La Cena del Signore

Giovanni Paolo II: chiarezza e punti fermi sugli attuali “problemi” liturgici: “Conducendo ormai a termine queste mie considerazioni, vorrei chiedere perdono – in nome mio e di tutti voi, venerati e cari fratelli nell’episcopato – per tutto ciò che per qualsiasi motivo, e per qualsiasi umana debolezza, impazienza, negligenza, in seguito anche all’applicazione talora parziale, unilaterale, erronea delle prescrizioni del Concilio Vaticano II, possa aver suscitato scandalo e disagio circa l’interpretazione della dottrina e la venerazione dovuta a questo grande sacramento. E prego il Signore Gesù perché nel futuro sia evitato, nel nostro modo di trattare questo sacro mistero, ciò che può affievolire o disorientare in qualsiasi maniera il senso di riverenza e di amore nei nostri fedeli”.


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Giovanni Paolo II
Dominicae cenae



Venerati e cari miei fratelli,


1. Anche quest’anno, per il prossimo Giovedì Santo, rivolgo a voi tutti una lettera, che ha un nesso immediato con quella che avete ricevuta lo scorso anno, nella stessa occasione, insieme alla lettera per i sacerdoti. Desidero prima di tutto ringraziarvi cordialmente per aver accolto le mie precedenti lettere con quello spirito di unità, che il Signore ha stabilito tra di noi, ed anche per aver trasmesso al vostro presbiterio i pensieri che desideravo esprimere all’inizio del mio pontificato.


Durante la liturgia eucaristica del Giovedì Santo avete rinnovato, insieme con i propri sacerdoti, le promesse e gli impegni assunti al momento dell’ordinazione. Molti di voi, venerati e cari fratelli, me ne hanno dato comunicazione in seguito, aggiungendo personalmente anche parole di ringraziamento, e, anzi, spesso inviando quelle espresse dal proprio presbiterio. Inoltre, molti sacerdoti hanno manifestato la loro gioia, sia a motivo del carattere penetrante e solenne del Giovedì Santo, quale annuale «festa dei sacerdoti», sia anche a motivo dell’importanza dei problemi trattati nella lettera a loro indirizzata.


Tali risposte formano una ricca raccolta, che ancora una volta dimostra quanto sia cara alla enorme maggioranza del presbiterio della Chiesa cattolica la strada della vita sacerdotale, sulla quale questa Chiesa cammina da secoli: quanto sia da loro amata e stimata, e quanto desiderino proseguirla per l’avvenire.


Devo a questo punto aggiungere che nella lettera ai sacerdoti hanno trovato eco soltanto alcuni problemi, ciò che, del resto, è stato chiaramente sottolineato al suo inizio (cfr. Ioannis Pauli PP. II «Epistola ad universos Ecclesiae Sacerdotes adveniente feria V in Cena Domini anno MCMLXXIX», 2, die 8 apr. 1979: AAS 71 [1979] 395ss). Inoltre, è stato messo principalmente in rilievo il carattere pastorale del ministero sacerdotale, il che non significa certamente che non siano stati presi in considerazione anche quei gruppi di sacerdoti che non svolgono un’attività pastorale diretta. Mi richiamo, a questo proposito, ancora una volta al magistero del Concilio Vaticano II, come pure alle enunciazioni del Sinodo dei Vescovi del 1971.


Il carattere pastorale del ministero sacerdotale non cessa di accompagnare la vita di ogni sacerdote, anche se i compiti quotidiani, che egli svolge, non sono rivolti esplicitamente alla pastorale dei sacramenti. In tal senso la lettera scritta ai sacerdoti, in occasione del Giovedì Santo, è stata indirizzata a tutti, senza eccezione alcuna, anche se, come ho già accennato, essa non ha trattato tutti i problemi della vita e dell’attività dei sacerdoti. Considero utile ed opportuno questo chiarimento all’inizio della presente lettera.



IL MINISTERO EUCARISTICO NELLA VITA DELLA CHIESA E DEL SACERDOTE


Eucaristia e Sacerdozio


2. La presente lettera che indirizzo a voi, miei venerati e cari fratelli nell’episcopato – e che, come ho detto, è, in certo modo, la continuazione di quella precedente – rimane anche in stretto rapporto col mistero del Giovedì Santo, ed è in relazione col sacerdozio. Intendo infatti dedicarla all’eucaristia e, in particolare, ad alcuni aspetti del mistero eucaristico e della sua incidenza sulla vita di chi ne è il ministro: e perciò i diretti destinatari di questa lettera siete voi, Vescovi della Chiesa; insieme con voi, tutti i sacerdoti; e, nel loro grado, anche i diaconi.


In realtà, il sacerdozio ministeriale o gerarchico, il sacerdozio dei Vescovi e dei presbiteri e, accanto a loro, il ministero dei diaconi – ministeri che iniziano normalmente con l’annuncio evangelico – sono in strettissimo rapporto con l’eucaristia. Essa è la principale e centrale ragion d’essere del sacramento del sacerdozio, nato effettivamente nel momento dell’istituzione dell’eucaristia e insieme con essa (cfr. Concilii Trid. Sessio XXII, can.2: «Conciliorum Oecumenicorum Decreta», Bononiae 19733, p. 735). Non senza motivo le parole «Fate questo in memoria di me» sono pronunziate immediatamente dopo le parole della consacrazione eucaristica, e noi le ripetiamo tutte le volte che celebriamo il santissimo sacrificio (Quod attinet ad istud Domini praeceptum, in quadam liturgia eucharistica Aethiopica haec verba continentur: apostoli «constituerunt nobis patriarchas, archiepiscopos, presbyteros et diaconos ad ritum (celebrandum) Ecclesiae tuae sanctae»: «Anaphora S.Athanasii: Prex Eucharistica», Haenggi-Pahl, Fribourg (Suisse) 1968, p. 183).


Mediante la nostra ordinazione – la cui celebrazione è vincolata alla santa Messa sin dalla prima testimonianza liturgica (cfr. «Tradition apostolique de saint Ippolyte», nn.2-4) – noi siamo uniti in modo singolare ed eccezionale all’eucaristia. Siamo, in certo modo, «da essa» e «per essa». Siamo anche, e in modo particolare, responsabili «di essa» – sia ogni sacerdote nella propria comunità, sia ogni Vescovo in virtù della cura di tutte le comunità, che gli sono affidate, in base alla «sollicitudo omnium ecclesiarum» di cui parla san Paolo (2Cor 11,28). E’ quindi affidato a noi, Vescovi e sacerdoti, il grande «mistero della fede»; e se esso è anche dato a tutto il Popolo di Dio, a tutti i credenti di Cristo, tuttavia a noi è stata affidata l’eucaristia anche «per» gli altri, che attendono da noi una particolare testimonianza di venerazione e di amore verso questo sacramento, affinché anch’essi possano essere edificati e vivificati «per offrire sacrifici spirituali» (1Pt 2,5).


In tal modo il nostro culto eucaristico, sia nella celebrazione della messa sia verso il santissimo sacramento, è come una corrente vivificatrice, che unisce il nostro sacerdozio ministeriale o gerarchico al sacerdozio comune dei fedeli e lo presenta nella sua dimensione verticale e col suo valore centrale. Il sacerdote svolge la sua missione principale e si manifesta in tutta la sua pienezza celebrando l’eucaristia (cfr. «Lumen Gentium», 28; «Presbyterorum Ordinis», 2.5; «Ad Gentes», 39) e tale manifestazione è più completa quando egli stesso lascia trasparire la profondità di quel mistero, affinché esso solo risplenda nei cuori e nelle coscienze umane, attraverso il suo ministero. Questo è l’esercizio supremo del «sacerdozio regale», la «fonte e l’apice di tutta la vita cristiana» («Lumen Gentium», 11).


Culto del mistero eucaristico


3. Tale culto è diretto verso Dio Padre per Gesù Cristo nello Spirito Santo. Innanzi tutto verso il Padre che, come afferma il Vangelo di san Giovanni, «ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Iubat memorare haec verba resumi in Liturgia S.Ioannis Chrysostomi proxime ante verba consecrationis, ad quae animos componunt: cfr. «La divina Liturgia del santo nostro Padre Giovanni Crisostomo», Roma – Grottaferrata 1967, pp. 104ss)


Si rivolge anche nello Spirito Santo a quel Figlio incarnato, nell’economia di salvezza, soprattutto in quel momento di suprema dedizione e di abbandono totale di se stesso, al quale si riferiscono le parole pronunciate nel cenacolo: «Questo è il mio corpo dato per voi»… «questo è il calice del mio sangue versato per voi…» (cfr. Mt 26,26ss; Mc 14,22-25; Lc 22,18ss; 1Cor 11,23ss; cfr. etiam «Preces eucharisticae» Liturgiae). L’acclamazione liturgica: «Annunciamo la tua morte, Signore!» ci riporta proprio a quel momento; e col proclamare la sua risurrezione abbracciamo nello stesso atto di venerazione il Cristo risorto e glorificato «alla destra del Padre», come anche la prospettiva della sua «venuta nella gloria». Tuttavia è l’annientamento volontario, gradito dal Padre e glorificato con la risurrezione, che, sacramentalmente celebrato insieme con la risurrezione, ci porta all’adorazione di quel Redentore «fattosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce» (Fil 2,8).


