Di P. L. Taparelli d'A. S.J. «Se l'interesse del denaro è per sè illecito; come va che i Governi lo permettono e la Chiesa tace? Ciò che per sè è malvagio non può permettersi, ciò che può permettersi non è malvagio per sè» … E tutta la risposta potrebbe ridursi ad un punto solo, ad una distinzione da dialettico: la quale se voleste espressa in linguaggio da scuola così potrebbe suonare. Se l'usura è mala per sè non può permettersi nella sua identità morale, concedo; nella materiale, nego.
Padre Luigi Taparelli d'Azeglio S.J.
L’interesse legale
(La guerra dei capitalisti contro la proprietà)
«La Civiltà Cattolica», 1857, a. 8, Serie III, vol. VI, pp. 170-174, pp. 267-281
«Se l'interesse del denaro è per sè illecito; come va che i Governi lo permettono e la Chiesa tace? Ciò che per sè è malvagio non può permettersi, ciò che può permettersi non è malvagio per sè».
Tale è la difficoltà con cui ci accomiatammo nel prossimo passato quaderno dal nostro lettore, lasciandogliela, come dice il proverbio, come una pulce nell'orecchio. Eccoci a sdebitarci traendogli dall'orecchio la puntura.
E tutta la risposta potrebbe ridursi ad un punto solo, ad una distinzione da dialettico: la quale se voleste espressa in linguaggio da scuola così potrebbe suonare. Se l'usura è mala per sè non può permettersi nella sua identità morale, concedo; nella materiale, nego.
Ma poichè chi legge i giornali non intende inchiodarsi sul banco di una scuola (poniam pure ch'egli ami intertenersi in considerazioni utili e gravi), rinunzieremo al commodo laconismo dei dialettici, e richiameremo sulla scena i due interloculori che udimmo altravolta dissertare intorno all'interesse fra privati. Toccherà al Canonista sciogliere la difficoltà proposta spiegando la distinzione, all'Economista ribadirne la forza.
Economista. Dite su dunque, signor Canonico: come va che la Chiesa, la quale in altri tempi fu sì rigida e inesorabile, contro gli usurai, oggi che i Governi hanno preso a sostenerli si mostra così indulgente e tace? Mi verrebbe la tentazione di ripetere ciò che udii più d'una volta dagli economisti e dai politici, che la coscienza dei Canonisti sia come i fiaschetti di cautchouc che si allargano e si stringono secondo il bisogno.
Canonista. Se la tentazione venisse, cacciatela, caro mio: chè al Canonista potrebbe venir la tentazione di rendervi pan per focaccia e dire molto più stretto il cervello degli economisti che elastica la coscienza propria.
Econ. Quando così rispondessero, direbbero un'impertinenza e non cambierebbero i fatti. Voi lo sapete meglio di me: non si tratta qui di opinione privata: tutte le scuole cattoliche, i Padri, i Pontefici parlarono lo stesso linguaggio; e può bastare per tutti il Concilio di Vienna che nel 1311 condannava l'usura come ingiustizia ed equiparava il difenderla all'eresia (1). Adesso all'opposto nei tanti casi che sono stati proposti alla sagra Penitenzieria, questo Tribunale mai non ha vietato che si accettasse l'interesse determinato per legge. E quando certi scrupolosi di Francia volevano tornarci tre o quattro secoli indietro: «Zitti, zitti, rispondeva il buon penitenziere, non mettiamo il campo a rumore: non sunt inquietandi, non sunt inquietandi». Ecco il fatto schietto e genuino che niun Canonista potrà mai distruggere.
Can. E che bisogno c'è di distruggerlo? Stando anche alla vostra relazione, i fatti sarebbero diversi; giacché il Concilio parla di usura privata, e il penitenziere, secondo voi, parla d'interesse determinato per legge. Ma lasciam questo da parte: il maggior difetto della vostra opposizione è il mozzare le nostre dottrine, e presentarne poi i moncherini staccati per deriderle come contraddittorie. Se volete farla da buon critico, andate, a leggere tutta intera la risposta del penitenziere, e troverete che non debb'essere inquietato, chi riscuote quegl'interessi in buona fede; e parato sempre a sottoporsi quando la Chiesa determinasse altrimenti. Il che, come vedete, è tutt'altro che una positiva approvazione dell'interesse legale: è soltanto un dire esservi in questo delle circostanze diverse dall'usura privata, e capaci d'influirvi moralmente, intorno alle quali la Chiesa non giudica, per ora di portare una sentenza definitiva, non essendo ancora chiarita abbastanza la materia.
