operare malamente. Ma questo appunto è il secondo pregio della dottrina cattolica rispetto all'economia, il contribuire potentemente a muovere le volontà dopo avere con tanta forza convinte le intelligenze. E la mancanza appunto di cotesto elemento affettivo contribuisce assai più presso gli eterodossi, che non l'errore degl'intelletti all'infelicità delle prove tentate finora dai dottrinarii razionalisti per combattere il comunismo. Costoro, secondo loro vezzo, dimentichi che l'uomo non è tutto ragione; che l'universale degli uomini capisce pochissimo la nuda ragione; che contro codesto pochissimo lottano con immensa forza l'affetto, l'associazione, il sofisma; credettero e credono tuttora d'incatenare le arpie a forza di sillogismi. Ma fossero questi pure più gagliardi a mille tanti di quelli che già udimmo dal Gasparin e dal Bastiat, quale forza avrebbero a strascinare tutto l'uomo affettivo, tutto l'uomo materiale con quel sottilissimo filo che è il raziocinio della plebe, il quale da ogni soffio di sofisma viene strappato?

15. Tutt'altrimenti l'intendea la sapienza infinita del Redentore e Legislatore della Chiesa, il quale avea meditato un po' meglio dei razionalisti la natura dell'uomo: Ipse enim sciebat quid esset in homine. Laonde dopo avere confortato nell'intelletto con la rivelazione quel principio di personalità, quelle ragioni di ultimo fine, quella dignità delle funzioni spirituali, da cui il raziocinio deduce la proprietà; prese ad innestarlo nel cuore dell'uomo infondendogliene la riverenza e l'amore con impulsi or negativi, or positi­vi. E l'impulso negativo fu quel disinganno meraviglioso, con cui Egli medesimo fattosi povero gli mostrò il nulla di quella felicità materiale che dalle umane passioni viene adorata. Questo nulla, spiegato in poche formolette dal Redentore nel Vangelo, e medi­tato da più di diciotto secoli, penetra negl'intelletti? scuote le fi­bre del cuore, persuade a migliaia giovani e giovanette, nobili e plebei, regnanti e sudditi: e tutti si commuovono e tutti calpe­stano ciò che hanno o che potrebbero avere, e gittano sprezzanti alla cupidigia mondana ciò che ella chiama tesori e il Vangelo spine.
Or vedete pellegrino trovato per ispirare riverenza alla proprietà! Essa era violata per la mania di quei beni: parla il Redentore e quei beni trasforma in ispine: chi volete più che se ne innamori e tenti rapirle al possessore per pungersi e lacerarsi?

16. Ma non basta al Cattolicismo smagare l'incantesimo delle ricchezze: egli innesta di più nei cuori candidi e ben disposti l'amore di un Dio povero, e per conseguenza l'amore della povertà di un Dio: e questo amore diviene tale, che può sembrare passione, anzi pazzia; testimonio la tonaca del Serafino d'Assisi e quei suoi impeti sì poetici e per fantasia e per affetto, con cui diede all'Alighieri il tema delle note terzine in onore della povertà (2); i cui esempii serafici perpetuati nei figli suoi, li rendono gli amici, i compagni, i nutricatori del povero.

17. Ma concetti ed affetto non bastano: la verità che si predica coll'esempio, si perpetua nella pratica colle istituzioni. A tale uopo eccovi il Cattolicismo esemplare e perpetuare negli Ordini religiosi il rinunziamento a tutto il suo: rinunziamento che include un supremo grado di riverenza alla proprietà altrui. Quando il sentimento cattolico, è vivo nel popolo, ogni religioso che egli incontri è un esempio che predica, è un monumento che non perisce. «Ve', gli dice, se cotesti guadagni valgano la spesa, non che di perdere la coscienza, neanche di arrabattarti con tante sollecitudini. Quel che tu cerchi, io l'avea, lo buttai; eppure vivo sì lieto!»
Qual meraviglia che tra un popolo di fedeli il furto sia un mostro, il diritto altrui quasi un'adorazione? Eppure vedete delirio della teofobia! Fra pagani se si fosse trovata una ricetta, per cui buon. numero di cittadini avesse donato altrui le proprie sostanze, i donatarii si sarebbero creduti felici: tra Cattolici l'odio alla religione chiuse gli occhi alla economia, e si tentò di abolire quelle istituzioni che all'avarizia laicale regalano le proprie sostanze; che alla schifiltosa delicatura degli occhi epicurei tolgono con l'elemosina lo spettacolo degli affamati e la necessità di sfamarli; che al popoletto, ridotto per necessità a stentare e mendicare, presentano il conforto di chi si ridusse a stentare e mendicare con lui per vo­lontaria elezione.
Cotesta mendicità santa viene riguardata oggidì non più soltanto ­come una stoltezza e un fanatismo, ma come un vero scandalo che fomenta l'ozio degli accattoni randagi. Ah se questo scandalo si propagasse, se crescesse questa epidemia! Faticare in tutti i ministeri della parola e della carità, e poi invece del salario d'operaio contentarsi del tozzo mendicato! Confessatelo, lettore, se tutti gli operai si riducessero a tale salario; se il muratore, il falegname, il fabbro accettassero in conto di salario una zuppa di fave o un giaciglio da cappuccino, l'economia dei ricchi non ci scapiterebbe gran fatto, né palpiterebbe il capitalista pel sotterraneo fremito del co­munismo, sulle cui mine traballano la società e i proprietarii.