E questa nostra adorazione contiene ancora un’altra particolare caratteristica. Essa è compenetrata dalla grandezza di questa morte umana, nella quale il mondo, cioé ciascuno di noi, è stato amato «sino alla fine» (Gv 13,1). Così essa è anche una risposta che vuol ripagare quell’amore immolato fino alla morte di croce: è la nostra «eucaristia», cioé il nostro rendergli grazie, il lodarlo per averci redenti con la sua morte e resi partecipi della vita immortale per mezzo della sua risurrezione.


Un tale culto, rivolto dunque alla Trinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, accompagna e permea innanzi tutto la celebrazione della liturgia eucaristica. Ma esso deve pure riempire i nostri templi anche al di là dell’orario delle sante messe. Invero, poiché il mistero eucaristico è stato istituito dall’amore, e ci rende Cristo sacramentalmente presente, esso è degno di azione di grazie e di culto. E questo culto deve distinguersi in ogni nostro incontro col santissimo sacramento, sia quando visitiamo le nostre chiese, sia quando le sacre specie sono portate e amministrate agli infermi.


L’adorazione di Cristo in questo sacramento d’amore deve poi trovare la sua espressione in diverse forme di devozione eucaristica: preghiere personali davanti al Santissimo, ore di adorazione, esposizioni brevi, prolungate, annuali (quarantore), benedizioni eucaristiche, processioni eucaristiche, congressi eucaristici (cfr. Ioannis Pauli PP. II «Allocutio Dublini habita in hortis, quibus nomen “Poenix Park”», 7, die 29 sept. 1979: AAS 71 [1979] 1074ss; Sacrae Rituum Congregationis «Eucharisticum Mysterium»: AAS 59 [1967] 539-573; «Rituale Romanum», «De sacra communione et de cultu Mysterii eucharistici extra Missam». Notandum est cultus pondus et vim sanctificationis harum pietatis formarum in Eucharistiam non ex ipsis formis sed potius ex intimis mentis rationibus pendere). Un particolare ricordo merita a questo punto la solennità del «Corpo e Sangue di Cristo» come atto di culto pubblico reso a Cristo presente nell’eucaristia, voluta dal mio predecessore Urbano IV in memoria dell’istituzione di questo grande mistero (cfr. Urbani IV «Transiturus de hoc mundo», die 11 aug. 1264: Aemilii Friedberg «Corpus Iuris Canonici», Pars II. «Decretalim Collectiones», Leipzig 1881, pp. 1174-1177; «Studi eucaristici», VII centenario della Bolla «Transiturus» 1264-1964, Orvieto 1966, pp. 302-317). Tutto ciò corrisponde quindi ai principi generali e alle norme particolari già da tempo esistenti, ma nuovamente formulate durante o dopo il Concilio Vaticano Il (cfr. Pauli VI «Mysterium Fidei»: AAS 57 [1965] 753-774; Sacrae Rituum Congregationis «Eucharisticum Mysterium»: AAS 59 [1967] 539-573; «Rituale Romanum» «De sacra communione et de cultu Mysterii eucharistici extra Missam»).


L’animazione e l’approfondimento del culto eucaristico sono prova di quell’autentico rinnovamento che il Concilio si è posto come fine, e ne sono il punto centrale. E ciò, venerati e cari fratelli, merita una riflessione a parte. La Chiesa e il mondo hanno grande bisogno del culto eucaristico. Gesù ci aspetta in questo sacramento dell’amore. Non risparmiamo il nostro tempo per andare a incontrarlo nell’adorazione, nella contemplazione piena di fede e pronta a riparare le grandi colpe e i delitti del mondo. Non cessi mai la nostra adorazione.


Eucaristia e Chiesa


4. Grazie al Concilio ci siamo resi conto, con forza rinnovata, di questa verità: come la Chiesa «fa l’eucaristia», così «l’eucaristiacostruisce» la Chiesa (Ioannis Pauli PP. II «Redemptoris Hominis», 20: AAS 71 [1979] 311; cfr. «Lumen Gentium», 11; insuper annotat. 57 ad n.20 Schematis II eiusdem Constitutionis dogmaticae in operae quod inscribitur «Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Oecum. Vat. II, vol.II, periodus 2, pars I, sessio publica II, pp. 251ss; Pauli VI «Allocutio habita in Admissione Generali», die 15 sept. 1965: «Insegnamenti di Paolo VI», III [1965] 1036; H. de Lubac, «Méditation sur l’Eglise», Paris 19532, pp. 129-137); e questa verità è strettamente unita al mistero del Giovedì Santo. La Chiesa è stata fondata, come comunità nuova del Popolo di Dio, nella comunità apostolica di quei dodici che, durante l’ultima cena, sono divenuti partecipi del corpo e del sangue del Signore sotto le specie del pane e del vino. Cristo aveva detto loro: «Prendete e mangiate…», «prendete e bevete». Ed essi, adempiendo questo suo comando, sono entrati, per la prima volta, in comunione sacramentale col Figlio di Dio, comunione che è pegno di vita eterna. Da quel momento sino alla fine dei secoli, la Chiesa si costruisce mediante la stessa comunione col Figlio di Dio, che è pegno di pasqua eterna.


Come maestri e custodi della verità salvifica dell’eucaristia, dobbiamo, cari e venerati fratelli nell’episcopato, custodire sempre e dappertutto questo significato e questa dimensione dell’incontro sacramentale e dell’intimità con Cristo. Proprio essi costituiscono infatti la sostanza stessa del culto eucaristico. Il senso di questa verità sopra esposta non diminuisce in alcun modo, anzi facilita il carattere eucaristico di spirituale avvicinamento e di unione tra gli uomini, che partecipano al sacrificio, il quale, poi, nella comunione diventa per essi il banchetto. Questo avvicinamento e questa unione il cui prototipo è l’unione degli apostoli intorno al Cristo durante l’ultima cena, esprimono e realizzano la Chiesa.


Ma questa non si realizza solo mediante il fatto dell’unione tra gli uomini, attraverso l’esperienza della fraternità, alla quale dà occasione il banchetto eucaristico. La Chiesa si realizza quando in quella fraterna unione e comunione celebriamo il sacrificio della croce di Cristo, quando annunziamo «la morte del Signore finché venga» (1Cor 11,26) e, in seguito, quando profondamente compenetrati dal mistero della nostra salvezza, ci accostiamo comunitariamente alla mensa del Signore, per nutrirci, in modo sacramentale, dei frutti del santo sacrificio propiziatorio. Nella comunione eucaristica riceviamo quindi Cristo, Cristo stesso; e la nostra unione con lui, che è dono e grazia per ognuno, fa sì che in lui siamo anche associati all’unità del suo corpo che è la Chiesa.


Soltanto in questo modo, mediante una tale fede e una tale disposizione d’animo, si realizza quella costruzione della Chiesa che nell’eucaristia trova veramente la sua fonte e il suo culmine secondo la nota espressione del Concilio Vaticano II (cfr. «Lumen Gentium», 11; «Sacrosanctum Concilium», 10; «Presbyterorum Ordinis», 5; «Christus Dominus», 30; «Ad Gentes», 9). Questa verità, che per opera del medesimo Concilio ha avuto nuovo e vigoroso risalto (cfr. «Lumen Gentium», 26; «Unitatis Redintegratio», 15), deve essere tema frequente delle nostre riflessioni e del nostro insegnamento. Si nutra di essa ogni attività pastorale, e sia anche cibo per noi stessi e per tutti i sacerdoti che collaborano con noi, e infine per le intere comunità a noi affidate. Così in tale prassi deve rivelarsi, quasi ad ogni passo, quello stretto rapporto tra la vitalità spirituale ed apostolica della Chiesa e l’eucaristia, intesa nel suo significato profondo, e sotto tutti i punti di vista (Hoc ipsum expetitur per collectam Missae vespertinae in Cena Domini: «Ut ex tanto mysterio plenitudinem caritatis hauriamus et vitae»: «Missale Romanum»; et etiam per epicleses communionis Missalis Romani: «Et supplices deprecamur ut Corporis et Sanguinis Christi participes a Spirito Sancto congregemur in unum. Recordare, Domine, Ecclesiae tuae toto orbe diffusae ut eam in caritate perficias»: «Prex eucharistica» II; cfr. «Prex eucharistica» III).


