…2. ATTUAZIONE DELLA VIRTÙ DI RELIGIONE NEL CULTO. I. IL CULTO. 1. Nozione del culto. 2. Divisioni. II. VARIE FORME DI CULTO RELIGIOSO. 1. Culto assoluto e relativo. 2. Culto interno ed esterno. 3. Culto privato e pubblico o sociale. III. LA PIETÀ CRISTIANA. IV. GLI ATTI DEL CULTO. V. LA DEVOZIONE. VI. LA PREGHIERA. 1. Natura e forma della preghiera. 2. Valore e necessità della preghiera. 3. Qualità della preghiera. 4. Meditazione e contemplazione. 5. La contemplazione. 6. La preghiera di domanda. 7. L’efficacia della preghiera. 8. La preghiera cristiana. VII. ADORAZIONE….
Trattato di Teologia morale
PARTE I.
L’UOMO DI FRONTE A DIO
LA RELIGIONE
2. ATTUAZIONE DELLA VIRTÙ DI RELIGIONE NEL CULTO
I. IL CULTO.
1. Nozione del culto (182).
Classica è la seguente definizione del culto: un segno di sottomissione alla riconosciuta superiorità altrui (nota submissionis ad agnitam excellentiam alterius). È il riconoscimento della superiorità altrui basato sulla nostra dipendenza in rapporto ad altri, e non semplicemente il riconoscimento delle altrui eccellenti qualità (onore, lode). Onde il vero atto di culto è quello che riconosce la superiorità altrui mediante la manifestazione della propria sottomissione. Da ciò appare chiaramente che il culto religioso è attuazione della virtù di religione che inclina l’uomo a riconoscere la propria totale dipendenza da Dio fondata nel suo supremo dominio come primo principio ed ultimo fine.
2. Divisioni.
Il culto secondo le diverse specie di superiorità che intende onorare va distinto in diverse specie, essenzialmente fra loro diverse. Il culto civile riguarda gli uomini che ci sono superiori a causa di una nostra dipendenza naturale (genitori, superiori, governanti, patria) ed è atto della cosiddetta virtù della pietà. Il culto religioso riguarda Dio, supremo Signore e persone e cose che rianno una speciale relazione con Lui, Se rimane limitato alla sola relazione naturale creatura-Creatore è culto religioso naturale. Se invece si dirige a Dio autore dell’ordine soprannaturale è culto religioso soprannaturale, nel quale oltre l’elemento della servitù entra anche l’elemento della figliolanza (Dio è Signore e Padre).
Il culto religioso o si rivolge a Dio e gli tributa l’onore che unicamente spetta alla sua incomunicabile superiorità di Creatore, ed è culto di adorazione o latria (culto latreutico), o si rivolge ai Santi in ragione della loro santità e del posto che occupano nel Corpo mistico di Cristo, ed è culto di venerazione o dulia. Un culto speciale compete alla Madonna SS., non solo a causa della sua eminente santità, ma soprattutto a causa del posto eminente che tiene nell’ordine degli esseri, essendo Madre di Dio.
Questo culto si designa col nome di iperdulia. Parecchi teologi moderni per ragioni analoghe (eminente santità e relazione con la persona di N. S. Gesù Cristo) richiedono un culto speciale per S. Giuseppe che designano col nome di protodulia.
II. VARIE FORME DI CULTO RELIGIOSO.
1. Culto assoluto e relativo.
Il culto è assoluto se si rivolge alla persona. Se si sofferma su delle cose che hanno una speciale relazione colla persona venerata (immagine, cosa appartenente ad essa, spoglie mortali), in quanto cc la rappresentano, è culto relativo, che in ultima istanza si riferisce sempre alla persona venerata.
2. Culto interno ed esterno.
Alcune altre divisioni riguardano piuttosto il modo di compiere il culto. Così secondo le facoltà che lo compiono si distingue culto interno e culto esterno. L’interno si limita alle sole facoltà interne, specialmente spirituali (intelletto e volontà), l’esterno si compie con atti delle facoltà esterne e del corpo.
Il culto deve essere innanzi tutto interiore. L’omaggio esterno è essenzialmente espressione e simbolo dell’umile ed ammirato atteggiamento dello spirito: altrimenti è vuoto di significato e di merito; non solo, ma è il segno di una farisaica doppiezza, che se riesce a mascherare dinanzi agli uomini l’interiore immondezza, non riesce, però, ad ingannare Dio: ” Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità ” (183).
Ciò non vuol dire che il culto esterno sia condannato e possa ritenersi superfluo. Gesù, denunziando il formalismo farisaico, non ha inteso né condannare né abolire il culto esterno di Dio, ma lo ha implicitamente approvato col suo esempio, partecipando alle adunanze della sinagoga e del Tempio (184), ed ha voluto che nella Nuova Legge la grazia passasse nell’anima attraverso al rito sensibile. Egli sapeva che il naturale dualismo dell’uomo, composto in perfetta armonia nell’unità della persona, fa si che gl’intimi sentimenti dello spirito tendono a tradursi in parole od in opere, e che queste, a loro volta, alimentano mediante l’immagine l’intimo nostro sentire. Non è bugiarda finzione, ma saggio espediente educativo assumere esternamente l’atteggiamento corrispondente al sentimento che si vuol suscitare nell’animo.
3. Culto privato e pubblico o sociale.
Il culto può essere pubblico (fatto ufficialmente in nome della comunità religiosa) o privato (individuale o di gruppi che non rappresentano la comunanza religiosa come tale). Il culto pubblico però può essere esplicato privatamente (senza l’assistenza della comunità religiosa o senza la sua partecipazione diretta). Il sacerdote per es. che celebra la S. Messa col solo inserviente, o recita il breviario solo, nella sua stanza, esplica culto pubblico (185).
