La crisi delle vocazioni

Cardinale Ratzinger: un’ipotesi di relazione tra la diffusione di una certa teologia contemporanea e la crisi delle vocazioni.

CAPITOLO QUARTO
(J. Ratzinger, “Rapporto sulla fede”, ed. Paoline 1985, tratto dal sito: http://utenti.tripod.it/armeria/Rap_fede_04.htm )
TRA PRETI E VESCOVI



Sacerdote: un uomo a disagio


Se è in crisi il concetto stesso di “Chiesa“, sino a che punto e perché sono in crisi gli “uomini di Chiesa”?


Restando inteso che per il corpo episcopale sarà necessario il discorso a parte che seguirà in questo stesso capitolo, dove vede Ratzinger le radici di un disagio clericale che in pochi anni ha svuotato seminari, conventi, presbiteri? In un recente intervento non ufficiale, ha citato la tesi di un famoso teologo, secondo il quale “la crisi della Chiesa d’oggi è innanzitutto una crisi dei sacerdoti e degli ordini religiosi”.


È una tesi dura – conferma un j’accuse assai aspro, ma può darsi che colga una verità. Sotto l’urto del postconcilio i grandi ordini religiosi (e cioè proprio le colonne tradizionali della sempre necessaria riforma ecclesiale) hanno vacillato, hanno subìto pesanti emorragie, hanno visto ridursi a limiti mai prima raggiunti i nuovi ingressi ed oggi sembrano ancora scossi da una crisi di identità”.


Anzi, per lui, “sono stati spesso gli ordini tradizionalmente più “colti”, più attrezzati intellettualmente a subire la crisi più pesante”. E ne vede un motivo: “Chi più ha praticato e pratica certa teologia contemporanea, ne vive sino in fondo le conseguenze, come la sottrazione quasi integrale per il prete, per il religioso delle certezze usuali”.


A questa prima ragione di “sbandamento”, il Prefetto ne aggiunge altre: “La condizione stessa del sacerdote è singolare, estranea alla società d’oggi. Sembra incomprensibile una funzione, un ruolo che non si basino sul consenso della maggioranza, bensì sulla rappresentanza di un Altro che partecipa a un uomo la sua autorità. In queste condizioni è grande la tentazione di passare da quella soprannaturale “autorità di rappresentanza” che contrassegna il sacerdozio cattolico a un ben più naturale “servizio di coordinamento del consenso”, cioè a una categoria comprensibile, perché solo umana e per di più omogenea alla cultura d’oggi”.


Dunque, se ho ben capito, a suo avviso si eserciterebbe sul sacerdote una pressione culturale perché passi da un ruolo “sacrale” a un ruolo “sociale”, in linea con i meccanismi “democratici”, di consenso dal basso, che contrassegnano la società “laica, democratica, pluralista”. “Qualcosa del genere – conferma -. Una tentazione di sfuggire dal mistero della struttura gerarchica fondata su Cristo verso il plausibile dell’organizzazione umana”.


Per chiarire meglio il suo punto di vista ricorre a un esempio che è di grande attualità, il sacramento della riconciliazione, la confessione: “Ci sono sacerdoti che tendono a trasformarla quasi solo in un “colloquio”, in una sorta di autoanalisi terapeutica tra due persone sullo stesso livello. Ciò sembra assai più umano, più personale, più adatto all’uomo d’oggi. Ma questo modo di confessarsi rischia di avere poco a che fare con la concezione cattolica del sacramento, dove non contano tanto le prestazioni, l’abilità di chi è investito dell’ufficio. Occorre anzi che il prete accetti di mettersi in secondo piano, lasciando spazio al Cristo che solo può rimettere il peccato. Bisogna dunque tornare anche qui al concetto autentico del sacramento, dove uomini e mistero si incontrano. Bisogna recuperare interamente il senso dello scandalo per il quale un uomo può dire a un altro uomo: “Io ti assolvo dai tuoi peccati”. In quel momento – come del resto nella celebrazione di ogni altro sacramento – il prete non trae di certo la sua autorità dal consenso degli uomini ma direttamente da Cristo. L’ “io” che dice: “ti assolvo” non è quello di una creatura ma è direttamente l’ “Io” del Signore”.