Eucaristia e carità


5. Prima di passare ad osservazioni più particolareggiate sul tema della celebrazione del santissimo sacrificio, desidero riaffermare brevemente che il culto eucaristico costituisce l’anima di tutta la vita cristiana. Se infatti la vita cristiana si esprime nell’adempimento del più grande comandamento, e cioè nell’amore di Dio e del prossimo, questo amore trova la sua sorgente proprio nel santissimo sacramento, che comunemente è chiamato: sacramento dell’amore.


L’eucaristia significa questa carità, e perciò la ricorda, la rende presente e insieme la realizza. Tutte le volte che partecipiamo ad essa in modo cosciente, si apre nella nostra anima una dimensione reale di quell’amore imperscrutabile che racchiude in sé tutto ciò che Dio ha fatto per noi uomini e che fa continuamente, secondo le parole di Cristo: «Il Padre mio opera sempre e anch’io opero» (Gv 5,17). Insieme a questo dono insondabile e gratuito, che è la carità rivelata, sino in fondo, nel sacrificio salvifico del Figlio di Dio, di cui l’eucaristia è segno indelebile, nasce anche in noi una viva risposta d’amore. Non soltanto conosciamo l’amore, ma noi stessi cominciamo ad amare. Entriamo, per così dire, nella via dell’amore e su questa via compiamo progressi. L’amore, che nasce in noi dall’eucaristia, grazie ad essa si sviluppa in noi, si approfondisce e si rafforza.


Il culto eucaristico è quindi proprio espressione di quest’amore, che è l’autentica e più profonda caratteristica della vocazione cristiana. Questo culto scaturisce dall’amore e serve all’amore, al quale tutti siamo chiamati in Gesù Cristo (cfr. «Oratio post communionem Dominicae XXII “per annum”»: «Pane mensae caelestis refecti, te, Domine, deprecamur, ut hoc nutrimentum caritatis corda nostra confirmet, quatenus ad tibi ministrandum in fratribus excitemur»: «Missale Romanum»). Frutto vivo di questo culto è la perfezione dell’immagine di Dio che portiamo in noi, immagine che corrisponde a quella che Cristo ci ha rivelato. Diventando così adoratori del Padre «in spirito e verità» (Gv 4,23), noi maturiamo in una sempre più piena unione con Cristo, siamo sempre più uniti a lui e – se è lecito usare questa espressione – siamo sempre più solidali con lui.


La dottrina dell’eucaristia, segno dell’unità e vincolo della carità, insegnata da san Paolo (cfr. 1Cor 10,17; S.Augustini «In Evangelium Ioannis», tract. 31,13: PL 35,1613; item Concilii Trid. Sessio XIII, c. 8: «Conciliorum Oecumenicorum Decreta», Bononiae 19733, p. 697,7; «Lumen Gentium», 7), è stata in seguito approfondita dagli scritti di tanti santi, che sono per noi un esempio vivente di culto eucaristico. Dobbiamo avere sempre questa realtà davanti agli occhi e, nello stesso tempo, sforzarci continuamente di far sì che anche la nostra generazione aggiunga a quei meravigliosi esempi del passato, esempi nuovi, non meno vivi ed eloquenti, che rispecchino l’epoca a cui apparteniamo.


Eucaristia e prossimo


6. L’autentico senso dell’eucaristia diventa di per sé scuola di amore attivo verso il prossimo. Sappiamo che tale è l’ordine vero ed integrale dell’amore che ci ha insegnato il Signore: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). L’eucaristia ci educa a questo amore in modo più profondo, essa dimostra infatti quale valore abbia agli occhi di Dio ogni uomo, nostro fratello e sorella, se Cristo offre se stesso in ugual modo a ciascuno, sotto le specie del pane e del vino. Se il nostro culto eucaristico è autentico, deve far crescere in noi la consapevolezza della dignità di ogni uomo. La coscienza di questa dignità diviene il motivo più profondo del nostro rapporto col prossimo.


Dobbiamo anche diventare particolarmente sensibili ad ogni sofferenza e miseria umana, ad ogni ingiustizia e torto, cercando il modo di rimediarvi in maniera efficace. Impariamo a scoprire con rispetto la verità sull’uomo interiore, perché proprio quest’interno dell’uomo diventa dimora di Dio, presente nell’eucaristia. Cristo viene nei cuori e visita le coscienze dei nostri fratelli e sorelle. Come cambia l’immagine di tutti e di ciascuno, quando prendiamo coscienza di questa realtà, quando la rendiamo oggetto delle nostre riflessioni! Il senso del mistero eucaristico ci spinge all’amore verso il prossimo, all’amore verso ogni uomo (Hoc enuntiant plures orationes «Missalis Romani»: Oratio super oblata Missae «Pro iis qui opera misericordiae exercuerunt»: «ut… in tui et proximi dilectione, Sanctorum tuorum exemplo, confirmemur»: «Missale Romanum»; Post communionem Missae «Pro educatoribus»: «ut… fraternitatis caritatem et lumen veritatis in corde exhibeamus et opere»: «Missale Romanum»; cfr. etiam Post communionem Missae Dominicae XXII «per annum», supra allatum in annot.22).


Eucaristia e vita


7. Essendo dunque sorgente di carità, l’eucaristia è stata sempre al centro della vita dei discepoli di Cristo. Essa ha l’aspetto di pane e di vino, cioè di cibo e di bevanda, è quindi così familiare all’uomo, così strettamente legata alla sua vita, come sono appunto il cibo e la bevanda. La venerazione di Dio, che è amore, nasce, nel culto eucaristico, da quella specie di intimità nella quale egli stesso, analogamente al cibo e alla bevanda, riempie il nostro essere spirituale, assicurandogli, come quelli, la vita. Tale venerazione «eucaristica» di Dio corrisponde strettamente, quindi, ai suoi piani salvifici. Egli stesso, il Padre, vuole che «i veri adoratori» (Gv 4,23) lo adorino proprio così, e Cristo è interprete di quel volere, e con le sue parole e insieme con questo sacramento, nel quale ci rende possibile l’adorazione del Padre, nel modo più conforme alla sua volontà.


Da un tale concetto di culto eucaristico scaturisce in seguito tutto lo stile sacramentale della vita del cristiano. Infatti il condurre una vita basata sui sacramenti, animata dal sacerdozio comune, significa anzitutto, da parte del cristiano, desiderare che Dio agisca in lui per farlo giungere nello Spirito «alla piena maturità di Cristo» (Ef 4,13). Dio, da parte sua, non lo tocca solo attraverso gli avvenimenti e con la sua grazia interna, ma agisce in lui, con maggiore certezza e forza, attraverso i sacramenti. Essi danno alla sua vita uno stile sacramentale.


Orbene, tra tutti i sacramenti, è la santissima eucaristia che porta a pienezza la sua iniziazione di cristiano e che conferisce all’esercizio del sacerdozio comune questa forma sacramentale ed ecclesiale che lo aggancia – come abbiamo accennato in antecedenza (cfr. Concilii Trid. Sessio XXII, can.2: «Conciliorum Oecumenicorum Decreta», Bononiae 19733, p. 735) – a quello del sacerdozio ministeriale. In tal modo il culto eucaristico è centro e fine di tutta la vita sacramentale (cfr. «Ad Gentes», 9 et 13; «Presbyterorum Ordinis», 5). Risuonano continuamente in esso, come un’eco profonda, i sacramenti dell’iniziazione cristiana: battesimo e confermazione. Dove mai è meglio espressa la verità che non soltanto siamo «chiamati figli di Dio», ma «lo siamo realmente» (1Gv 3,1), in virtù del sacramento del battesimo, se non appunto nel fatto che nella eucaristia diventiamo partecipi del corpo e del sangue dell’unigenito Figlio di Dio? E che cosa ci predispone maggiormente ad «essere veri testimoni di Cristo» («Lumen Gentium», 11), di fronte al mondo, come risulta dal sacramento della confermazione, se non la comunione eucaristica, in cui Cristo dà testimonianza a noi e noi a lui?


E’ impossibile analizzare qui in modo più particolareggiato i legami che esistono tra l’eucaristia e gli altri sacramenti, in particolare con il sacramento della vita familiare e il sacramento degli infermi. Sullo stretto legame tra il sacramento della penitenza e quello dell’eucaristia, ho già richiamato l’attenzione nell’enciclica «Redemptor Hominis» (cfr. Ioannis Pauli PP. II «Redemptor Hominis», 20). Non è soltanto la penitenza che conduce all’eucaristia, ma è anche l’eucaristia che porta alla penitenza. Quando infatti ci rendiamo conto di chi è colui che riceviamo nella comunione eucaristica, nasce in noi quasi spontaneamente un senso di indegnità, insieme col dolore per i nostri peccati e con l’interiore bisogno di purificazione.