18. Ma non è solo questo il conforto, con cui dal Cattolicismo, impreziosita la povertà, viene assicurato il diritto di chi possiede. Come il distacco della roba viene perpetuamente esemplato in un Dio impoverito e nei Religiosi seguaci dei suoi consigli; così, direttamente o indirettamente, viene inculcato da tutte quasi le istituzioni cattoliche. Nel dì del riposo viene predicato dal parroco, nel sacramento di Penitenza è imposto per soddisfazione della colpa; se l'astinenza quaresimale è incommoda, si compensa con qualche elemosina; se un negoziante cattolico ha fatto vistosi guadagni, é stimolato dalla gratitudine ad offrirne a Dio le primizie; se si ricorda all'uomo (ed è continuo il farlo) che egli ha a morire, gli si domanda a chi andranno le sue ricchezze; se pensa a disporne per testamento, è suo interesse dividerle coi poveri; quel dolce legame, che stringe il vivente ai suoi più cari già trapassati, trae, per via di affetto a largheggiare coi poveri; quei monumenti di religione o di liberalità che rammentano la pietà degli antenati, provocano la generosità dei nepoti. Insomma il nulla e il distacco della terra è pel Cattolico un domma nella fede, un'evidenza nella ragione, un'istituzione nel fatto, un affetto nelle volontà, un vivo e soavissimo esempio nel Dio crocifisso. Ora chi potrà stupire che adergendo così tutto l'uomo verso le altezze del disinteresse effigiato in un Dio appeso ignudo alla croce, il Cattolicismo ottenga quel pochissimo ­che obbligatoriamente dimanda, la riverenza alla proprietà altrui?

19. Non basta peraltro, a conseguire tale intento, convincere, persuadere e commuovere: il convincimento e l'affetto non durano, ove l'opera fosse moralmente impossibile. Ma tutte coteste istituzioni che ispirano al povero riverenza verso il diritto dei proprietarii gliene rendono insieme possibile l'osservanza ispirando ai proprietarii compassione e larghezza verso i bisognosi; i quali si trovano in tal guisa liberi dalla stretta necessità e privi di ogni scusa se s'inducono a violare gli altrui diritti. Fosse pure la probità filosofica mille volte più convincente e persuasiva che ella non è veramente; che potrebbe ella sperare da un padre affamato che, tornando la sera a chiudersi nel gelato abituro v'incontra, novello Ugolino, muti e moribondi i figli, e li sente piangere e dimandar del pane? Qual efficacia avrebbero sulle viscere paterne commosse da quei pianti, da quei lai le gelide sentenze di Seneca o gli aforismi­ di Epitteto? L'incominciano ad intendere pur troppo anche i giu­diziosi miscredenti: e volendo pure in qualche modo rendere possibile ai poveri la povertà, si volgono a tutti quegli espedienti filantropici che i nostri lettori conoscono meglio di noi, e di cui sapranno calcolare egregiamente i pratici risultamenti. Balli filantropici, serate benefiche di teatri, lotti e tombole ed esposizioni, e perfino gli augurii di buon capo d'anno risparmiati all'accidia e ­alla noncuranza, tutto si mette a contribuzione per ismugnere ­ai gaudenti del mondo una stilla di latte a conforto dei parvoli languenti che chiedon pane nel trivio. Povera filantropia, sempre ridicola e contraddittoria! Ridicola, quando si vede come sia meschino lo stillicidio che va sgocciolando dalla gora del piacere, ove nuotano i ricchi, sulle labbra assetate del pezzente che nel trivio implora conforto! contraddittoria poi, mentre si argomenta di ac­hetare le smanie dei poveri frementi, ostentando agli occhi loro le beatitudini dei gaudenti e rinfocolando in questi la smania del godere. Qual meraviglia che la tassa dei poveri sia finalmente il rimedio supremo: rimedio che nulla medica, e che apre pur troppo nuove piaghe nel corpo sociale (3). E a quella tassa già sarebbono forse ridotti e il Belgio e la Francia invasati nel secolo scorso dal volterianismo, se il ravvivarsi colà della carità cattolica non cominciasse a contrastare il campo al principio eterodosso.
Manco male! Non ille faces nec fumea taedis Lumina, diremo, benché in senso diverso, con l'altissimo poeta. Dove la filantro­pia eterodossa non trae dai suoi alberelli medicinali, se non fumo per accecare i gonzi e fiamme per istrazio della società; il Cristianesimo con quella sua mirabile semplicità ed efficacia rende possibile la riverenza alla proprietà, ristorando nella dignità, nei diritti umani il derelitto mendico.

