Appunti in margine ad una ipotesi teologica sul peccato degli angeli: dalla “imitatio Christi” alla “imitatio Diaboli”…
APPUNTI IN MARGINE AD UNA IPOTESI TEOLOGICA SUL “PRIMO PECCATO”
Il problema del male è certamente il più difficile e il più “oscuro” che la mente dell’uomo abbia mai affrontato. Si può dire che la pseudo-gnosi (la pretesa dell’uomo di “salvarsi”, cioè di conseguire il suo fine ultimo, mediante la conoscenza da lui acquisita naturalmente) si è sviluppata attorno a questo problema. Così come certamente i racconti della creazione e della caduta riportati nel libro della Genesi intendevano dare una risposta a questa domanda dell’uomo in dialogo e in polemica con i miti cosmogonici dei popoli circostanti Israele.
Le “origini” del male
Per la sua soluzione è importante indagare il male nella sua accezione, per così dire, più pura, in forza del principio metafisico: “Primum in quolibet genere est causa eorum quae sunt post”. Un principio che è metafisico e si applica dunque analogicamente, cioè in modi essenzialmente diversi a seconda della diversità della materia. Essendo però chiaro che la materia in oggetto presenta una difficoltà (una opacità) particolare per il già di per sé delicato uso dell’analogia dell’essere. Infatti, pur esistendo – non si può negare che il male esista, basta l’esperienza più volgare – non è propriamente una res, ma una privazione di essere. Il male “est in rebus, sed non est res quaedam”, “esiste, ma non è un qualcosa”.
Innanzitutto dobbiamo scartare la categoria del male metafisico ideata da Leibniz, perché se è vero che il male è privazione dell’essere, bisogna però aggiungere che non ogni privazione è un male, ma solo la privazione dovuta in virtù dell’ essenza e delle proprietà essenziali di una data natura. Non è un male per l’uomo l’essere sprovvisto di ali, mentre lo è per un uccello. La diversità delle nature – resa possibile dal fatto che l’una ha qualcosa che all’altra manca – è infatti un bene, per cui l’universo finito riesce a riflettere, nella molteplicità, l’infinita perfezione di Dio. “La gloria di colui che tutto move per l’universo penetra, e risplende in una parte più e meno altrove”. Il male fisico non è il male più grande, perché tocca solo le realtà composte di materia e forma e non coinvolge le forme sussistenti, cioè gli esseri spirituali in quanto tali. Il male più elevato è, senza dubbio, il male morale. Il male liberamente voluto. E, nel genere del male morale, il male sommo è quello della creatura più elevata. E’ il peccato dell’angelo. Primo ontologicamente, perché della creatura più perfetta, e primo anche cronologicamente, perché si situa all’inizio della storia. O meglio, nel “prologo in cielo” della storia umana.
Teologia d’altri tempi…
Un’indagine sul peccato dell’angelo, a chi è troppo condizionato dalle mode teologiche contemporanee, rischia di apparire come qualcosa di arcaico, di pretenzioso e, comunque, di lontano dai problemi concreti dell’uomo moderno. Un problema da porre senz’altro accanto alla famigerata quaestio “sul sesso degli angeli”. Il curatore dell’edizione italiana di un recente manuale tedesco di Dogmatica, omette tutta la sezione dedicata appunto a “Il peccato degli angeli”, con la seguente motivazione: “i dati della rivelazione […] sono così precari da far apparire inconsistenti molte riflessioni teologiche sulla realtà e la natura del peccato angelico”.
