LAMENTAZIONE SUI TEMPI PRESENTI

Cardinale Giacomo Biffi


LAMENTAZIONE SUI TEMPI PRESENTI


(da La bella, la bestia e il cavaliere, Jaca Book, Milano 1984)


Spiegazione del sottotitolo: “Il paese è pieno di idoli; adorano l’opera delle proprie mani” (Is 2,8).

“Saggio di teologia inattuale”: anche il sottotitolo di questo libro esige una spiegazione. Rivendicare apertamente la qualifica di “inattuale” può sembrare, in un tempo che ci vede presi un po’ tutti dal culto ossessivo dell’attualità, una provocazione o quanto meno una civetteria. L’osservazione pare anche a me abbastanza fondata; non ho neppure il coraggio di affermare che il biasimo, che vi è implicito, non sia pertinente: alla mia età e col mestiere che faccio dovrei essere più posato, meno fastidioso, più ossequiente alle idee comuni


In attesa del mio ravvedimento vorrei qui tentare di chiarire, a chi avesse la pazienza di ascoltare, quanto di serio sia contenuto, almeno secondo l’intenzione dell’autore, in un’epigrafe che parrebbe dettata solo dal gusto di contrapporsi.


Significati della “inattualità”


Questa vantata “inattualità” vorrebbe avere più di un significato.


Esprime primariamente la convinzione che, se si desidera parlare efficacemente all’uomo, e non all’effimero involucro che lo racchiude, bisogna parlare all’uomo in quanto uomo; e dunque, se si vuol raggiungere l’uomo di oggi, ci si deve indirizzate all’uomo di sempre. I discorsi fatti programmaticamente agli “uomini del nostro tempo”, proprio in quanto sono “del nostro tempo”, non oltrepassano la buccia e non toccano la sostanza vera dell’uomo.


Poi c’è il timore, sia pure poco giustificato, di essere annoverato da qualcuno un po’ distratto tra i teologi contemporanei. E’ una classificazione che sento di non meritare. E non solo perché sarebbe un indebito onore, ma anche perché nella repubblica teologica da diversi anni circolano molti coi quali mi dispiacerebbe essere confuso.


E’ vero che ci sono anche pensatori eccellenti, davvero degni della qualifica di “teologi”, che contribuiscono seriamente allo sviluppo dell’intelligenza della fede; e la proclamata “inattualità” potrebbe indurre a credere che io voglia prendere le distanze anche da loro. Ma questo tutto sommato è un inconveniente meno grave di quello di essere in qualche modo associato e magari reputato connivente con gli spensierati ricercatori di novità.


In terzo luogo il sottotitolo si propone di notificare con. tutta la chiarezza che mi è consentita il mio dissenso nei confronti di quella che potremmo chiamare “ideologia postconciliare”, presente e attiva ormai in tutta la cristianità con varia intensità e diseguale virulenza.


L’ideologia postconciliare


Essa deriva sì storicamente dal Vaticano II e dal suo magistero, ma attraverso un processo di “distillazione fraudolenta” immediatamente posto in atto all’indomani dell’assise ecumenica.


L’operazione potrebbe schematicamente essere descritta così:
la prima fase sta nella lettura discriminatoria dei passi conciliari, che distingue tra quelli accolti e citabili, e quelli da passare sotto silenzio;
nella seconda fase si riconosce come vero insegnamento del concilio non quello effettivamente formulato, ma quello che la santa assemblea ci avrebbe dato se non fosse stata afflitta dalla presenza di molti padri retrogradi e insensibili al soffio dello Spirito;
con la terza fase si arriva a dire che la vera dottrina del concilio non è quella di fatto canonicamente approvata ma quella che avrebbe dovuto essere approvata se i padri fossero stati più illuminati, più coraggiosi, più coerenti.


Con un metodo esegetico siffatto – non enunciato mai in modo esplicito, ma non per questo meno implacabilmente applicato – è facile immaginare i risultati.


I quali, per quanto remoti siano dalla verità cattolica, vengono sempre messi in conto al Vaticano II; e chi si azzarda anche timidamente a dissentire è segnato col marchio infamante di “preconciliare”, quando non è addirittura classificato coi tradizionalisti ribelli o con gli esecrati integralisti.


E poiché tra i “distillati di frodo” dal Vaticano II c’è anche il principio che nessun errore può essere condannato nella Chiesa a meno di peccare contro il dovere della comprensione e del dialogo, nessuno osa più denunciare con vigore e con tenacia i veleni che stanno progressivamente intossicando il popolo di Dio.


Concilio e “postconcilio”


Credo che il lavoro preliminare da compiere sia di distinguere accuratamente il concilio dal “postconcilio”, in modo che si possa accogliere il primo con totale cordialità e valutare il secondo alla luce del primo e di tutto l’insegnamento rivelato con animo libero da qualunque intimidazione e da qualunque ricatto culturale.


Questa distinzione non deve turbare un cuore credente. Chi alla luce della fede riflette sulla storia della salvezza, sa benissimo che nella nostra vicenda come non c’è evento nefasto dal quale Dio non ricavi qualche bene per i suoi figli, così non c’è divino capolavoro che il demonio non tenti di tramutare per qualche aspetto in occasione di malessere e di rovina. Il che vale anche per il Vaticano II, opera senza dubbio provvidenziale e supernamente ispirata.


Gli “idoli” postconciliari


Propiziati dal “postconcilio”, nella coscienza della cristianità contemporanea si celano, come nella sella del cammello di Rachele (Gn 31,19.34), molti svariati idoletti. Non tentiamo di ricordarli tutti ovviamente; ci limitiamo a segnalare quelli che più vistosamente influenzano tanto la ricerca teoretica quanto l’attività pastorale.


1. La “antropolatria”


Nei primi decenni del secolo XIX Feuerbach affermava che “il segreto della teologia è l’antropologia” e vagheggiava l’avvento di una teologia di nuovo genere, contrassegnata dal fatto “che essa pone nell’al di qua l’essere divino che la teologia comune, per paura e incomprensione, pone nell’al di là“.