L’uomo è legato a Dio con vincoli non solo individuali, ma anche sociali; è attraverso alla duplice società, civile e religiosa, che egli tende e perviene a Lui; è nella sua vitale inserzione nel Corpo mistico di Cristo che si attua la sua salvezza, A questa condizione ontologica corrisponde, per logica derivazione, il dovere etico da parte della società di riconoscere pubblicamente la sua dipendenza da Dio, e da parte dell’individuo di partecipare a questa forma di culto.
Ma, come la società non sopprime l’individuo, così il culto sociale non sostituisce quello privato, ma lo suppone o lo potenzia. Entrambi hanno la loro particolare funzione e la loro specifica utilità: se il culto individuale ha in suo favore il vantaggio dell’intimità e della spontaneità, quello sociale, oltre al valore che gli deriva dalla dignità e dai meriti della collettività di cui è espressione, ha in sé l’efficacia dell’esempio e la potenzialità dell’entusiasmo collettivo che, se contenuto nei limiti della vera religiosità, accende e rinfocola il fervore individuale.
Entrambi hanno avuto il sigillo di Cristo, del suo esempio e della sua parola: quando incitava i discepoli a cercare il silenzio della propria camera per pregare il Padre in segreto (186), e quando prometteva la sua presenza in mezzo a coloro che si fossero raccolti a chiedere nel suo nome qualche cosa al Padre (187).
Il Culto liturgico e per l’appunto il culto pubblico della Chiesa (188).
Come tale, esso gode dell’efficacia della sua intercessione, e partecipa della sua indefettibilità. Per questo la cosciente e viva partecipazione dei fedeli a questa forma di culto è, oltre al resto, garanzia di seria religiosità (189). Per questo il Concilio Vaticano II ha dato tanta importanza al culto liturgico (190),
III. LA PIETÀ CRISTIANA.
Dato l’intimo rapporto che corre tra l’essere ed il dover essere, tra l’ordine ontologico e l’ordine etico, si comprende subito come la pietà cristiana sia necessariamente diversa dalla religiosità che l’uomo avrebbe potuto avere in un altro ordine di Provvidenza.
Attualmente la sua dipendenza da Dio poggia sul triplice rapporto della creazione, della elevazione all’ordine soprannaturale, della Redenzione. La sua pietà deve essere, perciò, necessariamente alimentata da questo triplice motivo, avvivata dall’intima consapevolezza di essere creatura, figlio di Dio, redento da Cristo. Il suo culto ci porterà a Dio, non solo come giudice, ma come Padre, Padre delle misericordie (2 Cor 1, 3), per mezzo di Cristo
Mediatore e Pontefice, insieme con Lui come Capo del Corpo mistico, in intima comunione di vita con Lui: per lui, con lui e in lui [per ipsum et cum ipso et in ipso) (191).
Né codesto sentimento, aumentando la fiducia, rallenta e diminuisce comunque lo spirito di adorazione, ma lo rafforza vieppiù nello spirito, col moltiplicare i titoli della dipendenza e della gratitudine. L’intima comunione di vita con il Cristo non ha mai impedito che Egli si rivelasse alla coscienza cristiana come il Signore (192).
IV. GLI ATTI DEL CULTO.
Parlando degli atti che si compiono mediante la virtù della religione e che costituiscono il culto divino, ci si limita agli atti che procedono direttamente dalla virtù della religione, senza estendersi a quelli, che pur essendo comandati da questa virtù, sono tuttavia compiuti da un’altra.
Gli atti della religione sono compresi nei tre primi comandamenti del Decalogo (193). Il primo ed essenziale è il riconoscimento del supremo dominio di Dio con la volontà di rendergli il culto interno ed esterno corrispondente a questo riconoscimento.
Quest’atto, che è come il principio informatore di tutti gli altri, ponendo nel suo giusto atteggiamento la creatura di fronte a Dio primo principio, sommo bene assoluto in sé e relativo per noi, signore assoluto e giudice infallibile, inappellabile, esprime il sincero riconoscimento di tutto questo e l’integrale, consapevole, confidente, affettuosa sottomissione.
L’abituale volontà di adorare, di darsi cioè prontamente e votarsi a questo riconoscimento teoretico e pratico, logico ed affettivo, rispettoso e confidente, che è il culto divino, dicesi devozione, che è come adorazione abituale e costante, vigile disposizione di adorazione, lampada ardente che illumina, riscalda, avviva tutta la vita e mantiene il contatto umano (mente e cuore ed opere) con Dio. Da questi atti non si può scompagnare nella creatura intelligente la considerazione che Dio è il suo creatore, il suo benefattore, il donatore sempre in atto, in una effusione di bontà inesauribile ed instancabile; ne nasce spontaneo un sentimento ed un atteggiamento di gratitudine per sé, per il genere umano, per tutti i compartecipi di questi doni. E poiché l’esperienza ci fa toccare con mano la nostra insufficienza, i nostri bisogni di soccorso e la generosità e misericordia del benefattore divino, sgorga dal nostro cuore spontanea la preghiera, con la quale a Dio ci rivolgiamo per domandare quello di cui sentiamo il bisogno e particolarmente il suo amore, la sua benevolenza, la sua amicizia, per noi e per i nostri fratelli. E quando abbiamo la consapevolezza delle nostre mancanze di riguardo verso Dio, delle nostre colpe, delle offese recategli da noi per la nostra fragilità, ne concepiamo dolore e pentimento, che ci porta a detestare il male commesso, a proporre l’ammenda, a fare atti di riparazione; e questo non soltanto per noi, ma anche per i nostri prossimi e per tutti coloro che possano aver offeso il Signore.