Eppure, dico, non sembrano infondate tante critiche al “vecchio” modo di confessarsi. Replica subito: “Mi sento sempre più a disagio quando sento definire con leggerezza “schematica” “esteriore”, “anonima” la maniera un tempo diffusa di avvicinarsi al confessionale. E mi suona sempre più amaro l’autoelogio di alcuni preti per i loro “colloqui penitenziali” divenuti rari ma, “in compenso, ben più personali” come dicono. A ben guardare, dietro la “schematicità” di certe confessioni di un tempo c’era anche la serietà dell’incontro tra due persone consapevoli di trovarsi davanti al mistero sconvolgente del perdono di Cristo che giunge attraverso le parole e il gesto di un uomo peccatore. Senza dimenticare che in tanti “colloqui” divenuti sin troppo analitici è umano che si insinui una sorta di compiacenza, un’autoassoluzione che – nel profluvio delle spiegazioni -può non lasciare quasi più spazio al senso del peccato personale del quale, al di là di tutte le attenuanti, siamo sempre responsabili”.


Un giudizio davvero severo, osservo: non rischia forse di essere troppo drastico?


“Non voglio dire che non si potrebbe avere una riforma adeguata anche della celebrazione esteriore della confessione. La storia mostra in proposito una tale ampiezza di sviluppi che sarebbe assurdo voler canonizzare per sempre una singola forma, quella attuale. È indubbio che alcuni uomini, oggi, non riescono a trovare più nessun accesso al tradizionale confessionale, mentre la forma colloquiale di confessione apre ad essi realmente una porta. Perciò non vorrei in nessun modo sottovalutare il significato di queste nuove possibilità e la benedizione che esse possono rappresentare per molti. Del resto, il problema fondamentale non è questo. Il punto decisivo della questione si trova ad un livello più profondo e ad esso volevo richiamare”.


Tornando infatti alle radici in cui gli sembra di individuare la crisi del sacerdote, mi parla della “tensione di ogni momento di un uomo, come è oggi il prete, chiamato ad andare assai spesso controcorrente. Un uomo simile può alla fine stancarsi di opporsi, con le sue parole e ancor più con il suo stile di vita, alle ovvietà dall’apparenza così ragionevole che contrassegnano la nostra cultura. Il prete – colui, cioè, attraverso il quale passa la forza del Signore – è stato sempre tentato di abituarsi alla grandezza, di farne una routine. Oggi la grandezza del Sacro potrebbe avvertirla come un peso, desiderare (magari inconsciamente) di liberarsene, abbassando il Mistero alla sua statura umana, piuttosto che abbandonarvisi con umiltà ma con fiducia per farsi elevare a quell’altezza”.


Il problema delle Conferenze Episcopali


Dai preti “semplici” passiamo ai vescovi, cioè a coloro che, essendo “successori degli Apostoli”, detengono la “pienezza del sacerdozio”, sono “maestri autentici della dottrina cristiana”, “godono di autorità propria, ordinaria, immediata sulla Chiesa loro affidata” della quale sono “principio e fondamento di unità”; e che, uniti nel collegio episcopale con il suo Capo, il Romano Pontefice, “agiscono in persona di Cristo” per governare la Chiesa universale.


Tutte definizioni, quelle che abbiamo date, che sono proprie della dottrina cattolica sull’episcopato e che sono state riaffermate con vigore dal Vaticano II.


Il Concilio, ricorda il card. Ratzinger, “voleva proprio rafforzare il ruolo e la responsabilità del vescovo, riprendendo e completando l’opera del Vaticano I, interrotto dalla presa di Roma quando era riuscito ad occuparsi soltanto del Papa. A quest’ultimo, i Padri conciliari avevano riconosciuto l’infallibilità nel magistero quando, come Pastore e Dottore supremo, proclama da tenersi come certa una dottrina sulla fede o sui costumi”. Si era creato così un certo squilibrio presso qualche autore di manuali di teologia che non sottolineava abbastanza che anche il Collegio episcopale gode della medesima “infallibilità nel magistero”, sempre che i vescovi “conservino il legame di comunione tra loro e con il successore di Pietro”.


Tutto rimesso a posto, dunque, con il Vaticano II?