Viene da pensare che il pensatore tedesco, sia pure anonimamente, abbia fatto scuola presso molti cattolici della seconda metà del secolo XX e che la sua aberrante intuizione, probabilmente veicolata dalla grande ubriacatura marxista, dopo tanto tempo sia stata tacitamente ricevuta.


L’uomo sembra divenuto l’unico oggetto dei nostri pensieri, dei nostri interessi, della nostra adorazione. E, nel desiderio di coglierlo in se stesso, nella sua autonoma e singolare natura, si è addirittura proposto da qualcuno che anche il credente debba guardare l’uomo “ut si Deus non daretur“, come se Dio non ci fosse, prescindendo cioè dal suo Creatore e valutando soltanto l’umanità come tale, presa a sé e separata da qualunque dipendenza e da qualunque superiore significazione.


Sennonché l’uomo è intrinsecamente e non per un sopraggiunto rivestimento “immagine di Dio” e totale relazione a lui; e dunque escludere Dio sia pur metodologicamente dalla prospettiva sull’uomo vuol dire snaturare l’uomo e non coglierlo nella sua verità.


Se con l’espressione “autonomia delle realtà temporali” si intende che le cose create non dipendono da Dio, che l’uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore, allora tutti quelli che credono in Dio avvertono quanto false siano tali opinioni. La creatura, infatti, senza il Creatore svanisce. Del resto tutti coloro che credono, a qualunque religione appartengano, hanno sempre inteso la voce e la manifestazione di lui nel linguaggio delle creature. Anzi, l’oblio di Dio priva di luce la creatura stessa (Gaudium, et spes, 36).


Si arriva così anzi a una contraddizione esistenziale. Noi siamo “adoratori costituzionali”: privati ideologicamente del vero Dio, rivolgiamo necessariamente altrove i nostri insopprimibili impulsi latreutici e ci poniamo ad adorare le creature, prima di ogni altra l’uomo. D’altra parte, l’uomo avulso dal suo Archetipo e dalla sua Sorgente è così fragile, debole, manipolabile, che, nell’atto stesso in cui crediamo di adorarlo, poniamo le premesse della sua profanazione.


E’ facile rilevare come lo smarrimento del Padre abbia di solito fatalmente condotto sia al culto indebito della personalità e alla venerazione del tiranno sia alla schiavizzazione dei fratelli.


Naturalmente questa “antropolatria” non ha niente a che vedere con l'”antropocentrismo” di chi riconosce nell’uomo “il culmine dell’universo e la suprema bellezza del creato”, colui che detiene “la sovranità su tutti gli esseri viventi”, come dice sant’Ambrogio.


L’antropocentrismo è prerogativa essenziale del disegno divino, in quest’ordine di cose liberamente eletto tra gli infiniti possibili, dal momento che il Padre ha collocato Cristo Gesù, uomo divinamente personalizzato, al centro di tutto e in lui ha chiamato tutti gli uomini a sé, facendoli partecipare, mediante l’inabitazione dello Spirito Santo, prima alla sua natura e poi alla sua stessa gloria. Come si vede, il vero antropocentrismo include nel suo stesso contenuto concettuale il rapporto privilegiato col Padre, col Figlio e con lo Spirito Santo, e non lascia spazio ad alcuna forma di antropolatria.


Antropolatria e antropocentrismo, anche se all’esterno possono presentare qualche somiglianza, nella realtà sono dunque diversi e incompatibili.


L’antropolatria è propria di chi ha “cambiato la gloria dell’incorruttibile Dio con l’immagine e la figura dell’uomo corruttibile” (Rm 1,23); ed è l’approdo obbligato di chi, perdendo di vista l’Autore dell’essere e della vita, ha in sostanza una visione atea del mondo. L’antropocentrismo è proprio di chi onora l’uomo per quello che l’uomo è; esso non insidia affatto il culto del vero Dio, costituisce la predella da cui ci si può lanciare al riconoscimento del Padre.


La cultura antropolatrica dà regolarmente origine a società disumane, nelle quali l’uomo – teoricamente adorato – è di fatto avvilito, reso servo, privato di ogni scopo plausibile dell’esistere. La cultura antropocentrica è un appello intrinseco al Padre e al suo disegno d’amore, senza di che l’uomo non solo non può essere visto come il centro di tutte le cose, ma appare piuttosto un frammento trascurabile di materia alla deriva sul mare dell’insignificanza.


L’esteriore somiglianza può talvolta indurre in equivoci; ma non – c’è dialogo o convivenza possibile tra antropolatria e antropocentrismo, a meno che l’una o l’altra comincino a non essere più nei fatti quello che il loro nome significa in sé.


In realtà la questione della riscoperta del Padre è preliminare a ogni serio discorso su un umanesimo non illusorio.


Una delle citazioni più frequentemente ripetute in questi anni è la splendente frase di Ireneo: “La gloria di Dio è l’uomo vivente“. Se ne coglierebbe meglio la verità, si eviterebbe il pericolo di travisamenti ideologicamente strumentalizzati, si dimostrerebbe maggior rispetto verso il pensiero dell’antico scrittore, se ci si abituasse a riferirla nella sua integrità: “La gloria di Dio é l’uomo vivente; ma la vita dell’uomo sta nella contemplazione di Dio“.


2. La “cronolatria”


Il secondo idolo è stato indicato da J. Maritain, quando ha parlato di “cronolatria” o “adorazione dell’attualità”. La lucidità della denuncia del pensatore francese non ha però impedito che questo “culto” si estendesse e si affermasse sempre più nella cristianità, al punto da essere ormai un’abitudine mentale acquisita che neppure sente più il bisogno di giustificarsi.


Senza affermarsi mai espressamente, essa trapela in modo spesso involontario e quindi tanto più significativo dal linguaggio d’uso corrente, nel quale l’aggettivazione del biasimo teorico non è: falso, errato, illogico, cattivo, aberrante; ma piuttosto: superato, sorpassato, attardato, vecchio. Non conta tanto la verità quanto la formulazione recente. Le idee, come le uova, devono essere “di giornata”.