Di questi atti (194), di cui si è tracciata appena la trama, senza scendere al dettaglio, alcuni sono soprattutto interni, con i quali cioè offriamo a Dio intelligenza e volontà: devozione e preghiera; altri sono principalmente esterni con i quali o: 1) si offre il corpo a Dio per onorarlo come nella adorazione e nell’osservanza delle feste, o: 2) si offre a Dio qualche cosa esterna, sia che la si doni immediatamente: sacrificio e offerte, sia che si prometta di offrirlo: voto, oppure: 3) si assume qualche cosa di divino che è un sacramento, o il nome stesso di Dio, come nel giuramento, nello scongiuro e nelle lodi divine.
V. LA DEVOZIONE.
Devozione (da devoveo = consacrazione alla divinità) in senso specifico è un moto riverenziale ed affettuoso insieme dell’anima che, conoscendo l’amabilità di Dio, si dona volontariamente al suo servizio (195). L’oggetto della devozione è Dio; egli ne è anche la causa principale, in quanto la da, la alimenta e l’accresce secondo il suo beneplacito (196). Si esige però da parte dell’uomo un atto della volontà, che occorre sia decisa, nonostante le difficoltà e le prove a rimanere al servizio di Dio (197). La devozione non è dunque frutto di sentimento, ma della volontà.
L’essenza della devozione consiste nella volontà ferma, costante e generosa di donarsi al servizio di Dio, piegandosi in tutto al suo volere. In tal modo essa differisce da quella religiosità vaga ed intermittente, che suppone una volontà fiacca ed un cuore avaro.
Qualità di una vera devozione sono il distacco dalle cose terrene, che porta ad una donazione completa e ad una sottomissione perfetta alla volontà di Dio in tutte le vicende della vita; il pieno disinteresse nel tendere alla perfetta unione con Dio senza la ricerca affannosa delle consolazioni inferiori, che possono accompagnare la devozione. La devozione si acquista con la preghiera e mediante l’abituale ed intima considerazione della grandezza di Dio e della propria miseria, Altri mezzi che possono aiutare ad ottenerla o accrescerla sono la meditazione dei misteri della vita, passione e morte di N. S. Gesù Cristo, la direzione spirituale, l’uso frequente dei Sacramenti, l’abitudine dell’unione con Dio, la mortificazione delle passioni, le devozioni particolari approvate dalla Chiesa e suggerite dai Santi (198).
Una volta raggiunta, la devozione fiorisce in letizia spirituale ed in fervore di sentimento, a meno che questo non sia sospeso per prova divina o per accidentali ostacoli di ordine naturale.
VI. LA PREGHIERA.
1. Natura e forma della preghiera (199).
La preghiera, intesa in senso generale, come elevazione dell’anima a Dio, non si limita solo a taluni atti formali del culto, ma comprende nel suo raggio tutte le opere buone che l’uomo compie nella sua giornata. In questo senso S. Agostino poteva dire che la vita del giusto è preghiera e che suo altare è la coscienza (200). In questo medesimo senso i teologi e i mistici parlano di una preghiera vitale, per distinguerla dalla preghiera formale (201). In realtà qualsiasi opera buona eleva a Dio la nostra anima ed ha un valore di impetrazione.
In senso proprio, ma ancora molto largo, dicesi preghiera qualsiasi movimento della mente a Dio. Così poteva essere definita dal Damasceno (+754) ascensione della mente a Dio (202) e viene ancora da alcuni considerata come un colloquio dell’uomo pio con la divinità (203). Ma in questo senso nel concetto di preghiera rientrano anche gli atti delle tre virtù teologali: nessuno meglio di colui che ama eleva a Dio la propria anima e conversa con Lui.
Sicché la preghiera, intesa in senso stretto, come atto specifico della virtù di religione, consiste nell’elevazione della mente a Dio, per esprimergli i sentimenti della propria dipendenza (204). Considerata sotto questo particolare aspetto, essa si distingue, per il suo contenuto, in preghiera di adorazione, di ringraziamento, di propiziazione e di impetrazione.
In qualsiasi caso la preghiera o sorge spontanea dallo spirito (preghiera mentale); oppure è legata ad una formula già definita (preghiera orale o vocale); nella prima forma la parola, anche se viene proferita, segue il movimento del pensiero; nella seconda, al contrario, il pensiero è suscitato dalla parola. Le parole, come anche i gesti, il portamento del corpo, cerimonie ecc., servono per rendere più facile la stessa preghiera. Non si può negare il valore direttivo e l’efficacia stimolatrice di questa seconda forma di preghiera, la quale del resto, talvolta è anche imposta. La prima tuttavia è in genere da preferirsi, per la sua più piena conformità con l’atteggiamento interiore di colui che prega, e per la sua maggiore rispondenza all’originalità dello spirito ed al movimento libero della grazia.
2. Valore e necessità della preghiera.
Valore e necessità sono due termini legati tra di loro da un intimo vincolo di causalità. La necessità della preghiera è una legge che scaturisce dalla sua medesima essenza. ” La preghiera, ha detto S. Tommaso, è l’atto proprio della creatura ragionevole ” (205).
Senza di essa l’uomo non è pienamente se stesso, non è cioè nell’ordine della sua razionalità e della sua attività libera quello che è nell’ordine ontologico: essere in tutto dipendente da Dio, come causa formale e come causa finale della sua esistenza, ma che deve altresì colla sua attività andare a Lui, nella continua ricerca dei mezzi, di cui ha bisogno per il suo cammino. Ancora una volta, come sempre, l’essere traccia la via al dovere. Riconoscere questa condizione di dipendenza e questo dovere di ricerca vuol dire riconoscere il dovere di adorare, di ringraziare, di chiedere.
Dovere da cui neanche Dio può dispensare, perché ontologicamente connesso con la condizione di creatura ragionevole; dovere in cui il diritto di Dio coincide materialmente col bisogno dell’uomo; così come la gloria del primo coincide con la felicità del secondo.