Econ. Oh bella! E perché non la chiarisce ella stessa con la sua definizione infallibile? Perché lasciarci nell'incertezza esposti ad operar malamente?
Can. La Chiesa, caro mio, non è un professore destinato ad appagar la curiosità dei dotti, ma una educatrice che regola moralmente i fedeli. Or questi, basta che sieno disposti ad ascoltarla a suo tempo, non commettono male morale se nella loro condotta, praticando ciò che stimano onesto, si valgono di quella libertà che essa concede. Starebbe fresca la Chiesa se dovesse prevenire tutti i dubbii possibili nelle materie morali!
Econ. Sia pure. Ma non potete negare che se l'interesse legale in quelle risposte della Penitenzieria non è approvato, né anche vien condannato. Or credete voi che i Padri di Vienna sarebbono stati sì dolci di sale?
Canon. E perché no, se si fossero trovati all'istessa condizione di tempi?
Econ. (ridendo) Ah! ah! ah! Vedete se non avea ragione io di trovare elastiche le vostre coscienze? La vostra morale dunque s'aggiusta ai tempi; e ciò che ieri fu malvagio per sè, oggi divien perdonabile e domani sarà lodevole.
Canon. Voi, caro mio, vi scandolezzate troppo facilmente. E sapete perché? Perché probabilmente mai non avete riflettuto sull'analisi dei dettami morali: cui se aveste analizzati e compresi, capireste che col cangiare dei tempi essi possono cangiarsi, senza che la coscienza si arrenda per nulla nella severità dei principii. Ogni giudizio morale, quando la coscienza vuole applicarlo all'opera, dee necessariamente avere due premesse, una universale, l'altra singolare: la prima immutabile perché necessaria, la seconda mutabile perché contingente. Il negoziante, per esempio, che va meditando un contratto, per evitare ogni danno di sua coscienza, come va egli discorrendo fra sè e sè? Dirà per modo d'esempio: «Contratto usuraio, Dio liberi! io son negoziante onorato e cattolico. Pure nel caso presente le condizioni del contratto non involgono usura; e per conseguenza nessuno può proibirmelo». Così la discorre seco stesso il negoziante: e voi vedete ch'egli premette alla sua conclusione un principio universale di diritto (l'usura è vietata): una verità particolare di fatto (qui non interviene usura): donde trae il dettame pratico (questo contratto non è vietato). Vi par chiaro?
Econ. Chiarissimo. Ma questo che ha che fare con la mutazione dei Canonisti che ieri scomunicavano gli usurai, ed oggi non osano d'inquietarli?
Can. Ha che fare moltissimo; giacché applicando quell'analisi al caso nostro voi vedete che se il fatto è mutato i Canonisti posson aver cangiato dettame pratico, senza aver cangiato principio speculativo: Essi continuano a dire, come sempre: «L'usura sta nel ricevere un lucro per la sola ragione del mutuo». Ma poi soggiungono: «nel caso presente il mutuante riceve il lucro perché il Governo lo concede; e il Governo lo concede per ragione di ben pubblico e non per la pura natura del mutuo. Dunque nel caso presente o non vi è usura, o certo non è evidente: dunque non deve nel dubbio inquietarsi la buona fede». Come vedete, il principio è sempre il medesimo; ma la conseguenza muta, perché si crede che le condizioni del mondo presente possano autorizzare con ragion di ben pubblico ciò che sarebbe illecito per cupidigia privata. Non dico che questo sia, dico solo che può essere: e in tale ipotesi sospendere il giudizio è prudentissimo. Se volete accusare i Canonisti della lor mutazione, dovete prima sostenere che il mondo economico è tuttavia quel medesimo che fu ai tempi del Concilio di Vienna. Osereste voi sostenerlo?