Talvolta si sente perfino squalificare un teologo o un vescovo con la frase: “è fermo al concilio di Trento”; dove è mirabile il fatto che la condanna sia espressa con l’indicazione non di ciò che, una volta dimostrato, potrebbe costituire una giusta critica (e cioè, ad esempio, la non consonanza con l’insegnamento del Vaticano II), ma di ciò che dovrebbe se mai rappresentare un titolo di merito (e cioè la fedeltà alla dottrina di un magistero solenne che, per quanto antico, resta tuttora autorevole). E con questa disinvoltura “cronolatrica” ci si dispensa dall’addurre le prove di una eventuale infedeltà al magistero più recente.


Allo stesso modo, veniamo spesso esortati a pregare per gli “uomini del nostro tempo”, come se qualcuno fosse mai tentato di ricordare nelle sue orazioni gli assiro-babilonesi; o a vivere nel “mondo di oggi”, contro il pericolo di sconfinare inavvertitamente nell’epoca carolingia; o a impegnarci a “essere moderni”, che è un po’ come se una mucca si impegnasse ad avere la coda.


Non ci si meraviglia allora di notare che il tema della “vita eterna” si faccia sempre più raro nei discorsi ecclesiastici, dove invece hanno sempre più larga parte le questioni del “tempo presente”. Queste è giusto e doveroso affrontare senza evasioni alienanti, ma non “invece di quella”, bensì “alla luce di quella”: solo con la coscienza sempre pungente della “vita eterna” e della sua impareggiabile rilevanza è possibile “redimere il tempo presente”, ridonandogli senso e spessore.


Naturalmente non c’è niente di male nell’uso di queste locuzioni, le quali possono anche avere la buona finalità di richiamare il cristiano da un atteggiamento “astratto” e troppo remoto dalle condizioni esistenziali. Ma, considerate come un “vezzo linguistico”, sono la spia di un atteggiamento spirituale indebitamente ossessionato dal culto dell’attualità.


Si ha talvolta l’impressione che i credenti si ritengano piuttosto mobilitati a riscattare il tempo presente, non dalla vanità e dalla malizia dei “giorni cattivi” (cfr. Ef 5,16), ma proprio dalla incombenza oppressiva dell’eterno, il quale – se è troppo insistentemente rammemorato – si teme non lasci spazio all’inserimento nel quotidiano.


Il caso è preoccupante: quando si scambia il fondamento della libertà con la ragione della tirannia, la medicina con la malattia, la fonte dell’energia con la causa della paralisi, le speranze di sopravvivere sono poche.


Di solito, poi, prevaricare nei confronti della fede porta anche ad attentare alla ragione. E in effetti la “cronolatria”, rovesciando la prospettiva cristiana, guasta altresì i meccanismi del raziocinio.


Lo spirito che si inquieta per la verità e arriva a cogliere la verità, trascende il tempo“. Perciò “sottoporre le cose dello spirito alla legge dell’effimero, che è quella della materia e del puro fatto biologico“, vuol dire soffocare la vita stessa dell’anima.


Quando resta se stessa e non viene traviata, “la ragione non si preoccupa di essere inserita o di accettare la storia, né allo stesso modo si interessa e si dà pena di essere contemporanea, ma solo di essere ‘ragione’, perciò di essere vera“.


3. La “cosmolatria”


Di tutte le idolatrie che ci affliggono, l’adorazione del mondo è senza dubbio la più clamorosa. Oggi uno può impunemente parlare male della Sposa di Cristo senza avere il minimo fastidio ecclesiale; ma se azzarda a scrivere due righe contro il “mondo”, deve aspettarsi almeno qualche tiratina di orecchie anche da parte dei recensori più benevoli e pii.


Questa “cosmolatria” fa tanto più spicco in quanto stride con tutta la consuetudine linguistica dell’ascetica tradizionale: la “fuga dal mondo”, la “rinuncia al mondo”, il “disprezzo del mondo” dai primordi del cristianesimo fino a pochi anni fa sono, stati temi classici della riflessione e della predicazione; ebbene, di essi nelle comunità cristiane di oggi non si trova più traccia. Al loro posto si propone l’ “inserimento nel mondo” e perfino il “servizio del mondo”.


A esaminare con attenzione alcuni testi ecclesiastici recenti (per esempio, alcuni formulari suggeriti da qualche parte per le preghiere dei fedeli) si ha l’impressione che i due vocaboli “mondo” e “Chiesa” rispetto all’uso di prima si siano semplicemente scambiati di senso. Si implora sempre infatti che la Chiesa capisca, riconosca, si converta, abbandoni il suo egoismo e la sua volontà di potenza ecc.; e per contro si prega perché il mondo venga riconosciuto e appagato nelle sue aspirazioni, aiutato nelle sue necessità, esaltato nei suoi valori. Ad ascoltare certe celebrazioni del mondo viene da domandarci perché mai a Gesù Cristo sia venuto in mente di fondare la Chiesa, peggiorando notevolmente le cose.


Almeno sul piano terminologico è innegabile la rottura con tutta la tradizione precedente. Ma è davvero soltanto una questione di vocabolario?


All’origine di questo mutamento c’è la “Gaudium et spes”; ma si tratta della “Gaudium et spes” passata al filtro della ideologia postconciliare e, così mortificata, acriticamente accolta da molti strati della cristianità.


Affrontando il tema dei rapporti tra Chiesa e mondo contemporaneo, il Vaticano II ha compiuto un’opera preziosa di chiarificazione e di illuminazione.


Mettendosi nella prospettiva della Genesi e della Somma teologica, vale a dire considerando la natura umana e il mondo in ciò che li costituisce in se stessi, la Costituzione pastorale afferma senza esitazioni la loro bontà radicale e l’invito al progresso che, per quanto ostacolato dall’ambiguità della materia e dalle ferite del peccato, è iscritto nella loro essenza. E mostra, non solo in maniera generale ma con analisi molto accurata e con tutta la generosità che deriva dalla divina carità, come la Chiesa, restando perfettamente nel campo della sua missione esclusivamente spirituale e nell’ambito delle “cose di Dio”, possa e voglia aiutare il mondo e la specie umana nel loro sforzo di avanzare verso i loro fini temporali.