Per questo la S. Scrittura insiste continuamente sulla necessità della preghiera, per ottenere quello di cui si ha bisogno, per non soggiacere sotto il peso della tentazione, per resistere vittoriosamente alle insidie del nemico.
“Vigilate e pregate “(206). “Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete; picchiate e vi sarà aperto. Perché chiunque chiede, riceve; chi cerca trova; e a chi picchia sarà aperto” (207). “In verità, in verità vi dico: Se voi domanderete qualche cosa al Padre mio, in mio nome, Egli ve la darà” (208). “Pregate per non cadere in tentazione ” (209). Lo stesso S. Luca ricorda che Gesù “propose loro una parabola per mostrare che bisogna sempre pregare, né mai stancarsi” (210) .
E come sempre Gesù all’insegnamento unì l’esempio (211), ripetuto e imitato dagli Apostoli (212).
Perciò la Chiesa insegna che la preghiera è necessaria “di necessità di precetto” (dato il comando e l’esempio di Gesù) e inoltre per gli adulti, almeno in via ordinaria, “di necessità di mezzo”, cioè come mezzo per ottenere la grazia e con la grazia la vita eterna, dato che nel presente ordine di Provvidenza, Dio concede le grazie solo se si prega. La dottrina sarà riassunta da S, Alfonso nella celebre massima: chi prega certamente si salva e chi non prega certamente si danna (213),
Per questo l’atteggiamento dell’uomo di fronte a Dio non può esaurirsi nell’adorazione e nel ringraziare (Rousseau), ma deve svolgersi in richiesta; non già per rivelare a Lui i bisogni che già conosce o per mutare i suoi divini disegni ed il predefìnito corso delle cose; ma per rivelare a se stesso il proprio bisogno, cooperare attivamente al superamento di esso, mediante la ricerca dell’aiuto, e meritare così di ricevere ciò che Dio ha da tutta l’eternità decretato di concedergli secondo la legge della preghiera, subordinatamente cioè alla sua stessa ricerca.
I quietisti combattevano la preghiera di domanda come imperfezione, essendo atto di propria volontà ed elezione e quasi un volere che la divina volontà si conformi alla nostra e non la nostra a quella di Dio. Innocenzo XI condannò questa falsa interpretazione della preghiera di domanda(214).
I deisti del sec. XVIII si accanirono anch’essi contro la preghiera di domanda in quanto escludevano ogni comunicazione con Dio. Ugualmente alcuni filosofi moderni che ripetono quanto già fu asserito da Kant: la preghiera di domanda è indegna, perché interessata. Per concezioni affini la Chiesa ha posto all’Indice (18 marzo 1942) il libro del cattolico O. Karrer, Gebet, Vorsehung, Wunder (215), riconfermando così la dottrina tradizionale. Quando diciamo che la preghiera, anche sotto forma di richiesta, è necessaria, non si vuol dire che la concessione dei doni divini è assolutamente condizionata dalla preghiera: molte cose Dio concede, anche se non richieste. Ma in via ordinaria la preghiera costituisce un mezzo necessario per perseverare nel bene. Essa, anche quando suona richiesta, è innanzi tutto offerta: offerta di quanto l’uomo ha in suo potere per disporsi a ricevere l’aiuto, il suo desiderio.
Si capisce quindi l’invito dell’Apostolo a pregare senza interruzione (216) e si comprende altresì tanto la necessità quanto il dovere di pregare con una certa frequenza. Questa è fissata non soltanto dalle leggi ecclesiastiche relative al culto, ma anche dai bisogni e dai pericoli propri di ciascuno.
Alcune pie consuetudini introdotte nella vita cristiana (preghiera del mattino e della sera, Angelus Domini, Rosario), sebbene non siano comandate, corrispondono pienamente agl’insegnamenti della Scrittura (217) e della tradizione (218). La loro omissione il più delle volte non è senza una qualche colpa, per la causa da cui è determinata.
3. Qualità della preghiera.
Le principali qualità della preghiera sono l’umiltà, la devozione, la fiducia. Niente è più in contrasto con la sua essenza quanto l’atteggiamento borioso, già denunziato da Cristo, del fariseo che declama la sua innocenza ed i suoi meriti (219); nulla invece è più in armonia con lo spirito del culto quanto il sommesso atteggiamento del pubblicano, che si percuote il petto ed implora perdono. Chi non riconosce la sua totale dipendenza da Dio, non può né adorare, né ringraziare, né implorare.
Codesto riconoscimento è il principio della vera devozione. Ed è da questa che si misura il valore della preghiera, più che dal numero delle parole e dal tempo che vi si impiega. Per quanto anche le parole abbiano la loro utilità ed il tempo sia un coefficiente da non trascurarsi ai fini dello stesso raccoglimento. Ma a Dio non interessano né la verbosità ampollosa, né il formalismo meccanico da cui del tutto assente sia lo spirito (220).
Tuttavia non può dirsi che lo spirito sia del tutto assente, qualora ci sia stata almeno all’inizio la volontà di pregare. In tal caso le distrazioni, anche se colpevoli, ne abbassano il tono, ma non la svuotano completamente del suo significato. Questo invece verrebbe a cessare del tutto, qualora anche l’atteggiamento esterno fosse in contrasto con lo spirito della preghiera,
Del resto non può essere identico il giudizio circa le diverse forme di distrazione. Alcune infatti dipendono da una specie di atonia spirituale, connessa il più delle volte con i disturbi del sistema nervoso: esse più che fissare la mente in un oggetto estraneo alla preghiera, impediscono che essa possa attendere lungamente a questo. Altre invece dissipano positivamente lo spirito mediante immagini, sentimenti o considerazioni che per il loro contenuto, talvolta sono del tutto innocenti, talvolta invece tendono a inquinare l’anima (pensieri di vendetta, impulsi di ira, di sensualità ecc.). Le distrazioni più pericolose sono naturalmente queste ultime, ma nel giudicare delle medesime, non si può prescindere dalla diversa responsabilità del soggetto. Ne è impossibile, attesa la frammentarietà dei nostri atti, trovarsi di fronte a questa situazione, del tutto incoerente e strana, di un’anima che, mentre cede alla tentazione, si sforza tuttavia di pregare.