20 Nella dignità, diciamo; e non è questa la parte meno bella e meno difficile del suo trionfo, riuscendo bene spesso ad un cuore generoso (e mancano forse i cuori generosi anche fra i mendichi?) più amaro il disprezzo, con che i gaudenti lo calpestano, che non gli stenti, con che la Providenza lo prova. Ora cotesto disprezzo, tutto pagano nel concetto, tutto selvaggio e barbaro nel sentimento, non viene abolito dal Cristianesimo soltanto nei poveri, ispirando loro il contrario disprezzo delle ricchezze; ma viene abolito eziandio nel cuore dei ricchi, mettendo in riverenza agli occhi loro la fame stessa ed i cenci. Talmente che la beneficenza cattolica allorché entra in quei ricoveri della miseria e del pianto, non vi porta la baldanza ed il fasto che fa sentire al beneficato la sua inferiorità; ma vi entra, come nella casuccia di Nazaret, a venerare una viva immagine del Dio impoverito, e accompagna all'elemosina della mano il conforto della lingua e il religioso ossequio del cuore.

21. Nel quale proposito ci permetterà il ch. Marescotti che dissentiamo da lui nel modo di considerare e l'avvilimento e il rialza­mento del proletario. Secondo lui il proletario si avvilisce nel ricevere un salario che gli sembra un'elemosina, la quale lo degrada alla condizione di servo; e per rialzarsi dall'avvilimento, per la­vorare con la dignità d'uomo, uopo è che lavori a opera, e non a giornata…, col desiderio di fare avanzi…. Uguaglianza nobilissima (a parere di lui), donde sorgerebbe un'emancipazione novella, la quale moralizzerebbe la classe dei ricchi, spogliandola di quel­l'aria superba di protezione che la rende sì poco accostabile e quasi odiosa alle moltitudini: moralizzerebbe la classe più corrotta della società, istigando l'artigiano a mantenersi in credito, a mostrarsi assiduo al lavoro, e a cercare d'istruire sè e la sua famiglia (4). Così il Marescotti. Noi all'opposto confesseremo di non vedere il minimo avvilimento o schiavitù nell'operaio che vende a giornata le braccia; patteggiando da pari a pari con chi ne compra il lavoro: molto meno ravvisiamo in tal professione la classe più corrotta della società. Ma se tale fosse veramente l'operaio, tristo spediente a moralizzarlo crederemmo il ribadire agli occhi suoi la viltà della sua professione e l'incitarlo ad uscirne col desiderio di fare avanzi e di uguagliarsi al proprietario. Né miglior frutto speriamo quindi a moralizzare i ricchi spogliandoli di quell'aria superba di protezione. Tutti cotesti spedienti o sperano ottenere, abolita ogni gerarchia so­eiale, la generale uguaglianza; ed è un sogno, non potendosi cangiare la natura: o mirano a rialzare alcuni pochi proletarii lasciando gli altri nell'abbiezione natìa; ed altro non otterranno che rendere questi più miseri, confermandoli nel sentimento di loro abbiezione e nella smania di emergerne ed aggiungere ai superbi di prima i ricchi novelli, che certamente non sogliono essere i meno superbi ed odiosi. Un po' di giusto concetto intorno alla vera funzione dell'uomo sulla terra e alla vera sua dignità nel Cielo, siamo persuasi che ispirando e ai ricchi e ai poveri l'umiltà del Vangelo, moralizzerebbe entrambe le classi assai più veramente e più efficacemente, che non possa farlo il desiderio di accumulare avanzi, e l'istituzione del credito mobiliare.
Non faremmo qui al ch. Autore il torto di aggiungere schiarimenti ulteriori (conoscendo la sua penetrazione nel ben discernere i sensi nostri e la sua rettitudine a non volerli travisare); se non sapessimo che queste carte potranno capitare sotto certi occhi o meno penetranti a leggere o più loschi al capire. Per costoro crediamo necessario aggiungere qualche parola, pregandoli ad avvertire il vero senso di ciò che abbiamo detto. Non si tratta qui d'introdurre il reggimento delle caste e di vietare al popolo l'approfittarsi di quei mezzi che la Provvidenza ben può somministrargli di migliorare la sua condizione. Trattasi del principio, per cui questo miglioramento può e dee ottenersi, se vogliamo che la condizione del popolo migliori veramente nel materiale, migliorando nel morale. Questo principio, diciamo noi, non debb'essere l'amore del grandeggiare, o l'orrore