Dobbiamo però vigilare sempre, affinché questo grande incontro con Cristo nell’eucaristia non divenga per noi un fatto consuetudinario e affinché non lo riceviamo indegnamente, cioè in stato di peccato mortale. La pratica della virtù della penitenza e il sacramento della penitenza sono indispensabili al fine di sostenere in noi e approfondire continuamente quello spirito di venerazione, che l’uomo deve a Dio stesso e al suo amore così mirabilmente rivelato.


Queste parole vorrebbero presentare alcune riflessioni generali sul culto del mistero eucaristico, le quali potrebbero essere sviluppate più a lungo e più ampiamente. Si potrebbe, in particolare, collegare quanto fu detto degli effetti dell’eucaristia sull’amore per l’uomo e ciò che abbiamo ora rilevato circa gli impegni contratti verso l’uomo e la Chiesa nella comunione eucaristica, e delineare in conseguenza l’immagine di quella «terra nuova» (2Pt 3,13) che nasce dall’eucaristia attraverso ogni «uomo nuovo» (Col 3,10). Effettivamente in questo sacramento del pane e del vino, del cibo e della bevanda, tutto ciò che è umano subisce una singolare trasformazione ed elevazione. Il culto eucaristico non è tanto culto dell’inaccessibile trascendenza, quanto culto della divina condiscendenza, ed è anche misericordiosa e redentrice trasformazione del mondo nel cuore dell’uomo.


Ricordando tutto ciò soltanto brevemente, desidero, nonostante la concisione, creare un più ampio contesto per le questioni che in seguito dovrò trattare: esse sono strettamente legate alla celebrazione del santissimo sacrificio. Infatti in questa celebrazione si esprime in modo più diretto il culto dell’eucaristia. Esso emana dal cuore come preziosissimo omaggio ispirato dalla fede, dalla speranza e dalla carità, infuse in noi nel battesimo. E proprio di ciò a voi, venerati e cari fratelli nell’episcopato e, con voi, ai sacerdoti e ai diaconi, desidero scrivere soprattutto in questa lettera, a cui la Sacra Congregazione per i sacramenti e il culto divino farà seguire indicazioni particolareggiate.



SACRALITA’ DELL’EUCARISTIA E SACRIFICIO


Sacralità


8. La celebrazione dell’Eucaristia, cominciando dal cenacolo e dal Giovedì Santo, ha una sua lunga storia, lunga quanto la storia della Chiesa. Nel corso di questa storia gli elementi secondari hanno subito certi cambiamenti, tuttavia è rimasta immutata l’essenza del «mysterium», istituito dal Redentore del mondo, durante l’ultima cena. Anche il Concilio Vaticano II ha apportato alcune modificazioni, in seguito alle quali l’attuale liturgia della messa si differenzia, in qualche modo, da quella conosciuta prima del Concilio. Di queste differenze non intendiamo parlare: per ora conviene fermarsi su quanto è essenziale ed immutabile nella liturgia eucaristica.


Con questo elemento è strettamente legato il carattere di «sacrum» dell’eucaristia, cioè di azione santa e sacra. Santa e sacra, perché in essa è continuamente presente ed agisce il Cristo, «il Santo» di Dio (Lc 1,35; Gv 6,69; At 3,14; Ap 3,7), «unto dallo Spirito Santo» (At 10,38; Lc 4,18), «consacrato dal Padre» (Gv 10, 36), per dare liberamente e riprendere la sua vita (cfr. Gv 10,17), «sommmo sacerdote della nuova alleanza» (Eb 3,1; 4,15; ecc…). E’ lui, infatti, che, rappresentato dal celebrante, fa il suo ingresso nel santuario ed annunzia il suo Vangelo. E’ Lui che «è l’offerente e l’offerto, il consacratore e il consacrato» (Ut Byzantina liturgia saeculi IX predicabat secundum omnium vetustissimum codicem, olim «Barberino di san Marco» appellatum (Florentiae, nunc in Bibliotheca Apostolica Vaticana asservatum, «Barberini greco» 336, f.8 vers., lin. 17-20, vulgatum in hac parte a F.E.Brightman, «Liturgies Eastern and Western», I. «Eastern Liturgies», Oxford 1896, p. 318,34-35). Azione santa e sacra, perché è costitutiva delle sacre specie, del «sancta sanctis» – cioè delle cose sante, Cristo il Santo, date ai santi – come cantano tutte le liturgie d’oriente al momento in cui si innalza il pane eucaristico per invitare i fedeli alla cena del Signore.


Il «sacrum» della messa non è dunque una «sacralizzazione», cioè una aggiunta dell’uomo all’azione di Cristo nel cenacolo, giacché la cena del Giovedì Santo è stata un rito sacro, liturgia primaria e costitutiva, con cui Cristo, impegnandosi a dare la vita per noi, ha celebrato sacramentalmente, egli stesso, il mistero della sua passione e risurrezione, cuore di ogni messa. Derivando da questa liturgia, le nostre messe rivestono di per sé una forma liturgica completa, che, pur diversificata a seconda delle famiglie rituali, rimane sostanzialmente identica. Il «sacrum» della messa è una sacralità istituita da lui. Le parole e l’azione di ogni sacerdote, alle quali corrisponde la partecipazione cosciente e attiva di tutta l’assemblea eucaristica, fanno eco a quelle del Giovedì Santo.


Il sacerdote offre il santissimo sacrificio «in persona Christi», il che vuol dire di più che «a nome», oppure «nelle veci» di Cristo. «In persona»: cioè nella specifica, sacramentale identificazione col «sommo ed eterno sacerdote» («Collecta Missae Votivae de Ss.Eucharistia, B»: «Missale Romanum»), che è l’autore e il principale soggetto di questo suo proprio sacrificio, nel quale in verità non può essere sostituito da nessuno. Solo lui – solo Cristo – poteva e sempre può essere vera ed effettiva «propitiatio pro peccatis nostris… sed etiam totius mundi» (1Gv 2,2; cfr. 1Gv 4,10). Solo il suo sacrificio – e nessun altro – poteva e può avere «vim propitiatoriam» davanti a Dio, alla Trinità, alla sua trascendente santità. La presa di coscienza di questa realtà getta una certa luce sul carattere e sul significato del sacerdote-celebrante che, compiendo il santissimo sacrificio e agendo «in persona Christi», viene, in modo sacramentale e insieme ineffabile, introdotto ed inserito in quello strettissimo «sacrum», nel quale egli a sua volta associa spiritualmente tutti i partecipanti all’assemblea eucaristica.


Quel «sacrum» attuato in forme liturgiche varie, può mancare di qualche elemento secondario, ma non può in alcun modo essere sprovvisto della sua sacralità e sacramentalità essenziali, poiché volute da Cristo e trasmesse e controllate dalla Chiesa. Quel «sacrum» non può nemmeno essere strumentalizzato per altri fini. Il mistero eucaristico, disgiunto dalla propria natura sacrificale e sacramentale, cessa semplicemente di essere tale. Esso non ammette alcuna imitazione «profana» che diventerebbe assai facilmente (se non addirittura di regola) una profanazione. Bisogna ricordarlo sempre, e forse soprattutto nel nostro tempo, nel quale osserviamo una tendenza a cancellare la distinzione tra «sacrum» e «profanum», data la generale diffusa tendenza (almeno in certi luoghi) alla dissacrazione di ogni cosa.


In tale realtà la Chiesa ha il particolare dovere di assicurare e corroborare il «sacrum» dell’eucaristia. Nella nostra società pluralistica, e spesso anche deliberatamente secolarizzata, la viva fede della comunità cristiana – fede cosciente anche dei propri diritti nei riguardi di tutti coloro che non condividono la stessa fede – garantisce a questo «sacrum» il diritto di cittadinanza. Il dovere di rispettare la fede di ognuno è, nello stesso tempo, correlativo al diritto naturale e civile della libertà di coscienza e di religione.