Econ. No davvero. Gl'incrementi del commercio richiedono oggi un tal giro di capitali che i nostri vecchi neppur poterono sospettare, non che prevederlo. Concedo dunque la mutazione del mondo: ma non veggo perché la mutazione del mondo debba render lecita l' usura se ella è per sè illecita. Che razza d'argomento è cotesto «Il mondo ha bisogno di capitali; dunque l'usura è permessa».
Canon. Scusate: l'argomento non è cotesto. Il dunque dei Canonisti non dice: dunque l'usura è permessa, dice: dunque questo lucro, non è usura: e tra le due illazioni vi è la notevolissima differenza che la prima riguarda un principio che dee restare e resta sempre immutabile, laddove la seconda riguarda un fatto variabile ed oggimai variato. Pertanto ecco come discorrono. «Nel mondo presente il giro dei capitali è necessario per bene comune: or il Governo dee provvedere al bene comune: dunque ha diritto a promuovere il giro dei capitali. Ma questo non può promuoversi nè coll'impero nè con la forza, per cui anzi i capitali si occulterebbero, quando, il Governo volesse obbligare i capitalisti, come oggi li chiamano, ad imprestare a chi ne ha bisogno: dunque ha diritto a promuoverli coll'allettamento di un premio. E questo premio d'onde uscirà? Dalla borsa di tutti i cittadini? Non sarebbe pienamente conforme alla giustizia distributiva il far pagare a coloro che niun vantaggio ne traggono. Paghi piuttosto chi profitta dei prestiti. Così usiamo in altre gravezze indirette: il mantenimento delle strade e dei ponti si fa pagare col pedaggio dal viandante e dal carrettiere; le spese dei tribunali dai litiganti, lo stipendio dei professori dagli scolari, e così via. Qual cosa dunque più giusta che imporre alla borsa del mutuatario una tassa, con cui premiare il movimento dei capitali il quale ridonda principalmente in suo vantaggio»? Che vi pare di questo raziocinio? Avete nulla a ridirvi?
Econ. Nulla.
Canon. Quand'è così, voi vedete che chi nell'imprestare riceve dal Governo un tanto per cento, opera tutt'altrimenti dell'usuraio che spreme un tanto per cento per avidità sua propria dalla borsa privata.
Econ. (sorridendo) Ah dunque tutto l'artifizio di un accorto usuraio si riduce a cambiare il nome dell'usura! Canonico mio, voi mi fate ridere con cotesti giuochi d'ingegno: e mi par vedere quei giuocatori di bossolotti, che dopo aver chiuso ben bene l'anello nella scatola, ve lo traggono fuori dalla punta del naso. Quando si tratta di borsa, mettete in disparte la metafisica e guardiamo agli scudi. Voi in sostanza permettete che se io impresto i cento scudi, per un anno, io medesimo ne tragga l'arrota di altri cinque. Chiamateli interesse legale, chiamateli premio, chiamateli usura, chiamatelo il diavolo che ti porti; per me tutto è indifferente, purché vengano i cinque scudi.
Canon. Se così la pensate, buon pro vi faccia: ma badate che codesta maniera di pensare non mostra né acutezza da filosofo, né delicatezza da galantuomo. Ogni galantuomo, e molto più se sia filosofo, comprende benissimo che la moralità delle azioni non consiste nella loro materialità, ma nelle loro relazioni coll'ordine: che l'uccisione d'un uomo può essere or scelleraggine di assassino, or valentia di guerriero, or vile ma non colpevole mestiere di manigoldo: che una riparazione di danni o di fama può onestamente esigersi per giustizia o colpevolmente pretendersi per vendetta: che una medesima somma di danaro carpita dal famiglio nella borsa del padrone oggi sarà un furto domestico, domani un giusto compenso d'ingiusta concussione. E d'onde coteste diversità? Dalle diverse relazioni morali considerate nella materia medesima. Qual meraviglia che anche i cinque scudi per cento considerati come estorsione di privata avidità si pareggino al furto; considerati come concessi da pubblica autorità abbiano aspetto di tassa o di giusto premio? Tutto sta che si ammetta quel fatto che mi avete già consentito; alla società nelle sue condizioni presenti essere onninamente necessario il movimento dei capitali; e questo movimento non potersi conseguire senza la tassa d'interesse legale.