“Nei documenti sì, ma non nella pratica, dove si è verificato un altro degli effetti paradossali del postconcilio”, risponde. Spiega, infatti: “il deciso rilancio del ruolo del vescovo si è in realtà smorzato o rischia addirittura di essere soffocato dall’inserzione dei presuli in conferenze episcopali sempre più organizzate, con strutture burocratiche spesso pesanti. Eppure, non dobbiamo dimenticare che le conferenze episcopali non hanno una base teologica, non fanno parte della struttura ineliminabile della Chiesa così com’è voluta da Cristo: hanno soltanto una funzione pratica, concreta”


E del resto, dice, quanto riconferma il nuovo Codice di diritto canonico, che fissa gli ambiti di autorità delle Conferenze, le quali “non possono agire validamente in nome di tutti i vescovi, a meno che tutti e singoli i vescovi non abbiano dato il loro consenso”, e a meno che non si tratti di “materie in cui lo abbia disposto il diritto universale oppure lo stabilisca un mandato speciale della Sede Apostolica”. Il collettivo, dunque, non sostituisce la persona del vescovo il quale – ricorda il Codice, ribadendo il Concilio – “è l’autentico dottore e maestro della fede per i credenti affidati alle sue cure”. Conferma Ratzinger: “Nessuna Conferenza episcopale ha, in quanto tale, una missione di insegnamento; i suoi documenti non hanno un valore specifico ma il valore del consenso che è loro attribuito dai singoli vescovi”.


Perché l’insistenza del Prefetto su questo punto? “Perché – risponde – si tratta di salvaguardare la natura stessa della Chiesa cattolica, che è basata su una struttura episcopale, non su una sorta di federazione di chiese nazionali. Il livello nazionale non è una dimensione ecclesiale. Bisogna che sia di nuovo chiaro che in ogni diocesi non c’è che un pastore e maestro della fede, in comunione con gli altri pastori e maestri e con il Vicario di Cristo. La Chiesa cattolica si regge sull’equilibrio tra la comunità e la persona, in questo caso la comunità delle singole chiese locali unite nella Chiesa universale e la persona del responsabile della diocesi”.


Succede, dice, che “certa caduta del senso di responsabilità individuale in qualche vescovo e la delega dei suoi poteri inalienabili di pastore e maestro alle strutture della Conferenza locale rischiano di fare cadere nell’anonimato ciò che deve invece restare molto personale. Il gruppo dei vescovi uniti nelle Conferenze dipende in pratica, per le decisioni, da altri gruppi, da appositi uffici che producono tracce preparatorie. Avviene poi che la ricerca del punto di incontro tra le varie tendenze e lo sforzo di mediazione diano luogo spesso a documenti appiattiti, dove le posizioni precise sono smussate”.


Ricorda che nel suo Paese una Conferenza episcopale esisteva già negli anni Trenta: “Ebbene, i testi davvero vigorosi contro il nazismo furono quelli che vennero da singoli presuli coraggiosi. Quelli della Conferenza apparivano invece un po’ smorti, troppo deboli rispetto a ciò che la tragedia richiedeva”.


“Ritrovare il coraggio personale”


C’è una legge ineliminabile, precisa, che guida – lo si voglia o no – il lavoro dei gruppi, “democratici” solo in apparenza. E quella legge stessa (ha ricordato un sociologo) che agì anche al Concilio, dove in una sessione – test, la seconda, svoltasi nel 1963, alle riunioni in aula partecipò una media di 2135 vescovi. Di questi soltanto poco più di 200, il 10 per cento, intervenne attivamente, prendendo la parola; l’altro 90 per cento non parlò mai e si limitò ad ascoltare e a votare.


“Del resto – dice – si capisce immediatamente che la verità non può essere creata come risultato di votazioni. Un’affermazione o è vera o è falsa. La verità può solo essere trovata, ma non prodotta.