A dire il vero si trova qui nuovamente affermata la dottrina perenne della Chiesa – ma con connotazioni nuove ed eccezionalmente importanti, dal momento che è riaffermata sotto il segno della libertà – non più per rivendicare il diritto della Chiesa di intervenire ratione peccati nelle cose del mondo al fine di combattere il male (a questo, credo, sarà sempre obbligata, sotto una forma o l’altra), ma per dichiarare il suo diritto, e la sua volontà, di animare, stimolare, assistere dall’alto, ratione boni perficiendi, se posso dire, e senza attentare all’autonomia del temporale, gli sviluppi del mondo verso il raggiungimento di un bene più grande.


Ma l’ideologia postconciliare, oltrepassando indebitamente questa prospettiva, ha letto il documento come se esso avesse voluto offrire – a proposito delle relazioni tra il “mondo”, di cui si parla ripetutamente negli scritti apostolici, e la Chiesa – un insegnamento in netto contrasto con quello delle pagine di san Giovanni e di san Giacomo.


Il prevalere di questa ideologia ci spiega come mai in questo tempo di esasperato biblismo ci siano molte frasi del Nuovo Testamento che non si ascoltano mai: è una sorta di censura tacita ma severissima, esercitata sul Libro di Dio.


Proprio perché la parola di Dio non sia incatenata (cfr. 2 Tm 2,9), ne trascriviamo un po’ per comodità del lettore.
“Il mondo non può odiare voi, ma odia me, perché di lui io attesto che le sue opere sono cattive” (Gv 7,7).
“Ora è il giudizio di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori” (Gv 12,31).
“Lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce” (Gv 14,27).
“Se il mondo vi odia, sappiate che prima di voi ha odiato me. Se foste del mondo, il mondo amerebbe ciò che è suo; poiché invece non siete del mondo, ma io vi ho scelto dal mondo, per questo il mondo vi odia” (Gv 15,18-19).
“Quando sarà venuto, egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia, al giudizio” (Gv 16,8).
“Voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà” (Gv 16,20).
“Abbiate fiducia; io ho vinto il mondo!” (Gv 17,9).
“Io ho dato loro la mia parola e il mondo li ha odiati perché essi non sono del mondo, come io non sono del mondo” (Gv 17,14).
“Padre giusto, il mondo non ti ha conosciuto” (Gv 17,25).
“Non amate né il mondo, né le cose del mondo! Se uno ama il mondo, l’amore del Padre non è in lui” (1 Gv 2,15).
“Il mondo passa con la sua concupiscenza; ma chi fa la volontà di Dio rimane in eterno!” (1 Gv 2,17).
“La ragione per cui il mondo non ci conosce è perché non ha conosciuto lui” (1 Gv 3,1).
“Non meravigliatevi, fratelli, se il mondo vi odia” (1 Gv 3,13).
“Tutto ciò che è nato da Dio vince il mondo; e questa é la vittoria che ha sconfitto il mondo: la nostra fede. E chi è che vince il mondo se non chi crede che Gesù è il Figlio di Dio?” (1 Gv 5,4-5).
“Noi sappiamo che siamo da Dio, mentre tutto il mondo giace sotto il potere del maligno” (1 Gv 5,19).
“Una religione pura e senza macchia davanti a Dio nostro Padre è questa: soccorrere gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e conservarsi puri da questo mondo” (Gc 1,27).
“Gente infedele! Non sapete che amare il mondo è odiare Dio? Chi dunque vuol essere amico del mondo si rende nemico di Dio!” (Gc 4,4).
“Il mondo con tutta la sua sapienza non ha conosciuto Dio” (1 Cor 1,21).
“Noi non abbiamo ricevuto lo spirito del mondo, ma lo Spirito di Dio” (1 Cor 2,12).
“La sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio” (1 Cor 3,19).
“La tristezza del mondo produce la morte” (2 Cor 7,10).
“Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo, per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14).


Sappiamo benissimo che, accanto a queste frasi, ci sono nel Nuovo Testamento altre espressioni nelle quali la parola “mondo” indica la creazione di Dio che è buona, e l’umanità che è in attesa della salvezza ed è amata da Dio. Non potremmo non saperlo, perché sono passi che giustamente ci vengono sempre ricordati da tutte le parti; sicché un problema del loro recupero oggi, dopo la Gaudium et spes, fortunatamente non si pone. Si pone invece per quelle che abbiamo sopra elencate: dove è andata a finire tutta questa tematica nella cristianità dei nostri tempi? Anche a supporre che si sia mutato soltanto il linguaggio, sotto quali locuzioni dei nostri giorni questa dottrina si cela?


Tutto sembra farci pensare che si tratti non del disuso di una terminologia, ma di un insegnamento esplicito della Rivelazione che non ha più posto nell’odierna riflessione teologica e pastorale. Così, privo delle naturali difese immunizzatrici, l’organismo ecclesiale resta pericolosamente esposto al contagio di quella “cosmolatria” che stiamo qui denunciando.


Occorre ripartire dal dato rivelato preso nella sua integrità, senza operarvi nessuna aprioristica selezione.


Una frase del vangelo di Giovanni ci ricorda da sola tutta la multiformità della parola di Dio a proposito di “mondo”.
“Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe” (Gv 1,10).
In due righe il vocabolo compare tre volte e sempre con sfumature diverse.
“Era nel mondo”: si riferisce al fatto della incarnazione e alla presenza del Verbo nella realtà creaturale. E’ una indicazione che non implica alcuna valutazione. Nello stesso senso la parabola del seme dice: “il campo è il mondo” (Mt 13,38).