Effettivamente chi cercasse nella Bibbia i dettagli espliciti di questa problematica, che pure ha fatto versare tanto inchiostro ai teologi del passato (soprattutto agli scolastici), rimarrebbe deluso. Ma sarebbe colpa sua, perché si accosterebbe alla Scrittura con un atteggiamento sbagliato, isolando il testo sacro dalla tradizione e fermandosi quindi inevitabilmente alla sua superficie. Qui si tocca con mano la verità di quanto ricordato ancora di recente dal Concilio Vaticano II: “la Chiesa attinge la sua certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola sacra scrittura” (DV 9). Anche qui la Scrittura deve essere letta in profondità, con l’aiuto di una metafisica degna del suo nome e prestando grande attenzione all’analogia biblica e all’analogia della fede. Cioè all’armonia della Scrittura concepita come un tutto, come il libro di un unico autore, e come il libro di una comunità credente – la Chiesa dell’Antico e del Nuovo testamento – e che deve quindi essere “letta e interpretata con l’aiuto della stesso Spirito mediante il quale è stata scritta” (DV 12). Chi affrontasse la Bibbia prescindendo dalla Chiesa e dalla sua tradizione, che eredita anche quella del popolo dell’Antica Alleanza, si troverebbe davanti ad un pulviscolo di testi isolati e parcellizzati, perché non ha più senso parlare di una Sacra Scrittura senza una Chiesa che stabilisca il canone. Costui accuserebbe i grandi teologi del passato intenti ad indagare sulla natura del peccato degli angeli di mentalità “non biblica”, mentre sarebbe proprio lui ad avere una mentalità assolutamente estranea a quella del mondo biblico.
E’ vero che ci troviamo di fronte a verità che, nel complesso della Rivelazione, non occupano una posizione centrale (cfr. UR 11), ma esse conservano però un loro peso, anche esistenziale, tutt’altro che trascurabile.
Problemi sul peccato degli angeli
Riguardo al peccato degli angeli la Chiesa ci certifica innanzitutto della sua esistenza. Gli angeli malvagi non sono stati creati tali, ma lo sono diventati. “Diabolus […] et alii daemones a Deo quidem natura creati sunt boni, sed ipsi per se facti sunt mali”. Si tratta di una verità di grandissima importanza: vuol dire che il male non è una natura, non è creato da Dio, ma è frutto della libera scelta di creature dotate di intelligenza e volontà. Gli scolastici poi si sono posti la domanda: in quale istante gli angeli hanno peccato? Nell’istante stesso della creazione o in quello successivo? Anche qui non si tratta di sottigliezze, perché la posta in gioco è il male come attributo di Dio o come a lui assolutamente estraneo. Se gli angeli infatti hanno peccato nello stesso istante in cui Dio li ha posti nell’essere, difficilmente si può dissociare il male dalla loro natura e, quindi, dalla volontà positiva di Dio. Ma se Dio vuole il male, allora il male è già in lui… La concezione del male come attributo di Dio trova credito nelle speculazioni cabbalistiche e, in generale, nel pensiero gnostico antico e moderno, per es. in Jacob Böhme, in F. W. J. Schelling e, in certo qual modo, anche in G. W. F. Hegel, oltre che in C. G. Jung. Mi pare inutile sottolineare come a queste prospettive soggiaccia – spesso nonostante le apparenze e/o le intenzioni in contrario – uno spaventoso pessimismo: un male attributo divino è infatti un male ultimamente insuperabile. Alla “Buona notizia” appartiene invece costitutivamente la verità della definitiva vittoria del bene sul male.
La Chiesa non ha definito la natura del peccato angelico. Tuttavia la certezza del cristiano sulle verità da credere non è tratta solo dalle definizioni ma anche dal magistero ordinario, di cui uno dei criteri più efficaci è il consenso dei teologi; ed essi si trovano per lo più d’accordo nell’affermare, sempre appoggiandosi sulle Scritture, che il peccato dell’angelo fu un peccato di orgoglio. Si può dire che c’è accordo nel ritenere che è consistito nel desiderio di equipararsi in qualche modo a Dio, nel “voler essere come Dio”. Ma l’accordo cessa quando si vuole precisare meglio i termini di questo desiderio. Soprattutto c’è chi parla di una prova a cui Dio avrebbe sottoposto l’angelo, analoga a quella cui fu sottoposto l’uomo.