Contrariamente ad una diffusa concezione, non si allontana da questa regola fondamentale neppure la procedura classica dei Concili ecumenici. Infatti fu sempre chiaro che, di essi, potevano diventare affermazioni vincolanti solo quelle accolte con unanimità morale. Ora ciò non significa affatto che almeno queste conclusioni unanimemente accettate abbiano potuto, per così dire, “produrre” la verità. Semmai, l’unanimità di un numero così grande di vescovi di diversa provenienza, di diversa formazione culturale e di diverso temperamento è un segno che essi parlano non di ciò che hanno “inventato”, ma di ciò che hanno “trovato”. L’unanimità morale, secondo la concezione classica del Concilio, non possiede il carattere di una votazione, ma il carattere di una testimonianza. Se uno ha chiaro questo punto, non ha più bisogno di dimostrare per ché una conferenza episcopale (la quale per di più rappresenta un ambito molto più limitato di un Concilio) non può votare sulla verità. Mi sia permesso richiamare, a questo proposito, un dato di fatto psicologico: noi preti cattolici della mia generazione siamo stati abituati ad evitare le contrapposizioni tra confratelli, a cercare sempre il punto di accordo, a non metterci troppo in vista con posizioni eccentriche. Così, in molte conferenze episcopali, lo spirito di gruppo, magari la volontà di quieto vive re o addirittura il conformismo trascinano la maggioranza ad accettare le posizioni di minoranze intraprendenti, determinate ad andare verso direzioni precise”. Continua: “Conosco vescovi che confessano in privato che avrebbero deciso diversamente da quanto fatto in Conferenza, se avessero dovuto decidere da soli. Accettando la legge del gruppo, hanno evitato la fatica di passare per “guastafeste”, per “attardati”, per “poco aperti”. Sembra molto bello decidere sempre “insieme”. In questo modo, però, rischiano di perdersi lo “scandalo” e la “follia” del vangelo, quel “sale” e quel “lievito” oggi più che mai indispensabili per un cristiano (soprattutto se vescovo, dunque investito di responsabilità precise per i fedeli) davanti alla gravità della crisi”.


Gli ultimissimi tempi, però, sembrano segnalare una inversione di tendenza rispetto alla prima fase del postconcilio. Ad esempio, l’assemblea plenaria del 1984 dell’episcopato di Francia (si sa che questo Paese esprime spesso tendenze interessanti per il resto della cattolicità) si è concentrata sul tema del recentrage, il “ricentraggio”. Ritorno al centro costituito da Roma; ma anche ritorno a quel centro ineliminabile che è la diocesi, la chiesa particolare, il suo vescovo.


È una tendenza appoggiata, lo abbiamo sentito, dalla Congregazione per la dottrina della fede, e non soltanto in modo teorico. Nel marzo del 1984, lo staff dirigente della Congregazione si è spostato a Bogotá per la riunione delle Commissioni dottrinali dell’episcopato latino-americano. Da Roma si è insistito perché all’incontro partecipassero i vescovi in persona e non i loro rappresentanti, “in modo da sottolineare – dice il Prefetto – la responsabilità propria di ciascun presule che, per usare le parole del Codice, “è il moderatore di tutto il ministero della Parola, colui cui spetta di annunciare il vangelo nella Chiesa affidatagli”. Questa responsabilità dottrinale non può essere delegata. Ci sono invece alcuni che considerano inaccettabile persino il fatto che il vescovo scriva personalmente le sue lettere pastorali!”.


In un documento a sua firma, il card. Ratzinger ricordava ai fratelli nell’episcopato l’esortazione severa e appassionata dell’apostolo Paolo: “Ti scongiuro davanti a Dio e a Gesù Cristo che verrà a giudicare i vivi e i morti, per la sua manifestazione e il suo regno: annunzia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonisci, rimprovera, esorta con ogni magnanimità e dottrina”. L’Apostolo continua (e continuava l’esortazione di Ratzinger): “Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole. Tu però vigila attentamente, sappi sopportare le sofferenze, compi la tua opera di annunziatore del Vangelo, adempi il tuo ministero” (2Tim 4, 1-5).


Un testo inquietante, buono per ogni tempo; ma che per il Prefetto, forse, sembra avere echi particolari in questi nostri anni. Ne viene fuori comunque l’identikit del vescovo secondo la Scrittura, così come Ratzinger lo ripropone.


Maestri di fede


A quale criterio, gli chiedo, ci si è ispirati negli anni passati e ci si ispira oggi nell’individuare da Roma i candidati alla consacrazione a vescovo? Ci si basa ancora sulle indicazioni dei Nunzi Apostolici, anzi, dei “Legati del Romano Pontefice” (secondo il loro nome ufficiale), che la Santa Sede ha in ogni Paese?