“Il mondo fu fatto per mezzo di lui”: qui è implicitamente affermata l’originaria bontà del mondo, e quindi la presumibile disposizione di accoglienza verso il Figlio di Dio. Allo stesso modo è detto che “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3,16).


“Eppure il mondo non lo riconobbe”: qui la parola “mondo” esprime il grande enigma della opposizione sistematica, permanente, ineliminabile, nella quale si è imbattuta e si imbatterà sempre l’iniziativa salvifica. E il discepolo di Gesù è ripetutamente ammonito di non perdere mai di vista e non sottovalutare questa tragica realtà.


Il mondo è dunque o un semplice spazio o una realtà nativamente buona ma da redimere o una forza malvagia che resiste alla redenzione e cerca di vanificarla. Nessuna di queste tre verità va trascurata


Ciò che non c’è nel Nuovo Testamento è l’idea che la Chiesa debba essere istruita, illuminata o addirittura salvata dal mondo. Neppure c’è l’idea che il mondo sia realtà così buona e santa da non aver bisogno della restaurazione di Cristo, attualizzata nella Chiesa.


Chi muove dalla pur giusta convinzione dell’intrinseco e inalienabile valore delle cose, create da Dio e da lui riconosciute come “buone” (cfr. Gn 1), e ritiene che qui si esaurisca quanto il cristiano ha da dire sul “mondo”, rischia obiettivamente di non riconoscere la presenza attiva e continua del male, di banalizzare la redenzione e di rendere superflua la croce di Cristo. Molti atteggiamenti rilevabili nei cristiani di oggi nei confronti del “mondo” sarebbero plausibili in un ordine di cose di incontaminata innocenza; un ordine bello in sé e desiderabile, che però non esiste.


L’irenismo a ogni costo nei confronti di tutto e di tutti è forse una nostalgia per la pace del Paradiso terrestre (dove per altro non mancava il serpente); o, se si vuole, è un’abusiva pregustazione dello stato d’animo che ci rallegrerà nell’eterna Gerusalemme: rispetto al tempo di lotta che stiamo vivendo è una indebita anticipazione.


Il “servizio del mondo”. Parrebbe anche utile una breve riflessione circa il “servizio del mondo”, che ci viene indicato spesso come dovere della Chiesa e dei credenti.


L’affermazione è carica di ambiguità e, se non è chiarita, può alla lunga provocare una visione distorta dell’impegno cristiano. Gli equivoci possibili sono due: sul concetto di “mondo” e sul dovere del “servizio”.


Per “mondo” qui si può intendere solo l’umanità che – dolorante, sviata, senza luce – è in attesa della salvezza. Non certo il “mondo” per il quale il Signore non ha pregato e che poi dalla parola di Dio siamo invitati a odiare; della cui oscura esistenza non dobbiamo mai dimenticarci.


E il “servizio” più urgente e necessario che può essere reso agli uomini decaduti e infelici è l’annuncio del Salvatore e del progetto d’amore che il Padre ha pensato per noi: questa é la vera “promozione umana”, che poi diventa la molla propulsiva di ogni altro “progresso” nel benessere, nella pace sociale, nella giustizia terrena.


Va anche detto che l’unico a dover essere propriamente e direttamente servito da noi è il Figlio di Dio, Gesù Cristo. “Ci sono diversità di ministeri, ma uno solo è il Signore” (1 Cor 12,5). Nessun altro può essere riconosciuto come padrone.


Vero è che l’unico nostro Signore si è fatto “servo” di tutti: e noi, se vogliamo veramente e concretamente servirlo, dobbiamo servirlo anche associandoci a lui in questo servizio degli altri e attendendo dunque alle necessità reali di tutti.


La delucidazione, che può sembrare sottile e puntigliosa, è invece essenziale: noi, servi di Cristo, diventiamo in lui servi degli uomini; ma non per questo siamo tenuti a dare agli uomini sempre ciò che a loro piace o che da noi essi si aspettano. Noi abbiamo il “foro”.


Un secondo esempio significativo è dato dal fenomeno del monachesimo, che, chiudendosi nel microcosmo del monastero per inseguire l’ideale di una vita evangelica perfettamente coerente, di fatto ha contribuito in modo determinante al sorgere della nuova Europa. E’ curioso notare nella storia ecclesiale che il programma spirituale e culturale della “fuga dal mondo” di solito riesce ad animare un’azione incisiva nella società e a riplasmarla effettivamente alla luce del Vangelo. Basti pensare all’incidenza nella realtà sociale e politica del suo tempo di sant’Ambrogio, che pure ha scritto un “De fuga saeculi” e teorizza continuamente nei suoi scritti l’urgenza della solitudine.


4. La “schizolatria”


La quarta “latria” nasce ed è alimentata da una “fobia”. La paura ossessiva dell’integralismo – cioè dell’abitudine mentale a risolvere tutti i problemi umani di ogni ordine e grado deducendo immediatamente le soluzioni dai princìpi di fede – induce alcuni incauti al culto esasperato della divisione degli ambiti e alla esaltazione della totale impermeabilità tra un piano e l’altro dell’impegno umano.


Alcune annotazioni si impongono a questo proposito. L’inerzia mentale, lo schematismo linguistico, l’incapacità a seguire l’effettivo succedersi dei mutamenti culturali cospirano a tenere nascosto agli occhi di molti il fatto che un integralismo cattolico – che pur ha avuto una sua lunga e deleteria stagione – oggi non esiste più se non in frange trascurabili della cristianità. E’ morto da un pezzo, anche se il suo fantasma è continuamente evocato da alcuni sprovveduti e da molti interessati. A lottare contro le ombre non c’è pericolo di farsi male, e perciò sono numerosi i prodi che si slanciano in queste battaglie.