Le verità di cui il magistero della Chiesa ci mette in sicuro possesso sul nostro argomento sono queste: 1. Esistono degli angeli cattivi; 2. Sono diventati tali (c’è stato un “peccato degli angeli”); 3. Questi angeli cattivi sono esseri personali e non dei meri simboli. Questi asserti non sono staccati, ma si organizzano logicamente attorno ad una verità centrale: il male non è una “natura”, ma è frutto di una volontà libera. E non solo della volontà libera dell’uomo, ma di una scelta che lo precede (e che non è naturalmente di Dio!). Se c’è stato un peccato angelico, allora esistono degli angeli cattivi e questi non possono essere che esseri personali (solo delle persone possono emettere degli atti di volontà). Rifacciamo il cammino inverso: la negazione del peccato degli angeli, solidale con quella della loro personalità, mette sulla strada della negazione della responsabilità umana. Se si guardano le cose non con superficialità, non si fatica infatti a cogliere la sproporzione fra gli abissi tenebrosi del male che si trova di fatto nella storia dell’uomo e la debole psicologia umana e si cerca quindi di eliminare uno dei due referenti: o la responsabilità dell’uomo, o la inquietante profondità del male. Si arriva comunque in sostanza a banalizzare il male, facendone una componente della natura e dunque di Dio.
Cercare maggiori dettagli sulla questione vuol dire perdere il contatto con un vero e proprio consensus theologorum ed entrare in materia disputata. Tuttavia se diminuisce la certezza non vien meno l’interesse. Il pensiero moderno, irrimediabilmente soggettivista, privilegia la certezza (che è uno stato soggettivo) sulla dignità dell’oggetto. In una concezione realista è vero il contrario: “il minimo di conoscenza in rapporto alle cose elevate è più desiderabile del più sicuro sapere sulle cose più basse”. Indagare come si è verificata la più colossale catastrofe della storia, anzi della metastoria, non è ozioso. Perché si tratta anche della catastrofe dalle conseguenze più gravi e attuali. Al suo confronto le più spaventose sciagure che hanno straziato il mondo, una Hiroshima e Nagasaki o una immane pestilenza sono ben poca cosa… o un lontano effetto. Un disastro archetipico, per quanto si possa parlare di archetipicità anche a proposito del male, che è privazione di essere… Naturalmente si deve procedere con cautela, cioè, nella misura in cui ci si allontana dall’evidenza biblica e di ragione, deve aumentare l’attenzione all’autorità della Chiesa e dei probati auctores. Il metodo teologico assomiglia un po’ al procedimento induttivo: come lo scienziato formula ipotesi e teorie per sottoporle sempre alla prova decisiva dei fatti, così il teologo, nel formulare ipotesi esplicative, va a tentoni e cerca sempre conferma nel consenso della Chiesa – sia a livello esplicito di Magistero che a livello di insegnamento comune dei teologi e di consensus fidelium – che ha per lui valore di “fatto” dogmatico.
Sulle orme di Scheeben e di San Tommaso
In questa nostra ricerca seguiremo l’ordine e, in gran parte, anche il contenuto delle riflessioni che all’argomento ha dedicato M. J. Scheeben, forse l’ultimo grande teologo ad averlo trattato estesamente nel quarto libro del suo monumentale ma incompiuto Handbuch der katholischen Dogmatik. Scheeben poi non fa che approfondire, anche se in modo molto personale, il pensiero dei grandi scolastici, in particolare – naturalmente! – di san Tommaso d’Aquino.
E’ opinione comune, come abbiamo visto, che il peccato dell’angelo è consistito nel “voler essere come Dio”. La maggioranza dei teologi intende questo “voler essere come” alla stregua del desiderio di somiglianza in qualcosa per cui alla creatura non sia lecito assimilarsi al creatore. La natura precisa di questo qualcosa è però spiegata diversamente.
Per Giovanni Duns Scoto (1270 – 1308) Satana ha desiderato, con un desiderio di “simplici complacentia” (di “puro compiacimento”), di essere come Dio addirittura secondo l’essenza, ha cioè concepito il desiderio velleitario di una vera e propria uguaglianza. Si è trattato quindi non tanto di superbia, quanto di lussuria spirituale. E’ chiaro che la posizione di Scoto risente decisamente della sua impostazione volontaristica: risulta infatti difficile capire come la volontà, che sempre, per definizione, deve conseguire ad una qualche conoscenza, possa portarsi su qualcosa che non può essere colto dall’intelligenza in quanto assurdo. Ed è assurdo che il finito si uguagli nell’essenza all’infinito.
Per san Bonaventura da Bagnoregio (1221 -1274) è stato il radicale rifiuto della sottomissione e quindi il desiderio di una preminenza assoluta, quale può competere solo a Dio.