La sacralità dell’eucaristia ha trovato e trova sempre espressione nella terminologia teologica e liturgica (Dicimus enim «divinum Mysterium», «Sanctissimum» vel «Sacrosanctum», id est excellentissimum modum «Sacri» et «Sancti» proferimus. Orientales contra Ecclesiae nuncupant Missam «raza» sive «mystérion», «hagiasmós», «quddasa». «qedasse», scilicet praestantissimam formam «consecrationis». Ritusinsuper liturgiciaccedunt qui ad sacri excitandum sensum postulant ut sileatur, sttur, genua flectantur, ut fidei professio paragtur, ut incenso suffiantur Evangelium, ara, celebrans et ipsae Species sacrae. Immo vero ritus illi in adiutorium arcessunt angelos ad serviendum Deo Sancto creatos: in Ecclesiis nostris Latinis acclamatione «Sanctus», atque in Liturgiis Orientis acclamatione «Trisagion» et «Sancta sanctis». Questo senso dell’oggettiva sacralità del mistero eucaristico è talmente costitutivo della fede del Popolo di Dio, che essa se n’è arricchita e irrobustita (Verbi causa in ipsa invitatione ad communionem hac fide in lumine ponuntur additicii aspectus praesentiae Christi Sancti: aspectus epiphaniae expressus a Byzantinis («Benedicts qui venit in nomine Domini: Dominus est Deus et apparuit nobis!»: «La divina Liturgia del santo nostro Padre Giovanni Crisostomo», Roma-Grottaferrata 1967, pp. 136ss); aspectus societatis et unitatis, decantatus ab Armenis («Unus Pater sanctus nobiscum, unus Filius sanctus nobiscum, unus Spiritus sanctus nobiscum»: «Die Anaphora des Heiligen Ignatius von Antiochien», übersetzt von A.Rücker, «Oriens Christianus», 3· ser., 5 [1930], p. 76); aspectus abditus et caelestis paredicatus a Chaldaeis ac Malabarensibus (cfr. «Hymnus antiphonarius», post communionem cantatus a sacerdote et fidelibus: F.E.Brightman, «Liturgies Eastern and Western», Oxford 1896, p. 299). I ministri dell’eucaristia debbono, pertanto, soprattutto ai nostri giorni, essere illuminati dalla pienezza di questa fede viva, e alla luce di essa debbono comprendere e compiere tutto ciò che fa parte del loro ministero sacerdotale, per volere di Cristo e della sua Chiesa.


Sacrificio


9. L’eucaristia è soprattutto un sacrificio: sacrificio della redenzione e, al tempo stesso, sacrificio della nuova alleanza (cfr. «Sacrosanctum Concilium», 2 et 47; «Lumen Gentium», 3 et 28; «Unitatis Redintegratio», 2; «Presbyterorum Ordinis», 13; Concilii Triden. Sessio XXII, capp. I et II: «Conciliorum Oecumenicorum Decreta», Bononiae 19733, pp. 732ss, praesertim: «una aedemque est hostia, idem nunc offerens sacerdotum ministerio, qui se ipsum tunc in cruce obtulit, sola offerendi ratione diversa» Concilii Triden. Sessio XXII, capp. I et II: «Conciliorum Oecumenicorum Decreta», Bononiae 19733, p. 733), come crediamo e come chiaramente professano le Chiese d’oriente: «Il sacrificio odierno – ha affermato, secoli fa, la Chiesa greca – è come quello che un giorno offrì l’unigenito incarnato Verbo, viene da lui (oggi come allora) offerto, essendo l’identico e unico sacrificio» (Synodi Costantinopolitanae «Adversus Sotericum» (mensibus Ianuario 1156 et Maio 1157): Angelo Mai «Spicilegium romanum», t. X, Romae 1844, p. 77: PG 140,190; cfr. Martin Jugie «Dict. Théol. Cath.», t. X, 1338; «Theologia dogmatica christianorum orientalium», Paris 1930, pp. 317-320). Perciò, e proprio col rendere presente quest’unico sacrificio della nostra salvezza, l’uomo e il mondo vengono restituiti a Dio per mezzo della novità pasquale della redenzione. Questa restituzione non può venire meno: è fondamento della «nuova ed eterna alleanza» di Dio con l’uomo e dell’uomo con Dio. Se venisse a mancare si dovrebbe mettere in causa sia l’eccellenza del sacrificio della redenzione, che pure fu perfetto e definitivo, sia il valore sacrificale della santa messa. Pertanto l’eucaristia, essendo vero sacrificio, opera questa restituzione a Dio.


Ne consegue che il celebrante è, come ministro di quel sacrificio, l’autentico sacerdote, operante – in virtù del potere specifico della sacra ordinazione – l’atto sacrificale che riporta gli esseri a Dio. Tutti coloro invece che partecipano all’eucaristia, senza sacrificare come lui, offrono con lui, in virtù del sacerdozio comune, i loro propri sacrifici spirituali, rappresentati dal pane e dal vino, sin dal momento della loro presentazione all’altare. Questo atto liturgico, infatti, solennizzato da quasi tutte le liturgie, «ha il suo valore e il suo significato spirituale» («Institutio Generalis Missalis Romani», 49; «Missale Romanum»; cfr. «Presbyterorum Ordinis», 5). Il pane e il vino diventano, in certo senso, simbolo di tutto ciò che l’assemblea eucaristica porta, da sé, in offerta a Dio, e offre in spirito.


E’ importante che questo primo momento della liturgia eucaristica, nel senso stretto, trovi la sua espressione nel comportamento dei partecipanti. A ciò corrisponde la cosiddetta processione con i doni, prevista dalla recente riforma liturgica («Ordo Missae cum populo», 18: «Missale Romanum») e accompagnata, secondo l’antica tradizione, da un salmo o un canto. E’ necessario un certo spazio di tempo, affinché tutti possano prendere coscienza di quell’atto, espresso contemporaneamente dalle parole del celebrante.


La consapevolezza dell’atto di presentare le offerte dovrebbe essere mantenuta durante tutta la messa. Anzi deve essere portata a pienezza al momento della consacrazione e dell’oblazione anamnetica, come esige il valore fondamentale del momento del sacrificio. A dimostrare ciò servono le parole della preghiera eucaristica che il sacerdote pronunzia ad alta voce. Sembra utile riprendere qui alcune espressioni della terza preghiera eucaristica, che manifestano particolarmente il carattere sacrificale dell’eucaristia e congiungono l’offerta delle nostre persone a quella di Cristo: «Guarda con amore e riconosci nell’offerta della tua Chiesa la vittima immolata per la nostra redenzione; e a noi, che ci nutriamo del corpo e sangue del tuo Figlio, dona la pienezza dello Spirito Santo, perché diventiamo in Cristo un solo corpo e un solo spirito. Egli faccia di noi un sacrificio perenne a te gradito».


Questo valore sacrificale viene già espresso in ogni celebrazione dalle parole con cui il sacerdote conclude la presentazione dei doni nel chiedere ai fedeli di pregare affinché «il mio e vostro sacrificio sia gradito a Dio Padre Onnipotente». Tali parole hanno un valore impegnativo in quanto esprimono il carattere di tutta la liturgia eucaristica e la pienezza del suo contenuto sia divino che ecclesiale.


Tutti coloro che partecipano con fede all’eucaristia si rendono conto che essa è «sacrificium», cioé un’«offerta consacrata». Infatti il pane e il vino, presenti all’altare e accompagnati dalla devozione e dai sacrifici spirituali dei partecipanti, sono finalmente consacrati, sì che diventano veramente, realmente e sostanzialmente il corpo dato e il sangue sparso di Cristo stesso. Così, in virtù della consacrazione, le specie del pane e del vino, ripresentano (cfr. Concilii Trid. Sessio XXII, cap. 1: «Conciliorum Oecumenicorum Decreta», Bononiae 19733, pp. 732ss), in modo sacramentale e incruento, il sacrificio cruento propiziatorio offerto da lui in croce al Padre per la salvezza del mondo. Egli solo, infatti, donandosi come vittima propiziatrice in atto di suprema dedizione e immolazione, ha riconciliato l’umanità con il Padre, unicamente mediante il suo sacrificio, «annullando il documento scritto del nostro debito» (Col 2,14).


A tale sacrificio sacramentale, quindi, le offerte del pane e del vino, unite alla devozione dei fedeli, portano un loro insostituibile contributo, poiché, con la consacrazione del sacerdote, diventano le sacre specie. Ciò si fa palese nel comportamento del sacerdote durante la preghiera eucaristica, soprattutto durante la consacrazione e poi quando la celebrazione del santo sacrificio e la partecipazione ad esso sono accompagnate dalla consapevolezza che «il maestro è qui e ti chiama» (Gv 11,28). Questa chiamata del Signore, a noi rivolta mediante il suo sacrificio, apre i cuori, affinché – purificati nel mistero della nostra redenzione – si uniscano a lui nella comunione eucaristica, che conferisce alla partecipazione della messa un valore maturo, pieno, impegnativo dell’umana esistenza: «La Chiesa desidera che i fedeli non solo offrano la vittima immacolata, ma sappiano offrire anche se stessi e così perfezionino ogni giorno di più, per mezzo di Cristo mediatore, la loro unione con Dio e con i fratelli, perché finalmente Dio sia tutto in tutti» («Institutio Generalis Messalis Romani», 55f: «Missale Romanum»).