Econ. Oh! in tale materia non ci veggo il minimo dubbio specialmente dopo le tante istituzioni di banchi di debito pubblico, di casse di risparmio, di azioni per istrade ferrate; ecc. Tutte coteste istituzioni sono altrettanti inviti ad ogni borsa o grande o piccola. Ormai possiamo dire che neppure quei pochi baiocchi risparmiati dall'artigiano in una settimana non restimo oziosi in fondo alla borsa: la cassa di risparmio glieli chiede, assicurandogli il capitale e aumentandolo col frutto. E vorreste che un proprietario tenesse in cassa il danaro sterile e con pericolo di perderlo?
Canon. Ottimamente. Ogni danaro adunque è oggi destinato al lucro; ogni danaro può trovare un impiego. Ogni mutuante dunque viene autorizzato dal lucro cessante a ricevere un interesse: ogni mutuante può dire al mutuatario «Io perdo nell'imprestare compensami questa perdita». Ecco dunque un nuovo aspetto economico dei prestiti nella società presente. Altre volte molti non volevano negoziare il danaro, non fosse altro per alterigia; molti, anche volendo, non aveano ove impiegarlo. Oggi non solo l'interesse è autorizzato per legge qual premio conceduto per pubblica utilità; ma nasce spontaneamente dalla facilità, con cui ogni danaro vien destinato al traffico e trova impiego a cui applicarsi.
Econ. E notate che questa specie di traffico è divenuta sì sciolta da ogni sollecitudine e da ogni incertezza, che nulla più involge di ripugnante o alla nobiltà dell'animo o all'amore della quiete.
Canon. La nobiltà dell'animo lasciamola in disparte: ma certamente possiamo dire ormai non esservi ricchezza che lasci all'animo tanto riposo quanto cotesta dei pubblici fondi. Se coltivate un campo o una vigna, se pascolate il bestiame, avete a temere la crittogama, la grandine, le cavallette, la siccità. Ma sulle cartelle del debito pubblico non ci grandina mai: e giunta la scadenza la tua rendita ti si conta sgranata e piena ch'è una benedizione.
Econ. Non basta. In ogni altra specie di entrate sempre hai da trovarti a fronte ora ad un affittaiuolo moroso o truffatore, ora un debitore litigioso e cavilloso, ora ad un colono pigro e trascurato, ora ad un agente imperito o infedele: l'incendio, il ladro, il naufragio, tutto ti mette spavento. Solo i fondi pubblici vanno esenti da ogni rischio, purché si abbia la discrezione di non esporvisi ad occhi veggenti pericolandoli nei giuochi di borsa.
Canon. Veggo adunque che siamo pienamente concordi nell'ammettere una prodigiosa mutazione nelle condizioni economiche del mondo civile: onde spero che non terrete più il broncio ai Canonisti se, salvo il loro principio, traggono dalla mutazione del fatto la mutazione della pratica applicazione di un principio.
Econ. Confesso che i miei giudizii per lo passato ebbero un po' l'impronta del temerario. Pure non debbo celarvi che la vostra teoria della tassa legale mi sembra includere in pratica una gravissima difficoltà proposta già più volte dagli economisti. «Come volete, dicono essi, che il Governo determini con qualche giustizia la tassa dell'interesse legale, se il valor del danaro è cosa oggi di sì variabile che da un giorno all'altro non è più quello? (2)
Canon. Veggo non irragionevole a prima vista la vostra difficoltà. Credo per altro che se vi riflettete, la troverete, assai minore di quello che vi sembrò sul principio. E in primo luogo notate che essa viene originata in gran parte dall'idea preconcetta che la tassa dell'interesse legale altro non sia che una vera permissione dell'usura. Gli economisti che sostengono cotesto interesse così sogliano ragionare. «Un Governo che vuol tassare il lucro nei prestiti dee tassarlo con giustizia. Or questo lucro nel corso ordinario degl'interessi commerciali va secondo giustizia perpetuamente cambiando, per le diverse ragioni di equilibrio commerciale? Dunque un Governo non può secondo giustizia fissare una tassa costante». Voi vedete che in tale argomento si suppone che i Governi debbano concedere ai mutuanti quel frutto medesimo che ricaverebbero se fossero liberi a chieder l'usura. Ma togliete ai privati cotesta facoltà dell'usura, e riguardate il lucro come un premio conceduto dal Governo; e cesserà ogni ragione di giustizia dedotta dai contratti privati. Toccherà al Governo esaminare qual tassa sia necessaria per dare un impulso ai capitali e determinatane la quantità in ragione del pubblico bene, poco avrà a preoccuparsi delle piccole oscillazioni della borsa? Tanto più (e lo notava anche il Rossi benché contrario alla tassa dell'interesse), che la determinazione della tassa è solo un limite del maximum, al disotto del quale gran libertà rimane alle variazioni quotidiane degl'interessi commerciali.