Per contro esistono – graffianti, acritici, sicuri di sé – altri integralismi di vario colore: c’è un integralismo marxista, un integralismo radicale, un integralismo laicista, un integralismo liberale, perfino un integralismo mazziniano. Ogni “parrocchia” politica in Italia ritiene di avere una concezione totalizzante della realtà, in grado di portare luce su ogni questione, ivi comprese quelle che si riferiscono alla coscienza morale, ai contenuti dell’impegno religioso. alle forme di esercizio del, magistero ecclesiale. Tutte queste “parrocchie” si adoperano a tenere viva la fobia dell’integralismo cattolico; e il più delle volte viene contrassegnato con questa etichetta ogni desiderio di coerenza cristiana ed è condannata a questo titolo ogni determinazione di irradiare la fede nella cultura e nella vita. Né c’è da stupirsene; stupisce piuttosto che questo tipo di intolleranza trovi consensi in molti credenti anche sinceri.


Ma la schizolatria è soprattutto un attentato alla retta visione cristiana della realtà. Essa sembra dimenticare totalmente l’esistenza di un solo Signore, nel quale, per mezzo del quale, in vista del quale tutto esiste, sia nell’ordine della redenzione sia nell’ordine della creazione. Conseguentemente colpisce al cuore l’unità del piano divino e la stessa ultima intelligibilità di questo universo di fatto esistente.


Ci sia consentito riprodurre qui alcune pagine lucidissime di Inos Biffi, meritevoli di rilettura e di approfondita meditazione.


Il primo punto di partenza non esatto è la suddivisione, anzi la distinzione tra piano creaturale/o di natura, e piano redentivo/o della grazia. Questa distinzione, che per qualcuno arriva persino alla separazione, non è teologicamente accettabile e proponibile. Essa viene a misconoscere il dato primo dell’attuale e concreto ordine di realtà: ed è il progetto originario, assoluto e totalizzante – su cui abbiamo già insistito – consistente nella predestinazione dell’uomo e dell’universo in Gesù Cristo risorto da morte. E’, indubbio che Dio avrebbe potuto concepire un altro ordine di provvidenza; è indiscutibile che solo la fede – che fa uditori della Parola – trasmette integralmente questo disegno originario di fronte al quale tutti gli altri sono ipotetici: ma questo è in ogni modo un fatto, fuori del quale esiste solo, obiettivamente, la non esistenza o l’ipotesi.


Una teologia corretta non accetterà mai un ordine naturale e ad esso giustapposto un ordine soprannaturale concretamente esistenti e che si tratterebbe di tenere uniti. E di conseguenza: una specie di natura-ragione neutra, valida per tutti, non riferita a Gesù Cristo, di ‘pura’ entità ‘creaturale’ (ossia dipendente dalla pura creazione). Ne deriva che, se per mediazione si dovesse intendere l’atto di chi si sforza di mettere insieme tali due ordini inizialmente separati, essa è semplicemente scorretta e impossibile. Purtroppo ci è dato di constatare che un certo linguaggio e certe impostazioni concettuali traducono esattamente questa inconsistente dicotomia.


Manca un pensiero che traduca, oltre la cultura religiosa e storica, una dottrina teologica criticamente fondata. La verità è un’altra: nel disegno originario in Gesù Cristo è compresa la “ragione”, la “filosofia”, l’incontrovertibilità, dell’essere e vi è compresa non come sostituibile dalla fede, ma nella sua specificità. Per il fatto di essere creata in Gesù Cristo la ragione non smette di essere tale: l’accoglienza per fede del disegno divino in Cristo non la degenera e non la umilia. Per poter giustamente parlare di mediazioni bisogna uscire da questo equivoco. Il cristiano va anche più avanti: egli intende la grazia non solo non adulterante, ma di fatto sanante la ragione: la redenzione in certo modo rende la ragione a se stessa.


Un secondo punto di partenza non esatto sarebbe quello di porre da un lato il dato della fede, dall’altro il dato della storia, e quindi della temporalità, della politica, come se alla fede non appartenesse la storicità, la politicità, in una parola sola: l’antropologia filosofica. Ci sono dati di intelligibilità e di struttura antropologica


la cui mortificazione significherebbe la mortificazione dello stesso disegno originario. Il cristiano non prende a prestito dalla filosofia pagana-neutra la dimensione razionale dell’uomo: piuttosto, eventualmente, riconosce che al di fuori dell’orizzonte della fede consapevole esistono valori obiettivamente appartenenti al piano di salvezza, il quale non si separa e non si distingue affatto – in concreto! – dal piano “creaturale” come abbiamo ora detto.


Facendo storia, cultura, politica, ecc., il cristiano non fa altro che rilevare e determinare una dimensione del contenuto della sua fede, mettendo in atto la razionalità che è un reale ingrediente del disegno divino: un ingrediente che richiede riflessione, ricerca, confronto; che conclude a gradi più o meno di certezza, che lascia spazi di ipoteticità e margini di pluralismo. Se è vero in un certo senso che non c’è passaggio diretto dalla fede alla politica, è altrettanto vero che la politica mette in opera elementi che non sono discordi o àlteri rispetto al piano integrale originario. S’è parlato, con preciso fondamento, di ‘umanesimo integrale’.


Occorrerebbe più compiutamente parlare di ‘cristianesimo integrale’. Ancora: si è detto – e giustamente in una determinata prospettiva – che si deve distinguere per unire: nella nostra prospettiva va detto che si deve ‘distinguere nell’unito’. Una mediazione che fosse configurata come lo sforzo o l’impegno di tenere insieme la salvezza e la storia, il vangelo e la politica, come se fossero costitutivamente separati, è una pura ideologia, in quanto immagina radicalmente fuori il secondo versante dall’ordine salvifico; oppure m quanto si rappresenta piuttosto miticamente la storia come entità a sé da ‘battezzare’. L’originario costitutivo impone una filosofia, con le sue proprietà caratterizzanti: essa è un compito del credente – e ognuno, dotto o indotto, la pone, sia pure con diversa teorizzazione. E’ vero che il cristianesimo non può fare a meno della filosofia, ma il motivo è perché l’uomo creato da Dio in Gesù Cristo è un essere ‘filosofico’, con quel che ne consegue“.