o il disprezzo della povertà, sentimenti per sè anticristiani: ma debb'essere un qualche sentimento lodevo­le, come il dovere di sostentare la famiglia, di non restare ozioso a carico della pubblica beneficenza, o altro simile, conforme agli intenti della Provvidenza; che nulla tolga ai sentimenti di rassegnazione cristiana e che non ispiri quell'uggia della povertà e quella mania di maggioreggiare, dal cui fermento accendesi la fiamma delle cospirazioni e il furore delle faci e dei pugnali, di cui si arma il comunismo. Ogni animo retto vede benissimo che con questo non diciamo al popolo: Poltrisci nei tuoi cenci: appunto come, insegnando al fanciullo a reprimere gl'incitamenti della gola, non lo condanniamo a morire di fame; insegnando al giovane a vincere la lascivia, non lo condanniamo per questo al ce­libato. Lavori il popolo, com'è debito d'ogni uomo; e se il la­voro benedetto dalla Provvidenza lo innalza, baci riverente la ma­no che lo solleva. Ma non perda nella nuova sua condizione la riverenza almeno, se non l'amore, all'umiltà e alla povertà della Croce. Così non essendo stato prima quel povero superbo, cui Dio abbomina, non farà poi quel superbo parvenu, come chiamano i Francesi la gente nuova, che il mondo irride e detesta.

22. La quale riverenza cristiana alla povertà, affinché abbia ella pure la pubblicità e la durevolezza di un'istituzione, eccoti ogni anno rinnovarsi agli occhi di tutto il popolo cristiano uno strano spettacolo, del quale solo l'assuefazione ha potuto scemare (togliere non mai) la meraviglia. Ogni anno, quando appunto i cuori più commossi dal pentimento, più compunti dalle vive rimembranze della Redenzione, più accessibili ai movimenti della grazia per l'alimento soprassostanziale di che si pascono; corrono al tempio a udire le ultime voci, gli ultimi ammonimenti, del Redentore moribondo; allora appunto la famiglia regnante raccoglie nella più ampia sala della Reggia 12 accattoni dell'infima plebe, e mon­datili dalle sordidezze del loro tugurio, rimessili in buon assetto di panni e banchettatili a mensa reale, ecco il Principe stesso o la Reina genuflettere a quei miseri, ad imitazione del Redentore la­varne i piedi e baciarli; e attestare in tal guisa a tutta la molti­tudine quanto sia viva l'idea della Divinità nello stremo di ogni bene della terra. Non basterebbe questa sola Istituzione a ristorare nel concetto del volgo la dignità umana… che dico? la dignità divina del povero agli occhi della fede? Ditelo voi, fedeli, voi eziandio, protestanti e infedeli d'ogni maniera che accorrete a Roma per l'annuo spettacolo di sì augusta solennità; dite, se potete mirare a piè di quei poveri il monarca di 3 milioni di sudditi, il gerarca di 200 milioni di Cristiani senza che vi palpiti il cuore e scenda dall'occhio una soave lagrima di commozione. E voi, sofisti, che per rialzare l'uomo dai cenci alla sua dignità, avete immaginato il curioso spediente di scaldargli la bile contro la sua sventura e l'invidia contro la felicità del ricco; vedete quale sortisca migliore effetto all'intento, se il Redentore che trae ge­nuflessi ai piè del povero i Grandi della terra, o la filosofia che avventa contro i Grandi della terra, armato di coltello e di fiaccola, il proletario furibondo. Molto voi ci parlate della dignità dell'uomo e del cittadino: ma quando si viene ai fatti, solo di due cose vi veggiamo solleciti. La prima, che il lurido spettacolo della povertà, confinato nei depositi di mendicità o incatenato nelle carceri, non vi funesti le delicate pupille: la seconda, che nel soccorrere la miseria ed albergarla non si trapassino i limiti della stretta necessità, altrimenti il povero non lavora. Oh che premura, che zelo contro l'ozio dei poveri, mentre si profondono tesori per aprire teatri e casini all'ozio dei ricchi! Il Cristianesimo non ama certo l'ozio nè in quelli, né in questi. Ma quando trattasi di provvedere al bisogno dei poveri, vedete che magnificenza! Si direbbe quasi che la carità gareggi col lusso, che l'ospizio divenga una reggia, e che il Cristiano voglia avverare anche nell'ordine materiale che i poveri nella Chiesa sono regnanti: Beati pauperes, … ipsorum est regnum Dei.