4. Meditazione e contemplazione.
Costituiscono le due principali forme della preghiera mentale. La meditazione arriva a Dio mediante la riflessione ragionata intorno ai suoi attribuiti, alle proprie miserie, alle virtù da conquistare.
5. La contemplazione.
La contemplazione invece fissa direttamente io sguardo ammirato in Dio, senza lo sforzo del raziocinio. Essa è generalmente il frutto della prima, ed a questa spesso si unisce e si alterna durante il medesimo esercizio.
L’una e l’altra sono vera preghiera, non solo in senso largo, in quanto elevano a Dio la mente, ma anche perché dispongono lo spirito agli atti formali del culto. Tutti i maestri di vita spirituale sono concordi nell’affermare la loro necessità per il progresso dell’anima.
6. La preghiera di domanda.
Ne abbiamo già considerata la natura e la necessità. La nostra domanda solo da Dio può essere esaudita, ed in questo senso solo a Lui va rivolta; ma essa può essere sostenuta presso il trono di Dio, anche dai beati: in questo senso ci rivolgiamo a loro, implorando la loro intercessione. Né questa loro mediazione svaluta la mediazione redentrice di Cristo, essendo dalla medesima essenzialmente distinta e ricevendo da essa il suo fondamentale valore. Né codesta intercessione può considerarsi come superflua, essendo quanto mai conforme al piano della provvidenza divina, per cui noi siamo tutti uniti nel vincolo della comunione dei Santi (221).
Questo medesimo vincolo fa sì che la nostra preghiera possa avere come termine di utilità anche il bene degli altri; esige anzi che essa abbia, almeno qualche volta, questo respiro largo che la renda formalmente e riflessamente cattolica, cioè universale.
Oggetto delle nostre domande possono essere non soltanto i beni spirituali, ma anche quelli terreni, essendo lecito chiedere tutto ciò che è lecito desiderare (222) ma appunto per questo è necessario tenere conto nelle nostre preghiere della gerarchia dei valori, in conformità alla linea segnata da Nostro Signore nel ” Pater noster” (223), e giova per questo, ad evitare qualsiasi disordinata sopravvalutazione dei beni terreni, richiamare spesso alla memoria il monito dello stesso Maestro; ” Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in sovrappiù ” (224). Tuttavia, ove si osservi codesta gerarchia, non è detto che la nostra preghiera debba limitarsi ad un’implorazione generica, ma può anche implorare beni particolari, purché, qualora si tratti di beni non necessari alla salvezza, la richiesta sia almeno implicitamente condizionata al beneplacito divino, di modo che così passiamo in mezzo ai beni temporali, senza perdere quelli eterni (225).
7. L’efficacia della preghiera.
L’efficacia impetratrice della preghiera è assicurata dall’esplicita promessa divina: chiunque chiede riceve, chi cerca trova, e sarà aperto a chi picchia; se l’uomo che pure è cattivo, al figlio che chiede il pane, non porge il sasso, quanto più il ” Padre che è nei cicli, concederà cose buone a coloro, che gliele domandano ” (226).
Tuttavia in queste medesime parole la promessa divina trova una naturale determinazione: solo il bene ne è l’oggetto; e bene, in senso assoluto, è solo ciò che concerne la vita, che dispone l’anima a raggiungere quel grado di gloria cui Dio da tutta l’eternità l’ha predestinata. La preghiera umana non ha lo scopo di sconvolgere o modificare i disegni divini, ma di implorarne e prepararne l’attuazione. È vero che molto spesso noi non sappiamo cosa sia necessario chiedere come conviene (sicut oportet); ma non per questo la preghiera viene ad essere frustrata dalla sua efficacia, così come non viene a perdere il suo significato profondo di ricerca di ciò che è veramente utile; ed è in questo senso che Dio la esaudisce. Del resto lo spirito che abita nei nostri cuori viene incontro alla nostra debolezza, chiedendo per noi ” con gemiti inenarrabili ” (227), e Dio ” che scruta i cuori, da ciò che desidera lo spirito ” (228).
Inoltre perché la preghiera abbia la sua piena efficacia, si richiede che sia rivestita di quei requisiti che la rendano atta allo scopo, per cui è da Dio voluta: che sia cioè umile, fiduciosa (229), perseverante (230), sincera; ne potrebbe esser tale qualora mancasse nell’orante anche l’iniziale volontà di convenirsi a Dio. Se questa invece c’è, la preghiera divina vale anche per i peccatori. La parabola del pubblicano (231) è quanto mai eloquente, e risponde pienamente al metodo di Dio, che non ispira mai inutilmente il pio desiderio, né si ferma a metà.
8. La preghiera cristiana.
Nell’attuale ordine della Provvidenza le nostre preghiere devono appoggiarsi necessariamente a Cristo. Egli è l’unico e necessario Mediatore tra noi ed il Padre (232). Per questo alla preghiera fatta nel suo nome è assicurata una particolare efficacia: la riflessa consapevolezza della sua mediazione e della nostra mistica unione a Lui non può non corroborare la nostra fiducia e potenziare tutti gli altri elementi richiesti per l’efficacia della nostra domanda.