Cionondimeno se anche volessimo imporre ai Governi strettezze maggiori, qual difficoltà vi sarebbe a far nel denaro ciò che si usa in ogni altra merce, quando se ne vuole determinare la meta? Certe derrate cangiano in ogni mercato, in ogni fiera la tassa: altre volte si fissa per ogni bimestre, per ogni trimestre: in certi casi vien determinata a giudizio dei periti. Insomma la forma concreta di simili ordinamenti può variare indefinitamente senza che per questo venga abbandonato il principio.
Econ. Ma giacché tanto concedete, non potreste concedere più oltre una piena libertà ai contraenti?
Can. Come vedete sarebbe questo un vero abbandono del principio, una vera libertà dell'usura. Finché voi mettete agl'interessi una tassa sociale, voi mostrate d'avere in mira il ben comune, il quale dee nascere da riguardi universali; e imponete un freno alla passione privata, la quale è radice d'ingiustizia negli usurai. Ma quando concedete al privato ogni libertà, voi dite col fatto che la norma della operazione non può più essere il bene comune, il quale non può essere giudicato prudentemente se non dal comune ordinatore.
Econ. Ma non potrebbe il comune ordinatore giudicare utile alla comunità il lasciar libera ad ogni privato la determinazione della tassa?
Can. Questo, se lo prendete in senso di positiva approvazione, sarebbe altrettanto che sentenziare utile alla comunità lo sfrenamento delle passioni; il che, come, vedete, sarebbe precisamente un rinnegare quel principio per cui vien giudicata necessaria la legge: la quale, perché s'impone se non per infrenar le passioni irragionevoli? Lo sfrenamento delle passioni (e tra queste l'auri sacra fames è una delle più feroci) è essenzialmente malvagio, essendo naturale alla passione l'eccedere.
Econ. Scusate: la vostra proposizione mi sembra non solamente falsa, ma quasi contraddittoria in terminis. Come volete che sia eccessivo ciò che è naturale, se la natura anzi è la regola a cui dobbiamo conformarci per evitare gli eccessi?
Can. Voi confondete la natura della passione con la natura dell'uomo. Ogni passione ha, direttamente o indirettamente, per oggetto o fine naturale un qualche bene sensibile: ed ecco perché ella vi tende senza mai dire Basta, non essendo mai troppo il conseguimento del proprio fine. Ma la natura dell'uomo non è una passione: è un complesso di passioni predominate dalla ragione. Concedere dunque ad una di quelle la sua naturale veemenza libera da ogni freno, egli è un combattere la natura umana, la ragione che dovrebbe frenarla. Ecco conciliato l'eccesso colla natura della passione. Cotesta frase significa in sostanza che la natura della passione eccede i limiti della ragione, ossia della natura specifica dell'uomo: il che vi spiega come sia intrinsecamente male il volere positivamente cotesto eccesso. Si tratta di voler che la ragione non abbia il comando sopra le passioni.
Econ. Ma dunque voi credete che un Governo, ove si abolissero le leggi contro l'usura, peccherebbe contro la natura umana?