E’ pertanto necessario e conveniente che si continui a mettere in atto una nuova, intensa educazione per scoprire tutte le ricchezze che la nuova liturgia racchiude in sé. Infatti il rinnovamento liturgico avvenuto dopo il Concilio Vaticano II ha dato al sacrifcio eucaristico una, per così dire, maggiore visibilità. Tra l’altro, vi contribuiscono le parole della preghiera eucaristica recitate dal celebrante ad alta voce e, in particolare, le parole della consacrazione con l’acclamazione dell’assemblea immediatamente dopo l’elevazione.


Se tutto ciò deve riempirci di gioia, dobbiamo anche ricordare che questi cambiamenti esigono una nuova coscienza e maturità spirituale, sia da parte del celebrante – soprattutto oggi che celebra «rivolto al popolo» – sia da parte dei fedeli. Il culto eucaristico matura e cresce quando le parole della preghiera eucaristica, e specialmente quelle della consacrazione, sono pronunziate con grande umiltà e semplicità, in modo comprensibile, corrispondente alla loro santità, bello e degno; quando quest’atto essenziale della liturgia eucaristica è compiuto senza fretta; quando ci impegna a un tale raccoglimento e a una tale devozione, che i partecipanti avvertono la grandezza del mistero che si compie e lo manifestano col loro comportamento.



LE DUE MENSE DEL SIGNORE E IL BENE COMUNE DELLA CHIESA


Mensa della parola di Dio


10. Sappiamo bene che la celebrazione dell’eucaristia è stata unita, dai tempi più antichi, non soltanto alla preghiera, ma anche alla lettura della Sacra Scrittura, e al canto di tutta l’assemblea. Grazie a ciò è stato possibile, da molto tempo, riferire alla messa il paragone fatto dai Padri con le due mense, sulle quali la Chiesa imbandisce per i suoi figli la parola di Dio e l’eucaristia, cioè il pane del Signore. Dobbiamo quindi ritornare alla prima parte del sacro mistero che, il più spesso, al presente viene chiamata liturgia della parola, e dedicarle un po’ di attenzione.


La lettura dei brani della Sacra Scrittura, scelti per ogni giorno, è stata sottoposta dal Concilio a criteri e ad esigenze nuove (cfr. «Sacrosanctum Concilium», 35,1 et 51). In seguito a tali norme conciliari si è avuta una nuova raccolta di letture, nelle quali è stato applicato, in certa misura, il principio della continuità dei testi, ed anche il principio di rendere accessibile l’insieme dei libri sacri. L’introduzione dei salmi con i responsori nella liturgia rende familiare ai partecipanti la più bella risorsa della preghiera e della poesia dell’Antico Testamento. Il fatto, poi, che i relativi testi siano letti e cantati nella propria lingua, fa sì che tutti possano partecipare con più piena comprensione.


Non mancano tuttavia pure coloro che, educati ancora in base all’antica liturgia in latino, risentono la mancanza di questa «lingua una», che in tutto il mondo è stata anche un’espressione dell’unità della Chiesa, e, mediante il suo carattere dignitoso, ha suscitato un senso profondo del mistero eucaristico. Bisogna quindi dimostrare non soltanto comprensione, ma anche rispetto verso questi sentimenti e desideri, e, in quanto possibile, andare loro incontro, come, del resto, è previsto nelle nuove disposizioni (cfr. Sacrae Rituum Congregationis «In edicendis normis», VI, 17-18; VII, 19-20: AAS 57 [1965] 1012ss; «Musicam Sacram», IV, 48: AAS 59 [1967] 314; «De titulo Basilicae Minoris», II, 8: AAS 60 [1968] 538; Sacrae Congregationis Pro Cultu Divino «De Missali Romano, Liturgia Horarum et Calendario», I, 4: AAS 63 [1971] 714). La Chiesa romana ha particolari obblighi verso il latino, la splendida lingua di Roma antica, e deve manifestarli ogni qualvolta se ne presenti l’occasione.


Le possibilità introdotte dal rinnovamento postconciliare vengono spesso utilizzate in modo da renderci testimoni e partecipi dell’autentica celebrazione della parola di Dio. Aumenta anche il numero di persone le quali prendono parte attiva a questa celebrazione. Sorgono gruppi di lettori e di cantori, più spesso ancora «scholae cantorum», maschili e femminili, che con grande zelo si dedicano a tale aspetto. La parola di Dio, la Sacra Scrittura, comincia a pulsare di nuova vita in molte comunità cristiane. I fedeli, radunati per la liturgia, si preparano col canto all’ascolto del Vangelo, che viene annunziato con la devozione e l’amore ad esso dovuti.


Costatando tutto ciò con grande stima e gratitudine, non si può, tuttavia, dimenticare che un pieno rinnovamento pone ancor sempre altre esigenze. Queste consistono in una nuova responsabilità verso la parola di Dio trasmessa mediante la liturgia, in lingue diverse, e ciò corrisponde certamente al carattere universale e alle finalità del Vangelo. La stessa responsabilità riguarda anche l’esecuzione delle relative azioni liturgiche, la lettura o il canto, il che deve rispondere anche ai principi dell’arte. Per preservare queste azioni da qualsiasi artificiosità, bisogna esprimere in esse una capacità, una semplicità e al tempo stesso una dignità tali, da far risplendere, fin dal modo stesso di leggere o di cantare, il carattere peculiare del testo sacro.


Pertanto, queste esigenze, che scaturiscono dalla nuova responsabilità verso la parola di Dio nella liturgia (cfr. Pauli VI «Missale Romanum»: «Hisce ita compositis, illud etiam vehementer fore confidimus, ut sacerdotes et fideles simul sanctius animum suum ad Cenam Domini praeparent, simul, sacras Scripturas altius meditati, verbis Domini uberius in dies alantur»: AAS 61 [1969] 220ss), arrivano ancor più nel profondo e toccano la disposizione interiore con la quale i ministri della parola compiono la loro funzione nell’assemblea liturgica (cfr. «Pontificale Romanum», «De Institutione Lectorum et Accolythorum», 4). La stessa responsabilità riguarda infine la scelta dei testi. Tale scelta è stata già fatta dalla competente autorità ecclesiastica, che ha previsto anche i casi in cui si possono scegliere letture più adatte a una particolare situazione (cfr. «Institutio Generalis Missalis Romani», 319-320: «Missale Romanum»). Inoltre, bisogna sempre ricordare che nel quadro dei testi delle letture della messa può entrare soltanto la parola di Dio. La lettura della Scrittura non può essere sostituita dalla lettura di altri testi, anche qualora possedessero indubbi valori religiosi e morali. Tali testi potranno invece essere utilizzati, con grande profitto, nelle omelie. Effettivamente, l’omelia è massimamente idonea all’utilizzazione di questi testi, purché rispondano alle richieste condizioni di contenuto, in quanto spetta alla natura dell’omelia, tra l’altro, dimostrare le convergenze tra sapienza divina rivelata e il nobile pensiero umano, che per varie strade cerca la verità.


Mensa del pane del Signore


11. La seconda mensa del mistero eucaristico, cioè la mensa del pane del Signore, esige anch’essa un’apposita riflessione dal punto di vista del rinnovamento liturgico odierno. E’ questo un problema della massima importanza, trattandosi di un atto particolare di fede viva, anzi, come si attesta sin dai primi secoli (cfr. Fr. J. Dölger «Das Segnen der Sinne mit der Eucharistie. Eine altchristliche Kommunionsitte: Antike und Christentum, t. 3 [1932] 231-244; «Das Kultvergehen der Donatistin Lucilla von Karthago. Reliquienkuss vor dem Kuss der Eucharistie», t. 3 [1932] 245-252), di una manifestazione di culto a Cristo che nella comunione eucaristica affida se stesso a ciascuno di noi, al nostro cuore, alla nostra coscienza, alle nostre labbra e alla nostra bocca, in forma di cibo. E perciò, in rapporto a questo problema, è particolarmente necessaria la vigilanza di cui parla il Vangelo, sia da parte dei pastori responsabili del culto eucaristico, sia da parte del Popolo di Dio, il cui «senso della fede» (cfr. «Lumen Gentium», 12. 35) deve essere proprio qui molto avvertito e acuto.


Desidero perciò affidare anche questo problema al cuore di ognuno di voi, venerati e cari fratelli nell’episcopato. Voi dovete soprattutto inserirlo nella vostra sollecitudine per tutte le Chiese, a voi affidate. Ve lo chiedo in nome di quell’unità che abbiamo ricevuto in eredità dagli apostoli: l’unità collegiale. Quest’unità è nata in certo senso, alla mensa del pane del Signore, il Giovedì Santo. Con l’aiuto dei vostri fratelli nel sacerdozio fate tutto ciò di cui siete capaci, per garantire la dignità sacrale del ministero eucaristico e quel profondo spirito della comunione eucaristica, che è un bene peculiare della Chiesa come Popolo di Dio, e insieme la particolare eredità trasmessaci dagli apostoli, da varie tradizioni liturgiche e da tante generazioni di fedeli, spesso eroici testimoni di Cristo educati alla «scuola della croce» (redenzione) e dell’eucaristia.