Per questo ancora la Chiesa, nella sua preghiera liturgica, si rivolge quasi sempre a Dio, al Padre, per mezzo di Cristo (233), per quanto sia pienamente giustificata la preghiera rivolta direttamente a Cristo, e se ne trovino tracce anche nei primi secoli non solo nelle preghiere private, ma anche in quelle liturgiche.
Tra le numerose e bellissime preghiere di cui è ricca la liturgia e la pietà cristiana in genere, se ce n’è una che particolarmente si raccomanda, è la preghiera del Padre nostro, che Gesù Cristo stesso ci ha insegnato e raccomandato. ” È la preghiera più eccellente, perché uscita dalla mente e dal cuore di Gesù e racchiude in sette brevi domande ciò che dobbiamo chiedere a Dio come suoi figlioli e come fratelli tra noi” (234).
VII. ADORAZIONE (235).
L’adorazione, in quanto atto specifico, distinto dall’adorazione, considerata come principio informatore di tutti gli atti di culto, è il formale riconoscimento del supremo dominio di Dio su di noi e della nostra sottomissione a Lui. Non si limita al solo atteggiamento interno dello spirito, ma tende a tradursi anche in espressioni esterne.
L’adorazione quindi può essere interna o esterna. L’interna o mentale, essendo l’anima dell’esterna, quest’ultima non ha senso se non in quanto deriva dalla prima o serve al suo incremento. La manifestazione dei propri sentimenti di sottomissione mediante un gesto espressivo del proprio corpo si può fare in diverse maniere: prostrandosi, genuflettendo, inchinando il corpo ecc. Bisogna però notare che nessuno di questi gesti è per natura sua un atto di latria: lo diventa soltanto o per l’intenzione di chi lo fa o per la determinazione della Chiesa (236).
L’adorazione, come atto distinto dalla semplice venerazione, è un atto del culto di latria.
Si può prestarla quindi unicamente alla SS. Trinità, alle singole Persone Divine, a Cristo nostro Signore, anche sotto le specie sacramentali. Compete anche all’Umanità Santissima di Nostro Signore, perché sostanzialmente unita alla sua Divinità, e alle singole sue parti (S. Cuore).
Alle reliquie della S, Croce e a tutte le altre reliquie che ci ricordano il Salvatore, alle immagini di Lui, come a quelle della SS. Trinità, al Crocifisso spetta un’adorazione relativa in quanto è diretta alla persona rappresentata (alcuni preferiscono parlare di culto minore) (237).
NOTE
182 F. SUAREZ, De virtute religionis, tr. 1, 1. 2; S. TOMMASO, S. Theol. 2-2, q. 81, 103; F. CABROL, Culte chrétien, in DAFC, I, 832-851; A. J. J. HAINE, De hyperdulia eiusque fundamento, Louvain 1864; F. CATHREIN, Filosofia morale, II, Firenze 1920, p, 42 ss.; A. CHOLLET, Culte en general, in DTC, III, 2404-2427; R. GUARDINI, Lo spirito della liturgia, Brescia 1930; F. TILLMANN, Die Katholische Sittenlehre, Dùsseldorf 1935, 192-203; I. B. UMBERG, De religioso cultu relativo, in Per., 30 (1941) 162-192; A. MONTANARO, II culto del SS.mo Nome di Gesù (teologia, storia, liturgia), Napoli 1958; Concilio Vatic. II, cost. Sacrosanctum Concilium, del 4 dic. 1963: AAS 56 (1964) 97 ss.
183 Gv 4, 23 ss.
184 Lc 2, 41; 4, 16.
185 Pubblico quindi non vuole significare che l’atto di culto è fatto in presenza di altri, e quindi in pubblico, ma che esso è compiuto a nome della Chiesa, da un ministro a ciò legittimamente deputato e secondo le leggi e le prescrizioni della Chiesa stessa.
186 Mt 6, 18,
187 Mt 18, 20.
188 Nel linguaggio ecclesiastico si usa innanzitutto la parola liturgia lê´iton ¹érgon [leiton ergon = opera pubblica)] per indicare il complesso degli atti di culto pubblico o ufficiale della Chiesa. Poiché questi atti possono essere presi o nel loro complesso o separatamente, perciò si paria di liturgia della Messa, dei Sacramenti, ecc.. E perché questi atti non sono compiuti ovunque allo stesso modo, perciò si parla di liturgia orientale, occidentale, ecc.
Sono funzioni liturgiche le seguenti: offerta del Sacrificio della Messa, amministrazione dei Sacramenti e dei Sacramentala Liturgia delle ore. Alcuni altri atti di culto, pur essendo approvati e favoriti dalla Chiesa non fanno tuttavia parte del suo culto ufficiale (liturgico); sono dette funzioni extra-liturgiche. Tali la Via Crucis, la recita del S. Rosario, le novene, i mesi, ecc.
I libri che regolano il culto liturgico, sono detti libri liturgici. Tali sono: il Messale, i Lezionari, gli Ordines (Riti) baptismi, confirmationis, poenitentiae, unctionis infirmorum matrimonii, ecc., il Pontificale, la Liturgia delle ore.
189 Enciclica Mediator Dei, in AAS, 29 (1947) 521-595; trad. ital. in Civiltà Cattolica (1947) IV, 481-535; L. EISENHOFER, Compendio di Liturgia, Torino 1940; R. GUARDINI, Lo spirito della Liturgia, Brescia 1946; ID., I santi segni, Brescia 1947.
190 Cost. Sscrosanctum Concilium (4 dicembre 1963); AAS 56 (1964) 97-144; Istruzione per la esatta applicazione della cost.. sulla sacra liturgia del 26 settembre 1964; Seconda istruzione per la esatta applicazione della costituzione sulla s. liturgia del 4 maggio 1967; Terza istruzione per la esatta applicazione della costituzione sulla sacra liturgia del 5 settembre 1970: AAS 56 (1964) 877-900, 59 (1967) 442-453, 62 (1970) 692-704; TH. KLAUSER, La liturgia nella chiesa occidentale, Torino – Leumann 1971.