5. La “bibliolatria”


Il culto della Sacra Scrittura, la riscoperta del suo valore vitale, gli studi di cui è fatta oggetto rappresentano certamente una preziosa conquista del nostro tempo. Possiamo anzi dire che ancora non è letta, meditata, amata abbastanza dai cattolici: è augurabile che si abbia a progredire su questa strada a passo più spedito e con animo più risoluto.


Pure c’è qualcosa che ci inquieta nel modo attuale di accostarci al Libro di Dio e ci spinge a formulare alcune osservazioni, che proponiamo candidamente trascurando il rischio non ipotetico di essere fraintesi e mal giudicati.


Noi non siamo il “popolo del Libro”; a rigore non siamo neppure il “popolo della Parola”: siamo il “popolo dell’avvenimento”. La Parola di Dio risuona all’interno dell’evento salvifico e, rendendolo non solo un fatto ma anche una illuminazione, non solo una “res” ma anche un “signum” eloquente, non solo un “mistero” ma anche un “evangelo”, lo offre alla nostra contemplazione perché la contemplazione ci porti alla partecipazione intera della vita.


La “pagina sacra” è il mezzo privilegiato con cui possiamo arrivare alla “Parola” per nutrircene e vivere con intelligenza nell’evento. Non è dunque un assoluto, ma è ordinata all’avvenimento. L’avvenimento resterà nel Regno eterno, quando la Bibbia non avrà più sussistenza e valore.


Per circa un secolo la Chiesa non ha avuto un canone dei libri sacri cristiani, senza che per questo potesse dirsi manchevole di qualche elemento essenziale. Anche quando i vangeli non erano ancora stati scritti né erano state ancora raccolte le lettere degli apostoli, la Parola di Dio risuonava con tutta la sua forza nella Chiesa e la salvezza era presente e operante.


Chi si colloca integralmente all’interno dell’avvenimento, si pone nelle condizioni di leggere giustamente la Sacra Scrittura e di coglierne il senso ultimo. Chi non si colloca integralmente, o almeno non con sempre rinnovata coscienza, all’interno dell’avvenimento, per quanto numerose, erudite, scientificamente vagliate si facciano le sue citazioni è sempre in pericolo di rimanere all’esterno del Libro di Dio e di non gustare la sua saporosa sostanza.


A cominciare dal demonio, che nelle narrazioni sinottiche appare bravissimo nell’addurre i passi ispirati a sostegno delle sue argomentazioni, la storia delle aberrazioni teologiche è caratterizzata dall’abbondante ricorso da parte degli eretici ai testi scritturistici. E per la verità anche ai nostri giorni assistiamo talvolta ad “alluvioni” di frasi bibliche che nascondono una fondamentale infedeltà alla Parola di Dio.


Ma c’è una insidia più subdola e perniciosa: l’uso abbondante e quasi ossessivo della Bibbia – staccato però dalla consapevolezza sempre richiamata dell’avvenimento salvifico, il quale include anche la Sacra Scrittura e la trascende – può condurre a una visione meramente “culturale” del cristianesimo e rendere l’atto di fede non più un “assenso reale” ma un puro “assenso nozionale” mentre – come splendidamente dice san Tommaso, “actus credentis non terminatur ad enuntiabile sed ad rem“: l’atto di fede non ha come suo ultimo approdo una serie di nozioni ma una realtà.


La distinzione tra “assenso nozionale” e “assenso reale” è uno dei concetti fondamentali della Grammatica dell’assenso, di J.H. Newman. In realtà, in campo teologico la questione è ancora più seria di quel che per il campo pastorale abbiamo qui cercato di dire. Il pericolo sta nell’insensibile ma sempre più vasto affermarsi della tendenza (crediamo non pienamente consapevole) a considerare la “res” – attinta nell’atto di fede, quando l’atto di fede c’è veramente – scientificamente inconoscibile come il “noumeno” kantiano, e quindi non più oggetto di attività teologica, la quale si esercita soltanto sul “fenomeno”. Di qui la risoluzione della teologia nell’esegesi, e poi anche nella storiografia, nella metodologia, nello studio delle mediazioni con le filosofie contemporanee, nella psicologia religiosa, nella sociologia religiosa ecc.


Sventurato quel teologo o quell’esegeta che, pensando a Gesù Cristo, primariamente e come d’istinto si richiama a un personaggio della catechesi sinottica o a un tema della speculazione di Paolo, e non al Salvatore che si rispecchia sì nei Libri sacri ma soltanto in quanto antecedentemente a tutto esiste in sé, fuori e prima di ogni testimonianza, come qualcuno che vive.


Un uomo dal semplice cuore cattolico, alla domanda: “Dov’é Gesù?” risponde in modo del tutto ovvio e naturale: “In cielo alla destra del Padre e in chiesa nel tabernacolo“, senza che gli passi lontanamente per la testa di tirare in campo la Sacra Scrittura. Questo, per lui, è l’indirizzo di una persona reale e concreta. Guai se l’interrogazione cominciasse ad avere come risposta: “Si trova nel vangelo di Luca, nel ‘corpus’ giovanneo, nella lettera agli Ebrei“; cominciasse cioè ad avere come risposta l’indicazione di un “luogo” letterario.


Nei modi aberranti che qui si sono descritti la Sacra Scrittura diventa non, come deve essere, una forma eccezionale di accostamento al mistero che trasforma e ci salva, ma un diaframma tra noi e il Signore Gesù. Così sarebbe un “idolo”.


Da questo ” idolo ” deve essere purificato il santuario del nostro cuore e il “tempio” della comunità cristiana radunata in Cristo e offerta al Padre dall’impeto dello Spirito.


Alcuni segni di sanità teologica e pastorale


La rassegna delle più diffuse “idolatrie” non deve indurci a credere che tutto sia traviato nella cristianità e non ci siano più veri adoratori del Dio vivo. Bisogna anzi riconoscere che lo Spirito Santo è all’opera oggi più che mai e riesce coi suoi inattesi prodigi ad alleviare gli effetti nefasti di una insipienza ecclesiale che ha raggiunto ai nostri giorni vertici di eccezione.