Bisogna quindi ricordare che l’eucaristia, quale mensa del pane del Signore, è un continuo invito, come risulta dall’accenno liturgico del celebrante al momento dell’«ecce Agnus Dei! Beati qui ad cenam Agni vocati sunt» (Gv 1,29; Ap 19,9) e dalla nota parabola del Vangelo sugli invitati al banchetto di nozze (cfr. Lc 14,16ss). Ricordiamo che in questa parabola ci sono molti che si scusano dall’accogliere l’invito a motivo di circostanze diverse.


Certamente anche nelle nostre comunità cattoliche non mancano coloro che potrebbero partecipare alla comunione eucaristica e non vi partecipano, pur non avendo nella propria coscienza impedimento di peccato grave. Tale atteggiamento, che in alcuni è legato ad una esagerata severità, si è cambiato, a dire il vero, nel nostro secolo, anche se qua e là ancora si fa sentire. In realtà, più spesso del senso di indegnità, si riscontra una certa mancanza di disponibilità interiore – se ci si può esprimere così – mancanza di «fame» e di «sete» eucaristica, dietro la quale si nasconde anche la mancanza di un’adeguata sensibilità e comprensione della natura del grande sacramento dell’amore.


Tuttavia, in questi ultimi anni, assistiamo anche ad un altro fenomeno. Alcune volte, anzi in casi abbastanza numerosi, tutti i partecipanti all’assemblea eucaristica si accostano alla comunione, ma talora, come confermano pastori esperti, non c’è stata la doverosa preoccupazione di accostarsi al sacramento della penitenza per purificare la propria coscienza. Questo può naturalmente significare che coloro i quali si accostano alla mensa del Signore non trovino, nella loro coscienza e secondo la legge oggettiva di Dio, nulla che impedisca quel sublime e gioioso atto della loro unione sacramentale con Cristo. Ma può anche nascondersi, qui, almeno talvolta, un’altra convinzione: e cioè il considerare la messa soltanto come un banchetto (cfr. «Institutio Generalis Missalis Romani», 7-8: «Missale Romanum»), al quale si partecipa ricevendo il corpo di Cristo, per manifestare soprattutto la comunione fraterna. A questi motivi si possono aggiungere facilmente una certa considerazione umana e un semplice «conformismo».


Questo fenomeno esige, da parte nostra, una vigile attenzione ed un’analisi teologica e pastorale, guidata dal senso di una massima responsabilità. Non possiamo permettere che nella vita delle nostre comunità vada disperso quel bene che è la sensibilità della coscienza cristiana, diretta unicamente dal riguardo a Cristo che, ricevuto nell’eucaristia, deve trovare nel cuore di ognuno di noi una degna dimora. Questo problema è strettamente legato non soltanto alla pratica del sacramento della penitenza, ma anche al retto senso di responsabilità di fronte al deposito di tutta la dottrina morale e di fronte alla distinzione precisa tra bene e male, la quale diventa in seguito, per ognuno dei partecipanti all’eucaristia, base di corretto giudizio di se stessi nell’intimo della propria coscienza. Sono ben note le parole di san Paolo: «Probet autem se ipsum homo» (1Cor 11,28); tale giudizio è condizione indispensabile per una decisione personale, al fine di accostarsi alla comunione eucaristica oppure di astenersene.


La celebrazione dell’eucaristia ci pone davanti molte altre esigenze, per quanto concerne il ministero della mensa eucaristica, che si riferiscono, in parte, sia ai soli sacerdoti e diaconi, sia a tutti coloro che partecipano alla liturgia eucaristica. Ai sacerdoti e ai diaconi è necessario ricordare che il servizio della mensa del pane del Signore impone loro obblighi particolari, che si riferiscono, in primo luogo, allo stesso Cristo presente nell’eucaristia e poi a tutti gli attuali e potenziali partecipanti all’eucaristia. Riguardo ai primi, non sarà forse superfluo ricordare le parole del pontificale che nel giorno dell’ordinazione il Vescovo rivolge al nuovo sacerdote, mentre gli affida sulla patena e nel calice il pane e il vino offerti dai fedeli e preparati dal diacono: «Ricevi le offerte del popolo santo per il sacrificio eucaristico. Renditi conto di ciò che farai, vivi il mistero che è posto nelle tue mani, e sii imitatore del Cristo immolato per noi» («Pontificale Romanum», «De Ordinatione Diaconi, Presbyteri et Episcopi»). Quest’ultima ammonizione fattagli dal Vescovo deve rimanere come una delle norme più care del suo ministero eucaristico.


Ad essa il sacerdote deve ispirare il suo atteggiamento nel trattare il pane e il vino, divenuti corpo e sangue del Redentore. Occorre quindi che noi tutti, che siamo ministri dell’eucaristia, esaminiamo con attenzione le nostre azioni all’altare, in particolare il modo con cui trattiamo quel cibo e quella bevanda, che sono il corpo e il sangue del Signore nostro Dio nelle nostre mani; come distribuiamo la santa comunione; come facciamo la purificazione.


Tutte queste azioni hanno un loro significato. Bisogna naturalmente evitare la scrupolosità, ma Dio ci preservi da un comportamento privo di rispetto, da una fretta inopportuna, da una impazienza scandalosa. Il nostro più grande onore consiste – oltre che nell’impegno della missione evangelizzatrice – nell’esercitare tale misterioso potere sul corpo del Redentore, e tutto in noi deve essere a ciò decisamente ordinato. Dobbiamo, inoltre, ricordare sempre che a questo potere ministeriale siamo stati sacramentalmente consacrati, che siamo stati scelti tra gli uomini e «per il bene degli uomini» (Eb 5,1). Dobbiamo pensarci particolarmente noi sacerdoti della Chiesa romana latina, il cui rito di ordinazione aggiunse, nel corso dei secoli, l’uso di ungere le mani del sacerdote.


In alcuni paesi è entrata in uso la comunione sulla mano. Tale pratica è stata richiesta da singole conferenze episcopali ed ha ottenuto l’approvazione della sede apostolica. Tuttavia, giungono voci su casi di deplorevoli mancanze di rispetto nei confronti dellespecie eucaristiche, mancanze che gravano non soltanto sulle persone colpevoli di tale comportamento, ma anche sui pastori della Chiesa, che fossero stati meno vigilanti sul contegno dei fedeli verso l’eucarestia. Avviene pure che, talora, non è tenuta in conto la libera scelta e volontà di coloro che, anche dove è stata autorizzata la distribuzione della comunione sulla mano, preferiscono attenersi all’uso di riceverla in bocca. E’ difficile quindi, nel contesto dell’attuale lettera, non accennare ai dolorosi fenomeni sopra ricordati. Scrivendo questo non ci si vuole in alcun modo riferire a quelle persone che, ricevendo il Signore Gesù sulla mano, lo fanno con spirito di profonda riverenza e devozione, nei paesi dove questa pratica è stata autorizzata.


Bisogna tuttavia non dimenticare l’ufficio primario dei sacerdoti, che sono stati consacrati nella loro ordinazione a rappresentare Cristo sacerdote: perciò le loro mani, come la loro parola e la loro volontà, sono diventate strumento diretto di Cristo. Per questo, cioè come ministri della santissima eucaristia, essi hanno sulle sacre specie una responsabilità primaria, perché totale: offrono il pane e il vino, li consacrano, e quindi distribuiscono le sacre specie ai partecipanti all’assemblea, che desiderano riceverla. I diaconi possono soltanto portare all’altare le offerte dei fedeli e, una volta consacrate dal sacerdote, distribuirle. Quanto eloquente perciò, anche se non primitivo, è nella nostra ordinazione latina il rito dell’unzione delle mani, come se proprio a queste mani sia necessaria una particolare grazia e forza dello Spirito Santo!


Il toccare le sacre specie, la loro distribuzione con le proprie mani, è un privilegio degli ordinati, che indica una partecipazione attiva al ministero dell’eucaristia. E’ ovvio che la Chiesa può concedere tale facoltà a persone che non sono né sacerdoti né diaconi, come sono sia gli accoliti, nell’esercizio del loro ministero, specialmente se destinati a futura ordinazione, sia altri laici a ciò abilitati per una giusta necessità, e sempre dopo un’adeguata preparazione.