191 Rm 11, 36.
192 Gv 21, 7; cfr. F. OLGIATI, La pietà cristiana: esperienza ed indirizzo, Milano 1935; M.C.S.L, La pietà nella storia, in Civiltà Cattolica (1952) III, 509-519.
193 Es 20,2-11; Lev 26, 1-2; Dt 5, 6-15.
194 II seguente schema da una visione più immediata:
Atti della virtù di religione principalmente interni (devozione, preghiera)
Atti della virtù di religione principalmente esterni (adorazione, osservanza delle feste, sacrificio, offerte, sacramento, voto, giuramento, scongiuro, lodi di Dio
E’ questa la classifica di S. Tommaso (S. Theol. 2-2, q, 81-100), non priva di inconvenienti propri ad ogni catalogazione, come il porre la preghiera tra gli atti interni e 1a lode divina come atto a sé stante, mentre avrebbe trovato il suo posto adatto nella preghiera pubblica.
195 Cfr. A. L. MASSON, Vie chrétienne et vie spirituelle, Paris 1929; J. W. CURRAN, The thomistic concept of devotion, Illinois 1941; E. DUBLANCHY, Devotion, in DTC, IV,
680-685. In senso derivato la devozione indica lo stato di colui che abitualmente pratica il culto divino; siccome poi gli atti di devozione si manifestano in un modo di agire pronto e fervoroso, estendendo il significato, devozione indicherà la modalità abituale degli atti di devozione cioè la prontezza fervorosa della volontà, con esclusione della tiepidezza.
196 S. Theol. 2-2, q. 82, a. 3. S, Tommaso annovera la devozione tra gli atti interiori della virtù della religione, assieme alla preghiera.
197 Da ciò segue che la devozione non deve limitarsi ad una pura conoscenza intellettuale delle esigenze di Dio, ma deve tendere ad un’unione affettiva, S. Theol. 2.2, q. 180, a. 1, 7.
198 Le pratiche di devozione sono dunque mezzi per raggiungere il fine (devozione), non sono la devozione stessa. Le grandi devozioni cattoliche sono indirizzate alla SS.ma Trinità, a N. S. Gesù Cristo, alla B, Vergine Maria, a S. Giuseppe, agli Angeli e ai Santi e alle stesse anime del Purgatorio. Le pratiche di devozione più comuni, come il Segno della croce, la Via Crucis, l’Ora santa, la Visita del SS.mo Sacramento, i 9 Venerdì, ecc., hanno avuto l’approvazione esplicita o implicita della Chiesa e il favore dei Maestri di spirito.
Queste devozioni offrono dei preziosi vantaggi e grazie particolari di ordine spirituale e anche materiale. Tutte producono effetti morali e sociali del più alto interesse.
Occorre però evitare gli abusi. Le pratiche di devozione divengono abusive quando fanno passare delle pratiche del tutto secondarie avanti agli atti fondamentali della religione avanti al culto liturgico; quando prendono nella vita una parte troppo preponderante, passando perfino dinanzi ai doveri del proprio stato; quando tutto l’effetto si fa dipendere dall’atto esteriore o peggio ancora da una particolare combinazione degli atti esteriori. Un culto interiore con la pratica della virtù cristiana è la condizione essenziale perché le pratiche di devozione raggiungano il loro scopo e si eviti la superstizione. Cfr. G. SCHRYVERS, I principi della vita spirituale, Torino 1946, 62 ss.; I. BRICOUT, Les dévotions catholiques, in R. AIGRAIN, Ecclesia, enciclopedie populaire des connaissances religieuses, Paris 1948,226-48; E. JANSSENS, De praxibus devotionis extraliturgicis, in Collectanea mechliniensia, 34 (1949) 433-34.
199 Catechismus decreti Concilii Tridentini ad parochos, p. 4, n. 358-424; S. TOMMASO, S, Theol. 2-2, q. 83, a. 1-17; F. SUAREZ, De religione, in Opera omnia, XII,
1. 1-3; S. ALFONSO, Del gran mezzo della preghiera, Venezia 1759; J. M. L. MONSABRÉ, La prière, Paris 1906; A. D. SERTILLANGES, La prière, Paris 1914; H. BREMOND, Introduction a la philosophie de la prière, Paris 1924; CH. V. HERIS, L’eminente dignité de la prière de l’Eglise. Prière liturgique et vie chrétienne, Louvain 1932; R. PLUS, Comment bien prier. Comment toujours prier, Toulouse 1932; A. FONCK, Prière, in DTC, XIII, 169-244; R. GRAF, Maestro, insegnaci a pregare, Brescia 1941; A. STOLZ, L’ascesi cristiana2, Brescia 1944, 124 ss.; P. CHARLES, La preghiera vissuta2, Torino 1946; F. BRAMBILLA, La necessità della preghiera secondo S. Agostino, Roma 1946; VARI AUTORI, La preghiera, Milano 1947; R. GUARDINI, Introduzione alla preghiera, Brescia 1948; A. LAUB, Gebetslehre