Can. Adagio, caro mio, adagio ai mal passi: non confondiamo l'approvazione con la tolleranza, e il dovere di governante con la morale di galantuomo. Questa regola la coscienza personale la quale col libero arbitrio e con la grazia può, volendo, evitare ogni grave colpa. Alla coscienza dunque è dalla morale vietata assolutamente l'usura. Ma l'ufficio di governante lavora sopra una materia dura molte volte è restia com'è la corrotta natura delle moltitudini; dalla quale dee spremere tutto quel bene che moralmente è fattibile, senza pretender quello che potrebbe indurre un male maggiore. Quindi vedete che se mai non può esser lecito ad un governante approvare positivamente l'usura, come farebbe se volesse positivamente autenticarla per lecita, non è però impossibile una società, ove la depravazione renda lecita la tolleranza di questa come di altre malvagità (3). Vero è che, essendo sempre nocivo a lungo andare ciò che è contrario alla natura; coteste tolleranze preparano poi sempre un aumento di sventure pei popoli, nei quali si avvera così l'infallibile sentenza della scrittura: Miseros facit populos peccatum. Quel Governo adunque, la cui società si trovasse in questa misera condizione, nell'atto del tollerare ciò che non può vietarsi senza incorrere in un male peggiore, dovrà adoprarsi a tutt'uomo per correggere e gli errori e le corruzioni riconducendo a poco a poco le moltitudini ad una giusta estimazione e ad una pratica fedele dei sani principii morali. Dal che vi si fa chiaro per ultimo l'immenso divario che passa tra una legge determinatrice dell'interesse legale, ed una legge approvatrice o anche solo permettitrice dell'usura. Amendue coteste leggi lascerebbero libera nella società l'esazione di un lucro nei mutui: ma la prima concedendolo come premio per pubblico vantaggio, serberebbe intatto il principio morale, essere illecito il lucro nel mutuo come natural frutto del mutuo stesso. All'opposto la legge che tollerasse lo sfrenamento dell'avarizia privata infliggerebbe alla pubblica morale una ferita, avvezzando le coscienze allo scandalo di una perpetua violazione della probità naturale. Se fìnalmente alla tolleranza succedesse una positiva approvazione, il Governo diverrebbe complice della reità, e le moltitudini condotte a poco a poco a dimenticare totalmente il vero principio di onestà in tale materia e a riputare onesto l'usurparsi le fatiche altrui ogni qual volta senza violenza possano appropriarsele; si troverebbero nell'impossibilità di riordinarsi alla pratica. Il disordine prolungato e quasi connaturato alla società produrrebbe senza ostacolo tutti i suoi frutti; e voi sapete che frutto del disordine nel corpo. sociale, come nel naturale è la morte.
Quindi vedete quanto importa nelle operazioni sociali, il motivo dell'opera. La materialità di questa molte volte può essere per sè indifferente, e rivestire il carattere di bene o di male morale secondo i motivi per cui si eseguisce. Ecco perché al vostro primitivo dilemma io diedi quella risposta scolastica che allora forse non avrete ben compresa.
Econ. Ricordatemela di grazia; chè appunto per non averla compresa già l'ho dimenticata.
Can. Com'era il vostro dilemma?….
Econ. Eccolo: o l'usura è mala per sè e non può permettersi, né anche sotto nome d'interesse legale: o può permettersi e allora non è mala per sè.