E così le comunità cristiane, svigorite e disanimate da un’acutissima mondanizzazione, ricevono vitalità e conforto dall’incontro con persone, gruppi, movimenti che, con varie forme e colorazioni spirituali diverse, sinceramente si determinano a una generosa adesione all’Evangelo e a una totale partecipazione all’evento salvifico.


Il fenomeno, che complessivamente è stato una felice sorpresa dopo lo squallore di un secolarismo arido, chiassoso, senza futuro, è composito, agitato, confuso e solleva il problema di una giusta analisi e di una pacata valutazione.


Da quali segni possiamo riconoscere, nella concretezza di questo momento storico, la sanità teologica e pastorale delle forze che vanno via via affiorando nel mondo cristiano?


Dopo l’esperienza di questi decenni e dopo una lunga riflessione, ci parrebbe di poter suggerire, come contributo a un discernimento che non sia astratto e puramente nominale, l’attenzione a tre note caratteristiche. Non sono certo le sole che si richiedono né forse le più importanti in assoluto, ma sono quelle che più possono aiutare nell’ora presente.


La prima è il sentimento acuto della distinzione tra il bene e il male, la consapevolezza che tra il bene e il male è in atto una lotta irriducibile e la persuasione che in questo scontro – che è ancora in atto e lo sarà fino alla venuta del Signore – ciascuno di noi è chiamato a combattere nelle forme e secondo le possibilità che di fatto gli sono date


La seconda è la convinzione che Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio crocifisso e risorto, è il Salvatore del mondo e non colui che deve essere salvato dal mondo. Egli è il vincitore, e noi dobbiamo essere la sua vittoria.


Perciò a lui – e quindi al cristianesimo – è necessario ricorrere perché l’uomo viva, cresca, emerga dalle sue contraddizioni e dalle sue schiavitù. Inversamente, non si arrivi mai a pensare che solo l’apporto di estranee culture possa consentire a Cristo di essere ancora vitale e al cristianesimo di essere ancora accettabile ai nostri tempi (1).


La terza è la percezione della bellezza della Chiesa e l’ammirato stupore per questo capolavoro dell’amore del Padre; o almeno la certezza di fede che la Chiesa è la realtà più bella, più santa, più nobile che l’infinita potenza di Dio di fatto ha ricavato dalla nostra terra polverosa e dalla nostra umanità disastrata.


 


NOTE


(1) La retorica circa il “dialogo” e il “confronto”- che sono attitudini lodevoli in se stesse, quando non diventano i nuovi nomi del cedimento e della mondanizzazione – ha innegabilmente contribuito a una “smobilitazione generale” dei cristiani, che ha pochi precedenti nella storia.


Anche l’uso acritico e indiscriminato di alcune frasi, che adoperate a proposito hanno una loro validità, ha contribuito al diffondersi dello spirito di resa o almeno alla confusione. Ne citiamo qualcuna, per non restare nel vago.


“Bisogna distinguere tra l’errore e l’errante”. Principio giustissimo, ma da applicarsi con due avvertenze: che di fatto l’affermazione non si traduca nel non distinguere più tra l’errore e la verità; che ci si renda conto che, se la condanna dell’errore non deve restare un’inutile astrazione, il popolo cristiano va messo in guardia anche da colui che di fatto semina l’errore, naturalmente senza cessare di volere il suo vero bene e lasciando sempre a Dio il giudizio sulle intenzioni profonde delle persone.


“Bisogna guardare più a ciò che ci unisce che non a ciò che ci divide”. Questo principio vale solo in proporzione alla vastità e all’importanza di ciò che ci unisce e all’esiguità di ciò che ci divide. Quando si ha la stessa fede nella Trinità, in Cristo, Figlio di Dio, crocifisso e risorto, nella vita eterna, è del tutto insipiente litigare su quando e come vada cantato l’alleluia. Ma quando la divisione verte sulle questioni sostanziali, il volerla accantonare e quasi dimenticare vuol dire snaturarsi nel profondo e perdere la propria identità; così l’ecumenismo diventa davvero, come amaramente è stato detto, una “comune apostasia”.


“La Chiesa deve diventare credibile”. Così come suona, il concetto è mal formulato e inaccettabile, perché fa delle esigenze e delle persuasioni degli uomini il metro per giudicare l’azione e la realtà dei cristiani, mentre l’unico metro resta il Signore Gesù e la sua verità. La Chiesa deve sforzarsi di essere sempre più credente; in tal modo diventerà sempre più credibile agli occhi dei non credenti ben disposti, che ricercano la verità, e sempre più incredibile agli occhi dei non credenti che non hanno nessuna voglia di credere.


“Bisogna guardarsi dai profeti di sventura”. Se la frase vuol dire di evitare coloro che tentano di uccidere le ragioni della speranza cristiana (tra le quali emergono l’esistenza di Cristo vivo e Signore, e l’inalienabile bellezza della Chiesa) allora è giusta e da approvare. Se vuol dire che bisogna sempre dire a tutti i costi e per tutte le circostanze che tutto va bene, allora è smentita dalla parola di Dio. Di solito i veri profeti sanno annunziare anche il dolore e sanno denunziare il male; gli annunziatori di facile allegria, di tranquillità senza lotta, di immancabile benessere, nella Bibbia sono i falsi profeti (cfr. Ger 14,13-16; 23,17; 27,9-10).


“Non bisogna essere manichei”. Il manicheismo consiste nel credere all’esistenza di due princìpi assoluti, due dèi, uno del bene e uno del male; il manicheo non crede quindi al Dio buono, creatore di tutto, né alla sua vittoria finale. Questa è un’aberrazione da condannare. Definire manicheo invece chi vuol distinguere tra il vero e il falso, tra il buono e il cattivo, tra il giusto e l’ingiusto, tra ciò che è conforme alla volontà di Dio ed è perciò da seguire, e ciò che è difforme ed è perciò da respingere, è un modo truffaldino di combattere il cristianesimo dandogli prima una falsa e infamante etichetta.