mit psychologischen Himweisen und Richtlinien, Eisieden 1949; A. SIMONET, Qu’est-ce que l’oraison?, in Rev. dioc. de Namur (1950) 1-5; K. RAHNER – H. NEEL, La prière de l’homme moderne. Necessitè et bienfaits de la prière, Paris 1951; G. BERTETTO, La preghiera secondo l’insegnamento di S. Tommaso, Alba 1951; UMILE DA GENOVA, Preghiera, in EC, IX, 1923-1930; A. D’ALÈS, Prière, in DAFC, IV, 270-301; E. BEHR SIGEL, Prière et sainteté dans l’Eglise russe, Paris 1950; J. DE MONTLÉON, Traitè sur l’oraison, Paris 1950; G. DIRKS, Notes sur la prière, in Rev. ascét. myst., 21 (1951) 105-131; A. GOODIER, Savez-vous prier?, Paris 1950; R. GUARDINI, Initiation a la prière, Paris 1951; F. M. MOSCHNER, Christliches Gebetsleben. Beirachtungen und Anleitung zum wesenhaften Gebet Freiburg i. Br. 1951; P. PALAZZINI, Preghiera, in Tabor, 6 (1952) 239-249); R. THIBAUT, La prière et l’effort, in Nouv. Rev. Théol., 74 (1952) 1078-1083; P, PONSARD, Essai sur la prière a l’usage de ceux qui ont peine a prier, Paris 1952; G. CAPRILE, Appunti su l’orazione mentale, Firenze 1953; V. DEL GIUDICE, La preghiera, Roma 1953; E. STEIN, La preghiera della Chiesa, Brescia 1959; A, HAMMAN, Le prière. Le Nouveau Testament, Tournai 1959; F. M, MONSCHNER, Introduzione alla preghiera, Roma 1960; G. LEFEBURE, Le grazia della preghiera, Sorrento 1960; J. HENRSCHEN, Nous du Christ et voies d’oraison. Roma 1960; G. RINALDI, La preghiera nell’Antico Testamento, Milano 1961; A. Rojo MARIN, Teologia della perfezione cristiana, Roma 1963; C. VAGAGGINI e collaboratori, La preghiera nella Bibbia e nella tradizione patristica e monastica, Roma 1964; G. VAGAGGINI, II senso teologico della liturgia, Roma 1965; La preghiera, a cura di R.. Boccasino, Roma 1967, 3 voll.
200 Liber de spiritu et anima, PL 39, 1887.
201 S. CATERINA DA SIENA, Dial,, e, 65,
202 De fide, 1, 3, e. 24: PG 94, 1090.
203 S. GREGORIO NISSENO, Orat, 1 de orat. domin., PG 44, 1125; S. Giov. CRISOSTOMO, In Gen., hom. 30, n. 5: PG 53, 280,
204 Cfr. S. BRUNONE, PL 142, 169; S. TOMMASO, S. Theol., 2-2, q. 83, a. 1, 3.
205 S. Theol. 2-2, q. 83, a. 10.
206 Mt 26, 41; cfr. anche Lc 18, 1.
207 Mt 7, 7 ss,
208 Gv 16, 23.
209 Lc 22,40.
210 Lc 18, 1.
211 Mc I, 3.5; Mt 14, 23; 26, 39 ss,; 27, 46; Lc 23, 34 ecc.
212 At 1, 14; 2, 42; 3, 1; 6, 4, ecc.
213 Del gran mezzo della preghiera, c. 1, ed. Paoline, Alba s. a.
214 Prop. 14a di Molinos, condannata il 20 novembre 1687; Denz. S. 2214 (già 1234).
215 AAS 34 (1942) 100.
216 l Ts 5, 17; cfr. ancora Rm 12, 12; Col 4, 2; 1 Pt 4, 7, ecc.
217 Mc I, 35; Mt 14, 23.
218 Cfr. le encicliche di Leone XIII sul Rosario; enc. Marialis cultus, di Paolo VI del 2 febbraio 1974: AAS 66 (1974) 113-168.
219 Mt 6, 5 ss.; Lc 18, 9-14.
220 Mt 6,7.
221 Conc, Trid., Sess., XXV, de invocatione Sanctorum: Denz, S, 182 (già 984), Cfr. A. WISSING, Oculto dos santos segundo a “Mediator Dei”, in Revista eccl. brasileira. 11 (1951) 71-84.
222 S. AGOSTINO, Ep. 130 (al. 121), e. 12 ad Probam: PL 33,503.
223 Mt 6,9-13.
224 Mt 6,33,
225 “Dalla fede siamo istruiti anche sul senso della nostra vita temporale”, Cost. dogm. Lumen gentium, 48.
226 Mt 7, 7 ss.; Lc. 11, 9 ss,; cfr ancora Gv 15, 7.
227 Rm 8, 26.
228 Rm 8, 27; cfr. Sal. 7, 10.
229 Mt 7, 7 ss.; Le 11, 9 ss,; Gv 16, 23; Giac 1, 6 ss,
230 Lc 11, 5 ss.
231 Lc 18, 9 ss.
232 Gv 16, 23; 1 Tm 2, 5; Eb 8, 6; 9, 15; 12, 24.
233 Cfr. Per Dominum nostrum Jesum Christum degli Oremus della Chiesa.
234 Catechismo di Pio X, n. 425.
235 F. SUAREZ, De virtute religionis, tr. 2, 1. 1, e. 1-3; S. TOMMASO, S. Theol. 2-2, q. 84; J. BAINVEL, Coeur Sacre de Jésus, in DTC, III, 271-303; E. BEURLIER, Adoration, in DTC, I, 437-442; A. CHOLLET, Culte en general, III e IV, in DTC, III, 2414-2419; L. JAMBOIS, Adoration et prìère, in Vie spirituelle, 88 (1953) 134-140.
236 Nel rito latino hanno soltanto questo significato: la prostrazione, la genuflessione, l’inclinazione del corpo e l’inclinazione profonda del capo; non però, se fatti davanti a persone viventi. Invece l’antica adorazione, il bacio della mano, volgendola poi verso l’oggetto venerato è andata completamente in disuso, fuori dell’uso popolare in alcune regioni, dov’è semplice segno di venerazione.
237 R. BELLARMINO, De imag. sanct., II, 24.