Can. Oh bravo! così appunto. Ed io vi ho risposto distinguendo: l'usura non può permettersi nella sua identità morale, concedo: nella pura identità materiale, nego. La risposta adesso vi sarà chiara abbastanza. E l'usuraio e il Governo attribuiscono ai cento scudi un frutto di cinque. Questi cinque scudi, materialmente parlando, sono sempre i medesimi, qualunque sia il motivo per cui si ricevono. Fossero pur rubati o dati per elemosina, i cinque scudi son sempre quelli; e se il Governo permette di riceverli, permetterà o l'usura o il premio o il furto o l'elemosina, secondo i varii motivi che hanno prodotto quell'opera: dunque mentre permette i cinque scudi, non si può dire che permetta l'usura. Ma quando potrà dirsi, che questa viene realmente permessa? Allora solamente quando, senza ragion di ben pubblico, si permetterà alla privata avidità di estorcere a piacimento un frutto naturale dalla pecunia mutuata. Questa è la forma morale, la malvagità intrinseca dell'usura. Essa sta nell'appropriarsi le fatiche altrui senza altro titolo che quella potenza che abbiamo di rendergli possibile o impossibile l'adoperare le sue forze: sta in quel dire al suo prossimo: «Se io non ti rendo questo servigio che a me non reca alcun dispendio, le tue braccia divengono inutili: se vuoi che io te lo renda; pagami con le tue fatiche la mia benevolenza. Se non me la paghi, rimanti nella tua impotenza». Qui sta moralmente il mal dell'usura; il quale, come vedete, non viene approvato da un Governo quando dice al suddito: «Io non ti permetto d'approfittare della miseria del prossimo per costringerlo a faticare per te: non ti permetto di vendere all'incanto quella benevolenza, quella carità, per cui sei obbligato a volere; e, potendo senza tuo danno, a fare il suo bene. A questa tua benevolenza corrisponderà la benevolenza del tuo beneficato. Siccome però nelle condizioni presenti il bene della società esige che i capitali si muovano, e questo movimento esige un impulso e merita un premio, impongo ad ogni mutuatario una tassa di cinque per cento all'anno in favore del mutuante».
Econ. Sapete che la dottrina cattolica presentata sotto questo nuovo aspetto incomincia quasi a piacermi?
Can. Qui non c'è novità: è quasi un secolo che il Pichler valente canonista ed altri scrittori cattolici la sostenevano in Germania contro il Concina (4): la dottrina poi della perversità dell'usura, in quanto essa pretende appropriarsi le fatiche altrui senza pagarle con altro che con la benevolenza, è vecchia, non dirò come S. Tommaso, ma come lo stesso pagano Aristotile.
Econ. O vecchia o nuova, il fatto sta ch'ella mi sembra degnissima dei veri amici dell'umanità e dei veri difensori della proprietà.
Can. Avete ragione ed io mi meraviglio come coloro che tanto vantano cotesti sentimenti filantropici non veggano che l'approvazione dell'usura potrebbe prendere nella società spaventevoli dimensioni. Se imprestando il danaro io posso dire al mio prossimo: «Il tuo lucro è mio, perché senza il mio favore non potresti lavorare»; perché non potrò dire altrettanto per qualsivoglia altro favore, con cui gli rendo possibile o agevole la fatica? Or vedete quali angherie verrebbero ad autenticarsi! Con tali dettami. ogni qualvolta l'altrui lavoro dipende in qualche modo dalla mia volontà, io potrei farmene cedere una parte. «Se io non ti lascio entrare, potrebbe dire il guardaportone all'operaio, tu non avrai lavoro: cedimi una parte del lavoro che farai. Se io non ti do da mangiare, gli dirà l'oste, tu perderai spossato questa mezza giornata; pagami oltre lo scotto una parte della tua mezza giornata. Se io non ti do il metallo, dirà al fabbro, il negoziante, ti mancherà la materia al guadagno: pagami dunque oltre la materia una giunta pel comodo di lavorare». Tali sono le applicazioni pratiche di quello spietato principio economico: «Ogni servigio ha prezzo».
Econ. Or dunque escludiamolo pure dalla nostra economia. Ma qual principio vi sostituirete voi?
Can. Vi sostituirò il principio naturale, il principio cattolico: In ogni contratto bilaterale servisi l'uguaglianza: o se volete un'altra formola: Ogni servigio si rimuneri coll'equivalente: Quando il servigio è nell'affetto, si rimuneri coll'affetto: quando è in materia economica, si rimuneri coll'altrettanto economico.
Econ. Spiegatevi di grazia un po' meglio: che cosa intendete per uguaglianza economica?
Can. Intendo che alla roba equivalga la roba, come all'affetto dee corrispondere l'affetto.
Econ. Ma dunque non sarà più lecito l'introdurre nel commercio quelle che sogliam chiamare ricchezze immateriali?