Per Francisco Suárez (1548 – 1619) è consistito nel desiderio di Satana che l’unione ipostatica si realizzasse con la sua propria natura angelica, posto che Dio avrebbe fatto conoscere agli angeli il decreto dell’incarnazione e dell’assunzione della natura umana nella persona del Verbo. Nell’accettazione o meno di questa decisione divina, che elevava una natura inferiore ad una dignità incomparabilmente superiore a quella della natura angelica sarebbe consistita la prova degli angeli, come per gli uomini sappiamo con certezza che ci fu la prova dell’albero della scienza del bene e del male.
San Tommaso d’Aquino (1224/25 – 1274) mette a fuoco il problema con la consueta profondità nella Summa theologica (I, q. 63, a 3 c.) e sembra già confutare, o quanto meno correggere, le opinioni posteriori di Scoto e Suárez. Per l’Aquinate innanzitutto è impossibile che Satana abbia potuto in qualunque modo desiderare di “diventare Dio”:
L’angelo peccò, senza dubbio, perché desiderò di essere come Dio. Ma questo si può intendere in due maniere: primo, di una [vera] uguaglianza; secondo, di una [qualsiasi] somiglianza. [L’angelo] non poté certo desiderare di essere come Dio nella prima maniera: poiché con la sua intelligenza naturale capiva che questa era una cosa assurda, tanto più che in lui il primo atto peccaminoso non era stato preceduto, come talora accade per noi uomini da un abito o da una passione, la quale, offuscandone le potenze conoscitive, avrebbe potuto far sì che egli nel suo giudizio particolare scegliesse una cosa impossibile. – Ma anche ammettendo che la cosa fosse possibile, sarebbe tuttavia contraria al desiderio naturale. C’ è infatti in ogni cosa la tendenza naturale a conservare il proprio essere: ora, questo essere non si conserverebbe se venisse trasformato in un’altra natura. Perciò nessuna realtà posta in un grado naturale più basso può desiderare il grado della natura superiore. L’asino, p. es., non desidera di essere un cavallo: poiché se fosse trasformato nel grado della natura superiore non esisterebbe più. Ma qui abbiamo un inganno della nostra immaginazione: dal momento infatti che l’uomo desidera di occupare nella natura un grado superiore al suo, rispetto a certe perfezioni accidentali, le quali possono essere accresciute senza la scomparsa del soggetto, si pensa che l’uomo possa desiderare un grado naturale più alto, al quale non potrebbe giungere che cessando di esistere. Ora, è chiaro che Dio è superiore all’angelo non per delle perfezioni accidentali, ma per un diverso grado di natura: anzi, anche tra gli angeli uno è superiore all’altro in questa maniera. E’ perciò impossibile non solo che un angelo desideri di essere uguale a Dio, ma persino di essere uguale a un angelo superiore.
Il Diavolo è troppo intelligente per desiderare l’assurdo! Non dobbiamo attribuire a lui quello che è invece possibile all’uomo che si lascia ingannare dall’immaginazione. L’uomo può pensare di poter rivestire alcuni attributi di Dio (come l’eternità, l’onnipotenza, l’infinità, ecc.) immaginati però alla guisa delle proprietà degli esseri materiali o, comunque, finiti, che sono distinte dalla sostanza cui ineriscono e possono quindi, di per sé, anche inerire ad una altra sostanza. Ma in Dio non si dà composizione alcuna, per cui, per poter rivestire pienamente un suo attributo, bisognerebbe “rivestire” la sua sostanza, che è assolutamente semplice, una e unica e, conseguentemente, perdere la propria. Diventare Dio non vorrebbe dire altro che annientarsi, mentre Dio rimane quello che è. E nessun essere razionale può volere propriamente il suo nulla. In fondo quando l’uomo desidera di “diventare” Dio in senso stretto e proprio, prima ancora che di orgoglio, dà prova di imbecillitas metafisica. Ma il demonio è metafisico ben più raffinato… E questo punto della intelligenza del diavolo non deve essere sottovalutato, va tenuto anzi sempre presente per non cadere in sciocchi antropomorfismi anche quando si analizza il suo operare nella storia.