23. In ragione dunque di dignità il povero è pienamente ristorato nella Chiesa di Dio, non già coll'assurda utopia del comunismo, il quale fra individui naturalmente disuguali vorrebbe creare una violenta uguaglianza; ma con quel volontario abbassarsi del grande che nulla toglie alla volontaria umiltà del povero. E come restituisce al povero una vera dignità, così gli retribuisce non un diritto sognato, ma un possesso reale della necessaria agiatezza, che gli rende possibile il rispettare l'altrui, facendolo sicuro di non manca­re del proprio. Al quale intento tre Proprietà vengono a lui assicurate nel Cristianesimo.

24. La prima è quella dei ricchi costituiti per dottrina evangelica amministratori, come già notammo, di loro ricchezze in favore dei poveri. E che una tale funzione sia tutt'altro che un titulus sine re, lo dice evidentemente al ricco cattolico la sua coscienza, e agli occhi del pubblico quei tesori immensi di elemosine che continuamente profondonsi e che hanno invaghito nel Belgio la liberale cupidigia dei frammasoni: i quali, se non riescono ad incate­nare la carità cattolica, disperano di furare al clero la sua influenza, al popolo la sua religione. Se questa generosità di elemosina non fosse fuori della Chiesa inimitabile; chi vieterebbe loro di profondere anch'essi generosamente in elemosine e gareggiare in filantropia coi Cattolici? Ma essi trovano più commodo mangiare per sè le nostre entrate, e cattivarsi poi l'amore delle moltitudini a spese della nostra carità.

25. Ma i ricchi sono propriamente amministratori fiduciarii della Provvidenza, la quale a sè riserbò il dritto di rivederne i conti; e fatevi certo che li rivedrà con occhio assai più severo di quello che comunemente non credesi. Non così gli Ecclesiastici, i quali con assai più stretto rigore son tenuti di dare al povero tutto ciò che dai redditi beneficiarii sopravvanza al loro onesto sostentamento; cotalché il mancare a tale debito è fuor di dubbio peccato grave, e secondo molti Dottori obbliga perfino a restituzione per debito di giustizia. È inutile il ripetere ai nostri lettori l'efficacia di questo mezzo per assicurare ai poveri il sostentamento, echeggiando per ogni dove le declamazioni degli economisti contro la Chie­sa, accusata da essi di fomentare nel popolo l'ozio e l'infingar­daggine. Vero è che essi sanno evitare questo lusso di carità, lasciando morire di fame a 25 o 30 mila per anno i poveri che non lavorano, e facendo crescere a molte più migliaia quei che la­vorando restano schiacciati sotto la soma della fatica e la meschinità del salario. E bene sta: qui dovevano giungere i vituperatori della Chiesa. Ma fra noi, ove essa Chiesa, la Dio mercè, è maestra, cotesti casi non solo non accadono, ma sembrano, a chi non viaggiò per le regioni eterodosse, impossibili, incredibili. Qual meraviglia che le cospirazioni del comunismo trovino fra noi meno accessibile l'orecchio del popolo?