Can. Scusatemi: l'uomo è proprietario delle sue forze, dell'azioni con cui le adopera, dei frutti che ne ritrae. Le sue forze sono lui stesso, e però inalienabili: egli non può vendere nè l'intelletto, nè la volontà, né la vitalità ecc. L'uso di coteste forze può essere diretto o all'esercizio delle virtù pel bene dell'anima, o alla produzione materiale pel bene del corpo. Se si facesse pagare l'esercizio delle virtù, queste perderebbero la loro natura, e però ripugna alla moralità degli atti la venalità. Quello dunque che può entrare in commercio è quell'uso delle forze che si indirizza al sostentamento materiale, coi frutti che esse forze naturalmente producono e col tempo che al loro esercizio è condizione necessaria. Qui come vedete, sono comprese anche le ricchezze che gli economisti dicono immateriali. Quando io chiedo ad un operaio il lavoro, gli chiedo oltre le braccia, anche l'attenzione, la perizia, il tempo: forza, perizia, attenzione e tempo che dovrebbe impiegare pel suo sostentamento e che io sarò obbligato a compensargli. Ma con che dovrò compensarlo? Coll'altrettanto,vale a dire, o coll'impiegare per lui le mie forze, la perizia, l'attenzione, il tempo, o col dargli un frutto materiale di questi elementi di produzione da me accumulato: il quale per maggior comodo d'ambe le parti vien rappresentato dalla moneta. Finchè in questo dare e ricevere vi sarà equivalenza e di natura e di proprietà, sarà giusto il contratto: ma se vi è disparità o nella natura o nella quantità, se do cinque per ricevere dieci, o cortesie per ricevere danari; l'uguaglianza cessa, e il contratto è ingiusto. Se questi principii si tenessero perpetuamente presenti, l'usura comparirebbe quel che ella è veramente, una usurpazione del danaro altrui per compenso della propria cortesia.
Così finì quel dialogo e l'economista parve ricreduto nelle sue preoccupazioni. Possiamo noi sperare altrettanto di voi lettor cortese? Speriamo certo che ammetterete potere il cattolicismo senza nulla mutare nelle sue dottrine fulminatrici dell'usura, sospendere i suoi giudizi e lasciar libera la buona fede in materia d'interesse legale. Compreso che la forma delle azioni morali è nelle relazioni più che nella materia, è facile l'inferirne che una stessa azione materiale, può rivestire diverso carattere morale per le diverse relazioni che la coscienza contempla. Vero è che codesta diversità di relazioni può essere talora puramente apparente, e penetrata più addentro scovare un serpe che s'appiattava nell'erba. Ed appunto per questo le congregazioni romane ugualmente prudenti e nel non condannare il colpevole e nel non assolvere l'innocente, posta debitamente in sicuro nelle coscienze la buona fede per l'opera e la riverenza verso la Chiesa, lasciano al tempo il diradare ogni nebbia o all'esperienza il preparare la soluzione d'ogni nodo.
NOTE
1 Il concilio di Vienna 1311 definisce l'usura essere contra iura divina pariter et humana; e decreta: Si quis in illum errorem inciderit, ut pertinaciter affirmare presumat exercere usuras non esse peccatum, decernimus eum velut haereticum puniendum. LABB. tomo XI, n. 1567.
2 Se ne parlò alla Camera dei Deputati Piemontesi nella tornata del 6 di marzo 1857, ove si ripetè in sostanza ciò che nel terzo tomo del suo corso d'Economia politica dicea il Rossi (Lezione XVIII, pag. 321) Qu'est-ce qu'une loi sur l'usure? C'est une loi qui a la pretention ou de déterminer les profits ou bien de lour donner des limites ifranchissables…. Le législateur a donc dit, depuis trente ans: «Les profits en France n'ont jamais pu rationellement excèder 5 ou 6 %» Et qui donc le lui a appris? Il legislatore (dei canonisti) non dice cotesto sproposito: dice solo che la tassa conducente a mettere in movimento i capitali è il 5 %, come la tassa N sulle merci forestiere è conducente a promuovere l'industria nazionale.
3 Vedi S. Tommaso 2-2, quest: 78 a. 1 ad 2, ad 3.
4 Vedi ap. MIGNE Theologiae cursus completus tomo 16, la dissertazione de Statuto Principis del Canonico. BARTH, pag. 1007 e segg.