Bene comune della Chiesa


12. Non possiamo, neanche per un attimo, dimenticare che l’eucaristia è un bene peculiare di tutta la Chiesa. E’ il dono più grande che, nell’ordine della grazia e del sacramento, il divino sposo abbia offerto e offra incessantemente alla sua sposa. E proprio perché si tratta di un tale dono, dobbiamo tutti, in spirito di profonda fede, lasciarci guidare dal senso di una responsabilità veramente cristiana. Un dono ci obbliga sempre più profondamente perché ci parla non tanto con la forza di uno stretto diritto, quanto con la forza dell’affidamento personale, e così – senza obblighi legali – esige fiducia e gratitudine. L’eucaristia è proprio tale dono, è tale bene. Dobbiamo rimanere fedeli nei particolari a ciò che essa esprime in sé e a ciò che a noi chiede, cioè il rendimento di grazie.


L’eucaristia è un bene comune di tutta la Chiesa come sacramento della sua unità. E perciò la Chiesa ha il rigoroso dovere di precisare tutto ciò che concerne la partecipazione e la celebrazione di essa. Dobbiamo quindi agire secondo i principi stabiliti dall’ultimo Concilio che, nella costituzione sulla sacra liturgia, ha definito le autorizzazioni e gli obblighi sia dei singoli Vescovi nelle loro diocesi, sia delle conferenze episcopali, dato che gli uni e le altre agiscono in una unità collegiale con la sede apostolica.


Inoltre dobbiamo seguire le ordinanze emanate dai vari dicasteri in questo campo: sia in materia liturgica, nelle regole stabilite dai libri liturgici, in quanto concerne il mistero eucaristico. e nelle istruzioni dedicate al medesimo mistero (cfr. Sacrae Congregationie Rituum «Eucharisticum Mysterium»: AAS 59 [1967] 539-573; «Rituale Romanum», «De sacra communione et de cultu Mysterii eucharistici extra Missam», ed typica 1973; Sacrae Congregationis pro Cultu Divino «Litterae circulares ad Conferentiarum Episcopalium Praesides de precibus eucharistici: AAS 65 [1973] 340-347), sia per quanto riguarda la «communicatio in sacris», nelle norme del «Directorium de re oecumenica» (cfr. «Directorium de re oecumenica», 38-63: AAS 59 [1967] 586-592) e nell’«Instructio de peculiaribus casibus admittendi alios christianos ad communionem eucharisticam in Ecclesia catholica» (cfr. «Instructio de peculiaribus casibus admittendi alios christianos ad communionem eucharisticam in Ecclesia catholica»: AAS 64 [1972] 518-525; cfr. etiam «Communicatio» subsequenti anno evulgata, ut eadem «Instructio recte applicaretur»: AAS 65 [1973] 616-619). E sebbene in questa tappa di rinnovamento sia stata ammessa la possibilità di una certa autonomia «creativa», tuttavia essa deve strettamente rispettare le esigenze dell’unità sostanziale. Sulla via di questo pluralismo (che scaturisce tra l’altro già dall’introduzione delle diverse lingue nella liturgia) possiamo proseguire solo fino a quel punto in cui non siano cancellate le caratteristiche essenziali della celebrazione dell’eucaristia e siano rispettate le norme prescritte dalla recente riforma liturgica.


Occorre compiere dappertutto lo sforzo indispensabile, affinché nel pluralismo del culto eucaristico, programmato dal Concilio Vaticano II, si manifesti l’unita di cui l’eucaristia è segno e causa.


Questo compito sul quale, per forza di cose, deve vigilare la sede apostolica, dovrebbe essere assunto non soltanto dalle singole conferenze episcopali, ma anche da ogni ministro dell’eucaristièe responsabile del bene comune di tutta la Chiesa. Il sacerdote come ministro, come celebrante, come colui che presiede all’assemblea eucaristica dei fedeli, deve avere un particolare senso del bene comune della Chiesa, che egli rappresenta mediante il suo ministero, ma al quale deve essere anche subordinato, secondo una retta disciplina della fede. Egli non può considerarsi come «proprietario», che liberamente disponga del testo liturgico e del sacro rito come di un suo bene peculiare, così da dargli uno stile personale e arbitrario. Questo può talvolta sembrare di maggior effetto, può anche maggiormente corrispondere ad una pietà soggettiva, tuttavia oggettivamente è sempre tradimento di quell’unione che, soprattutto nel sacramento dell’unità, deve trovare la propria espressione.


Ogni sacerdote, che offre il santo sacrificio, deve ricordarsi che durante questo sacrificio non è lui soltanto con la sua comunità a pregare, ma prega tutta la Chiesa, esprimendo così, anche con l’uso del testo liturgico approvato, la sua unità spirituale in questo sacramento. Se qualcuno volesse chiamare tale posizione «uniformismo», ciò comproverebbe soltanto l’ignoranza delle obiettive esigenze della unità autentica e sarebbe un sintomo di dannoso individualismo.


Questa subordinazione del ministro, del celebrante, al «mysterium», che gli è stato affidato dalla Chiesa per il bene di tutto il Popolo di Dio, deve trovare la sua espressione anche nell’osservanza delle esigenze liturgiche relative alla celebrazione del santo sacrificio. Queste esigenze si riferiscono, ad esempio, all’abito e, in particolare, ai paramenti che indossa il celebrante. E’ naturale che vi siano state e vi siano circostanze in cui le prescrizioni non obbligano. Abbiamo letto con commozione, in libri scritti da sacerdoti ex-prigionieri in campi di sterminio, relazioni di celebrazioni eucaristiche senza le suddette regole, e cioè senza altare e senza paramenti. Se però in quelle condizioni ciò era prova di eroismo e doveva suscitare profonda stima, tuttavia, in condizioni normali, trascurare le prescrizioni liturgiche può essere interpretato come mancanza di rispetto verso l’eucaristia, dettata forse da individualismo o da un difetto di senso critico circa opinioni correnti, oppure da una certa mancanza di spirito di fede.


Su noi tutti, che siamo, per grazia di Dio, ministri dell’eucaristia, grava in particolare la responsabilità per le idee e gli atteggiamenti dei nostri fratelli e sorelle, affidati alla nostra cura pastorale. La nostra vocazione è quella di suscitare, anzitutto con l’esempio personale, ogni sana manifestazione di culto verso Cristo presente e operante in quel sacramento d’amore. Dio ci preservi dall’agire diversamente, dall’indebolire quel culto, «disabituandoci» da varie manifestazioni e forme di culto eucaristico, in cui si esprime forse una «tradizionale» ma sana pietà, e soprattutto quel «senso della fede», che tutto il Popolo di Dio possiede, come ha ricordato il Concilio Vaticano II (cfr. «Lumen Gentium», 12).


Conducendo ormai a termine queste mie considerazioni, vorrei chiedere perdono – in nome mio e di tutti voi, venerati e cari fratelli nell’episcopato – per tutto ciò che per qualsiasi motivo, e per qualsiasi umana debolezza, impazienza, negligenza, in seguito anche all’applicazione talora parziale, unilaterale, erronea delle prescrizioni del Concilio Vaticano II, possa aver suscitato scandalo e disagio circa l’interpretazione della dottrina e la venerazione dovuta a questo grande sacramento. E prego il Signore Gesù perché nel futuro sia evitato, nel nostro modo di trattare questo sacro mistero, ciò che può affievolire o disorientare in qualsiasi maniera il senso di riverenza e di amore nei nostri fedeli.


Che Cristo stesso ci aiuti a proseguire per le vie del vero rinnovamento verso quella sapienza di vita e di culto eucaristico, per il cui mezzo si costruisce la Chiesa in quell’unità che essa già possiede e che desidera ancor più realizzare per la gloria del Dio vivente e per la salvezza di tutti gli uomini.



CONCLUSIONE


13. Consentite, venerabili e cari fratelli, che termini ormai queste mie riflessioni, che si sono limitate ad approfondire soltanto alcune questioni. Nell’intraprenderle, ho avuto davanti agli occhi tutta l’opera svolta dal Concilio Vaticano II, e ho tenuto ben presenti alla memoria l’enciclica di Paolo VI «Mysterium Fidei», promulgata durante quel Concilio, nonché tutti i documenti emanati dopo il Concilio medesimo al fine di mettere in atto il rinnovamento liturgico post-conciliare. Esiste infatti un legame strettissimo e organico tra il rinnovamento della liturgia e il rinnovamento di tutta la vita della Chiesa.


La Chiesa non solo agisce, ma anche si esprime nella liturgia, vive della liturgia e at

La cena del Signore

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NICOLA TORNESE

 LA CENA DEL SIGNORE

OPUSCOLO   N° 18 della PICCOLA COLLANA “I TESTIMONI DI GEOVA”

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