26. Eppure non basta alla carità cattolica l'avere assicurata al povero la sua proprietà e per fiducia nei ricchi e per dovere negli ecclesiastici. Direste quasi che la tenera madre d'ogni derelitto temesse nel povero l'impedimento del rossore al chiedere, o nel ricco l'ignoranza delle miserie da soccorrere: tanto sono varie le industrie da lei immaginate a fine di stenebrare la povertà nell'oscurità dei suoi tugurii, e di fornire ai ricchi mille rigagnoli per cui derivare nelle piazze la vena copiosa delle loro fontane. Ed eccovi in primo luogo capo di una famiglia di Credenti il parroco che, obbligato a tener conto delle anime a lui confidate, conosce per filo e per segno quante sono le miserie di che è popolata la sua parrocchia. Ma basterebbe a tanta mole un uomo solo? o potrebb'egli stipendiare coi pochi suoi mezzi una numerosa burocrazia di beneficenza? Non temano i poverelli di Cristo: la carità cristiana pensa e provvede al prelato cento ufficiali di ispezione e di distribuzione, alle cui dita nulla si attaccherà di quella parte che per le trafile della beneficenza legale passa sì stentata e giunge sì scarsa e decimata al suo termine. Gli amministratori della carità cattolica non solo non sono ufficiali che per infedeltà o stipendio la scemino, ma sono nuove fonti che ne arricchiscono il fiume. Questi è il figlio di S. Vincenzo che pesca in ogni sala commovendo i ricchi e spande sopra ogni giaciglio confortando il povero; quella è la so­cietà della mendicità vergognosa; l'altra è di Visitapoveri dei poveri di S. Gennaro ecc: tutte raunanze pie che vanno braccheggiando il povero per soccorrerlo, come il segugio va fiutando la selvaggina. Se un'arte o una professione sotto gli auspicii di un Santo patrono forma la sua confraternita, la prima sua cura sarà stabilire un fondo pei sussidii, un visitatore pei poveri infermi. L'elemosina verrà ricordata sul pulpito dal quaresimalista eloquente, sul palco dal missionario che s'accomiata. E perché un qualche cencio inutile, o un qualche osso male spolpato, sfuggendo alla trascuratezza dei ricchi, non venga meno al bisogno dei miserabili; eccovi la Sorellina dei poveri all'uscio che presenta la cesta per ricevere i vostri rifiuti, e trattano pel proprio sostentamento la parte più schifosa, imban­disce col rimanente la mensa ai mendichi più derelitti. E vedete con quale risparmio, con quale amore, con quale tenerezza l'umile verginella va rimestando con le delicate sue dita tra quel fradiciu­me, e ingegnandosi di trarne, se non la squisitezza e l'integrità, almeno la salubrità e la decenza! Vedete con quale soavità ella parla a quelle anime per addolcirne l'interna amarezza, mentre va imboccando, come figlia, il tremulo vecchio sul suo grabato. Quando la filantropia volle darci uno spettacolo somigliante, fuse di solido bronzo la caldaia di Papin, vi gittò dentro il rifiuto dei macelli e invitato vi sopra il coperchio per condurre quella miscea a gelatina, la raccomandò ad un ruvido salariato che la distribuisse ai mendichi; mentre ella la filantropia andava ad assidersi a delicato banchetto fornito d'ogni più squisita delizia apiciana dall'arte del cuo­co francese. Oh se a quella mensa si fosse assaggiata la gelatina di Papin, come la feccia dei rifiuti s'inghiotte dalla Sorellina del povero! Allora incominceremmo a credere alla spasimata beneficenza dei filantropi e a sperarne qualche emendazione pel popolo dei proletarii.
Ma l'applicare alla miseria i tesori della carità con accortezza di padre, con tenerezza di madre, con profusione di monarca, la è proprietà dello spirito cattolico: ed ecco perché può la Chiesa volgersi fidente al povero e intimargli coll'autorità di Dio: Non toccare, non desiderare la roba d'altri.
Lo vedete, lettore; nel Cattolicismo non solo la proprietà è rispettabile, perché i rettissimi suoi dettami illustrano le menti, e sotto forma storica penetrano nelle intelligenze; non solo perché al dritto, che rende inviolabile la proprietà si aggiunge la religione e l'affetto che rendono venerabile e cara la povertà; ma perché le pubbliche istituzioni sono tali, che il povero è sollevato per esse a dignità più che umana, e la sua sussistenza ne è ampiamente assicurata.