“Sì, questo compito è riconfermato dal nuovo Codice: “Spetta al Legato pontificio, per quanto riguarda la nomina dei vescovi, comunicare o proporre alla Sede Apostolica i nomi dei candidati, nonché istruire il processo informativo sui promovendi”. E un sistema che, come tutte le cose umane, dà anche qualche problema, ma non si saprebbe come sostituirlo. Ci sono Paesi che, per la loro vastità (il Brasile, gli Stati Uniti), impediscono al Legato una conoscenza diretta di tutti i candidati. Ne possono dunque nascere degli episcopati non omogenei. Intendiamoci, non si vuole certo un’armonia monotona, dunque noiosa; elementi diversi sono utili, ma occorre che tutti siano d’accordo sui punti fondamentali. Il problema è che, negli anni subito dopo il Concilio, per un certo tempo non parve del tutto chiaro il profilo del “promovendo” ideale”.


Che cosa intende dire?


“Nei primi anni dopo il Vaticano II il candidato all’episcopato sembrava essere un sacerdote che fosse innanzitutto “aperto al mondo”; in ogni caso, questo requisito veniva messo al primo posto. Dopo la svolta del ’68 e poi, via via, con l’aggravarsi della crisi, si è capito che quella sola caratteristica non bastava. Ci si è accorti, cioè, anche attraverso esperienze amare, che occorrevano vescovi “aperti” ma al contempo in grado di opporsi al mondo e alle sue tendenze negative per guarirle, arginarle, metterne in guardia i fedeli. Il criterio di scelta, dunque, si è fatto via via più realistico, l’ “apertura” come tale non parendo più, nelle mutate situazioni culturali, la risposta e la ricetta sufficienti. Del resto, una simile maturazione si è verificata anche in molti vescovi che hanno sperimentato duramente nelle loro diocesi che i tempi sono davvero cambiati rispetto a quelli dell’ottimismo un po’ acritico dell’immediato post-Concilio”.


Il ricambio generazionale è in corso: alla fine del 1984, ormai quasi la metà dell’episcopato cattolico mondiale (Joseph Ratzinger compreso) non aveva partecipato direttamente al Vaticano II. È dunque una nuova generazione che sta prendendo la guida della Chiesa.


Una generazione alla quale il Prefetto non consiglierebbe di mettersi in concorrenza con i professori di teologia: “Come vescovi – ha scritto di recente – non hanno il compito di approntare altri strumenti “scientifici” da aggiungere ai già molti prodotti dagli specialisti”. Maestri aggiornati della fede e pastori zelanti del gregge loro affidato, certo; ma “il loro servizio è personificare la voce della fede semplice, con il suo semplice e fondamentale intuito che precede la scienza. La fede, infatti, è minacciata di distruzione ogni qual volta la scienza innalza se stessa a norma assoluta”. Dunque, in questo senso, “i vescovi assolvono a una funzione davvero democratica, perché restano vicini ai fratelli che devono guidare nella tempesta. Una funzione che non riposa sulle statistiche ma sul comune dono del battesimo”.


Roma, malgrado tutto


Durante una delle pause della nostra conversazione, gli ho rivolto una domanda che voleva essere scherzosa. L’intenzione era di allentare un poco la tensione provocata dal suo sforzo di farsi capire e dal mio desiderio di comprendere. In realtà, mi sembra che la risposta che ha dato possa servire a capire meglio la sua idea di Chiesa, fondata non su dei manager ma su degli uomini di fede, non sui computer ma sulla carità, la pazienza, la saggezza.


Gli avevo dunque chiesto se (essendo stato arcivescovo a Monaco di Baviera e Cardinale Prefetto a Roma: potendo dunque fare un confronto) avrebbe preferito una Chiesa con il suo centro non in Italia ma in Germania.


“Che guaio! – ha riso -. Avremmo una Chiesa troppo organizzata. Pensi che dal mio solo arcivescovado dipendevano 400 tra funzionari e impiegati, tutti regolarmente stipendiati. Ora, si sa che per sua natura ogni ufficio deve giustificare la propria esistenza, producendo documenti, organizzando incontri, progettando nuove strutture. Certamente tutti avevano le migliori intenzioni. Ma spesso è accaduto che i parroci si sentissero più aggravati che sostenuti dalla quantità di “aiuti”…”.


Meglio dunque Roma, malgrado tutto, piuttosto che le rigide strutture e l’iper-organizzazione che attirano gli uomini del Nord?