CONCLUSIONE

27. Tant'è! la bisogna va proprio così: vogliano o non vogliano i libertini, questo omaggio dovranno renderlo un giorno più o meno pieno, più o meno esplicito al Cattolicismo; ma dovranno renderlo e riconoscere che senza Cattolicismo la proprietà vacilla e traballa con essa la società. E cotesto giorno quando sarà? Sarà quando cotesti fieri democratici, ugualitarii usciti dai cenci, sazii ormai del bottino, carichi il petto di ciondoli, adagiatisi mollemente su i divani ad odorare soavemente i profumi dell'aura aristocratica, avranno cominciato a dire, sfogandosi in un lungo sospiro: Oh come si sta bene qui! Bonum est nos hic esse. Crederanno allora gli stolti di essere giunti alla beatitudine: ma, ohimè! sentiranno ben presto per le vie e per le piazze le grida di un popolo, che non si lascia gabbare dai sofismi degli economisti. Oh! allora sì questi sofisti an­dranno predicando alla turba frenetica «essere falso che i ricchi abbiano usurpato il monopolio delle forze naturali, i frutti di natura essere gratuiti, essere aperto ampissimo campo a chi vuole coltivare nuove terre, nulla possedersi dai ricchi che non sia frutto del loro sudore, nulla che disdica alla fraterna uguaglianza degli uomini, uguali tutti nel diritto di usare le proprie forze e le utilità naturali»; allora al vedere la belva indomita, mal paga dei sofismi di chi ragiona, e del pane che solo le si promette, avventarsi al portone del palazzo per iscassinarlo ed arderlo; allora si comprenderanno anch'essi che invece di dissertazioni e di accademie saria stasto accorgimento più savio somministrare al popolo catechismo e missionarii. Allora rientrando in loro stessi, ecco come dovranno ragionare, se, in quei momenti sì trepidi avranno agio bastevole e voglia di ragionare.
«Proprietà, dovranno dire col Bastiat, altro non è che il diritto di disporre liberamente delle proprie forze e dei frutti ch'esse producono. Conseguentemente il gran problema sociale dell'uomo di Stato nella sua lotta col comunismo, può ridursi a questa formola «Trovare il mezzo efficace e sicuro per indurre il popolo a rispettare in altrui le forze e i frutti che usandole altri raccoglie dagli agenti naturali». Or qual è la via per ottenere dal popolo una tale riverenza?
«Per quanto sia brutta e rabbiosa questa bestia che chiamasi il volgo, le molecole di cui si compone altro non sono finalmente che uomini ragionevoli, anzi cristiani. Or l'uomo ragionevole può muoversi con la forza delle ragioni, coll'idea del dovere, coi sentimenti dell'affetto, specialmente della religione, e finalmente coll'interesse dell'utilità. Ma la gran difficoltà per conseguire efficacemente l'intento non è già nel rinvenire gli elementi di tutti codesti impulsi, ma sì nell'applicargli ai cervelli badiali e goffi degli uomini dozzinali. Qui batte il punto: né io posso negare che in tale applicazione il Cattolicismo possegga una magia, un incantesimo, con cui fa vedere al volgo la luna nel piatto, o, a dirla senza proverbio, fa vedere in quel suo paradiso un compenso abbondevolissimo del­le ricchezze che ei non trova sulla terra. La mania è sì gagliarda, che tutto l'accorgimento di legislatori febroniani, tutte le persecuzioni di politici accaniti a sterpar frati e monache, non bastano ad arrestare il torrente dei tanti, che corrono a spogliarsi dei loro averi sulla soglia dei chiostri, adoperando, nell'eludere la legge che vieta lo spogliarsene, tutta quella accortezza che il ladro adoprerebbe a rubare. Se questo è indubitato, davvero ch'io non saprei trovare, a persuadere nel popolo riverenza ai proprietarii, linguaggio più efficace di quello di un parroco o di un missionario.

28. «Ma donde finalmente ripetono costoro gli argomenti che convincono gl'intelletti? I nostri filosofi con tutto il loro razionalismo lasciano sempre del vuoto in quelle teste, perché sempre vi lasciano vigoreggiare il principio d'uguaglianza e d'indipendenza e la speranza di trovare felicità nel godimento. Ora finché quel popolo si crede per diritto uguale e indipendente da tutti, e si vede in fatto inferiore ai ricchi nel possedere e dipendente dai ricchi nel faticare; com'è possibile tranquillarlo persuadendogli che i suoi diritti sono rispettati e che egli non è oppresso? Non farei io dunque miglior senno se lasciassi cotesto popolo in mano dei preti, dai quali udrà predicarsi che l'uomo dipende essenzialmente dal suo Creatore, e il Creatore ha distribuiti fra gli uomini coll'immensa varietà di proporzioni i talenti da trafficare, e a proporzione di questo capitale esigerà strettissimo il conto? Persuaso che sia di questo il popolo, se non giungerà ad amare gli stenti, comprenderà almeno il dovere di rassegnarvisi. E se questo dovere non sarà sempre osservato, lascerà almeno nel trasgressore la puntura del rimorso, il timore di un'eterna Giustizia, il debito ben sentito ed inestimabile della restituzione.
«Avremo così introdotto in quelle teste volgari i due primi elementi di riverenza al diritto di proprietà: l'elemento razionale che convincerà gl'intelletti, il morale che obbligherà le volontà!