“Sì, meglio lo spirito italiano che, non organizzando troppo, lascia spazio a quelle personalità individuali, a quelle iniziative singolari, a quelle idee originali che – lo dicevo a proposito della struttura di certe Conferenze episcopali – sono indispensabili alla Chiesa. I santi, tutti, sono stati uomini di fantasia, non funzionari di apparato. Sono stati personaggi profondamente obbedienti e al contempo uomini di grande originalità e indipendenza personale. Mi piace poi quell’umanità latina che lascia sempre spazio alla persona concreta nella pur necessaria intelaiatura di leggi e codici. La legge è per l’uomo, non l’uomo per la legge: la struttura ha le sue esigenze ma queste non devono, soffocare le persone”.


La Curia romana, dico, la fama discussa che la circonda da sempre, dal primo Medio Evo, passando per i tempi di Lutero, sino ad oggi…


Mi interrompe: “Anch’io, dalla mia Germania, guardavo spesso con scetticismo, magari con diffidenza e impazienza all’apparato romano. Arrivato qui mi sono accorto che questa Curia è ben superiore alla sua fama. In grande maggioranza è composta da persone che vi lavorano per autentico spirito di servizio. Non può essere altrimenti, vista la modestia di stipendi che da noi sarebbero considerati alla soglia della povertà. E visto anche il fatto che il lavoro dei più è ben poco gratificante, svolgendosi dietro le quinte, in modo anonimo, a preparare documenti o interventi che saranno attribuiti ad altri, ai vertici della struttura”.


Le accuse di lentezza, i ritardi proverbiali nelle decisioni…


Dice: “Questo si verifica anche perché la Santa Sede, spesso sospettata di nuotare nell’oro, in realtà non è in grado di sostenere i costi di un personale più numeroso. Molti che credono che “l’ex-Sant’Uffizio” sia una struttura imponente, non immaginano forse che la sezione dottrinale (la più importante e la più bersagliata dalle critiche delle quattro sezioni di cui si compone la Congregazione) non conta che su una decina di persone, Prefetto compreso. In tutta la Congregazione siamo una trentina. Dunque un po’ in pochi per organizzare quel golpe teologico di cui alcuni ci sospettano! Comunque pochi – battute a parte – anche per seguire con la necessaria tempestività tutto quanto si muove nella Chiesa. Nonché per attuare quel compito di ” promozione della santa dottrina ” che la riforma pone al primo posto tra i nostri compiti”.


Come agite, allora?


“Incoraggiando la costituzione di “commissioni per la fede” presso ogni diocesi o conferenza episcopale. Certamente, conserviamo per statuto il diritto di intervenire ovunque, in tutta la Chiesa universale. Ma quando ci sono fatti o teorie che suscitano perplessità, incoraggiamo innanzitutto i vescovi o i superiori religiosi a entrare in dialogo con l’autore, se non l’hanno già fatto. Solo se non si riesce a chiarire le cose in questo modo (o se il problema supera i confini locali assumendo dimensioni internazionali o se è l’autorità locale stessa che auspica un intervento da Roma), solo allora entriamo in dialogo critico con l’autore. Innanzitutto gli comunichiamo la nostra opinione, elaborata sull’esame delle sue opere con l’intervento di vari esperti. Egli ha la possibilità di correggerci e di comunicarci se qua o là abbiamo male interpretato il suo pensiero. Dopo uno scambio di lettere (e talvolta una serie di colloqui) gli rispondiamo dandogli una valutazione definitiva e proponendogli di esporre tutti i chiarimenti emersi dal dialogo in un articolo soddisfacente”.


Un procedimento, dunque, che già di per sé esige lungo tempo. Carenza di personale e ritmi “romani” non allungano ancora i tempi, quando occorrerebbe una decisione tempestiva, spesso nell’interesse stesso del ” sospettato ” che non può essere lasciato troppo in sospeso?


“È vero. Ma mi lasci dire che la proverbiale lentezza vaticana non ha soltanto aspetti negativi. È un’altra delle cose che ho capito bene soltanto a Roma; sapere soprassedere, come dite voi italiani, può rivelarsi positivo, può permettere alla situazione di decantarsi, di maturarsi, dunque di chiarirsi. C’è forse anche qui un’antica saggezza latina: le reazioni troppo rapide non sempre sono auspicabili, una non eccessiva prontezza di riflessi finisce talvolta per rispettare meglio le persone”.