29. «Ma il Cattolicismo non si contenta di questo. A rendere più sacre le proprietà altrui, rende sacra la persona del prossimo: ad assicurare meglio la roba del prossimo, rende spregevole la roba propria: a cessare l'invidia spogliatrice dei ricchi, ispira riverenza verso un Dio povero e nudo. Oh davvero se cotesto popolo che freme alla porta avesse compreso ed abbracciato coll'affetto la povertà del Crocifisso, io potrei dormirmela a doppio origliere; sarei sicuro della mia ricchezza e il povero pago di sua povertà. Ma pazzo di me, che guerreggiai la religione quando essa mi vietava il rubare, senza pensare che, vietandolo a tutti, la religione stessa mi avrebbe poi aiutato a conservare il mio.
«Vero è che mentre ella vieta che mi si rubi da coteste orde fameliche, impone a me di satollarne la fame. Ma poss'io negare la ragionevolezza di tale precetto, e l'utilità dell'osservarlo? Se la Chiesa imponesse al volgo che si muoia di fame, sarebbe ella giusta? sarebbe obbedita? E a me non torna più a conto di distribuire discretamente il mio acquistandomi i servigi e l'affetto del popolo, invece di esserne spogliato a furia di popolo senza conseguirne per me né servigi, né benemerenza?»
Così pensiamo, dovranno ragionare coloro che oggi ragionano tutt'altrimenti per acquistare rubando. Ma voi, lettor mio bello, che non fate, la Dio mercè, un sì brutto mestiere, non avrete né anche bisogno che venga il popolo ammutinato e fremente a farvi un sì calzante argomento: e basterà il poco che abbiamo detto a mostrarvi che, se il diritto di proprietà può scoprirsi dalla ragione e imporsi dalla natura, solo il Vangelo può renderne pienamente intelligibile l'ordinamento e la giustizia, e pienamente eseguibile, anzi agevole l'attuazione.

NOTE

1 Sono solo tre giorni che leggemmo nell'Univers di un povero mendico, il quale regalato dal suo parroco di un par di calzoni e trovatovi nella tasca una moneta di 20 fr. la riportava al padrone, il quale (diss'egli) non volea certo regalarmeli.

2 Ecco le parole dell'estatico Patriarca. «Ragguarda, o Signore Gesù, essere la povertà regina della virtù in quanto che tu, lasciate le sedi de­gli Angeli, scendesti quaggiù a disposarti con lei in vincolo di perpetua carità, e a generare in lei, di lei e per lei figliuoli perfetti. Ed ella ti fu tanto fedele e indivisa… e quando morivi di sete, ella, sposa fedele, ti si accostò premurosa, né ti consentì pure un sorso di acqua, ma ti mescè, per mano dei satelliti, una bevanda tanto amara, che, non che di beverla, potesti appena assaggiarla. E così negli amplessi di questa sposa rendesti lo spirito. Ma la sposa fedele nell'esequie neppure ti abbandonò; né volle cosa nel Sepolcro, né unguenti, nè lenzuoli, se non avuti in prestanza. E neanche la sposa santissima mancò al tuo risorgimento; poiché uscendo tu glorioso dal sepolcro, negli abbracciamenti di lei ivi lasciasti ogni cosa che t'era stata data ad usare. Lei trasportasti teco nel cielo, lasciando ai mondani tutte le cose del mondo».

3 Spiegava egregiamente l'impotenza filosofica e i danni della beneficenza legale lo zelante P. Felix nella sua Conferenza intorno all'elemosina, recitata in Nostra Donna di Parigi per la quaresima del 1855. Può vedersene un copioso estratto nell'Ami de la Religion 8 Marzo 1855.

4 Discorsi Vol. III, p. 176, 177, 178.