Anche la tesi di Suárez è – secondo Scheeben – coinvolta in questa confutazione, perché desiderando per sé l’unione ipostatica il Diavolo avrebbe dovuto desiderare di smettere di essere la persona che era. L’unione ipostatica è infatti unione delle nature nella persona o ipostasi del Verbo e il Verbo, per assumere la natura angelica ipostatizzata in Lucifero, avrebbe dovuto conferirle il suo essere personale annichilando quello precedente. In realtà Scheeben non riporta il pensiero di Suárez in modo corretto. Il teologo spagnolo infatti non ha pensato ad una unione ipostatica nella persona di Satana – come gli attribuisce Scheeben – ma con la natura angelica.
Diverso è il caso di una somiglianza che non implichi una uguaglianza assoluta:
Il desiderio poi di essere come Dio per una [qualsiasi] somiglianza può nascere in due modi. Primo, rispetto a quelle perfezioni nelle quali si è chiamati a somigliare con Dio. E allora, se uno desidera di essere simile a Dio in questa maniera non pecca purché cerchi di raggiungere questa somiglianza secondo il debito ordine, cioè dipendentemente da Dio.
Questa è la legittima aspirazione a diventare “partecipi della natura divina” – la divinizzazione (la théiosis) dei Padri greci e l'”indiarsi” di Dante (Par 4, 28) – che costituisce il fine ultimo soprannaturale dell’uomo e dell’angelo e si realizza già incoativamente nello stato di grazia.
Peccherebbe invece chi desiderasse, sia pure entro i limiti del giusto, di essere simile a Dio, ma volesse avere questa somiglianza con le proprie forze e non dalla virtù di Dio. – Secondo, uno può desiderare di essere simile a Dio rispetto a una perfezione in cui non è ammessa tale somiglianza; se uno, p. es., desiderasse di creare il cielo e la terra, che è un’operazione esclusiva di Dio, in questo suo desiderio ci sarebbe il peccato. Ora, il diavolo desiderò di essere come Dio in questa maniera. Non desiderò invece di essere simile a lui nell’autonomia assoluta da qualsiasi altro: poiché [anche] in questo caso egli avrebbe desiderato la negazione del proprio essere. Infatti nessuna creatura può esistere se non in quanto ha il suo essere dipendentemente da Dio, da cui le viene partecipato. Desiderò invece di essere simile a Dio, in quanto desiderò come fine ultimo quella beatitudine, a cui poteva giungere con le proprie forze naturali, distogliendo il suo desiderio dalla beatitudine soprannaturale, che si ottiene mediante la grazia di Dio. – Oppure, se desiderò come suo ultimo fine la somiglianza che proviene dalla grazia, la volle ottenere con le forze della propria natura, non già, conforme alla disposizione divina, mediante l’aiuto di Dio. Questa soluzione si accorda all’opinione di S. Anselmo, il quale dice che il diavolo desiderò quello a cui sarebbe giunto se non fosse caduto. Le due sentenze in qualche modo dicono la stessa cosa: poiché in ambedue i casi il diavolo desiderò di conseguire con le proprie forze la beatitudine ultima, il che è proprio di Dio. Inoltre, poiché chi vale di per se stesso è principio e causa di ciò che ha consistenza in forza di un’altra realtà, da questo primo desiderio del diavolo ne seguì [il secondo, che è] quello di avere preminenza e dominio sulle altre cose. Ed anche in questo volle con volontà perversa farsi simile a Dio.
Il peccato dell’angelo è quindi consistito, per san Tommaso, nel rifiuto della grazia in quanto tale, cioè in quanto gratuita. E’ stato il radicale rifiuto del gratis di Dio! Cercando il fine ultimo solo naturale e disdegnando quello soprannaturale oppure cercando il raggiungimento del fine soprannaturale con le sole forze della natura. Potremmo dire: o rifiuto della grazia oppure (il che non è molto diverso) accettazione del contenuto del dono di grazia, purché ottenuto con la natura. Vediamo che è lo stesso peccato che Satana suggerisce all’uomo: la similitudine con Dio non accettata come dono, ma ottenuta con un proprio sforzo non sottomesso all’azione di Dio: la manducazione dell’albero della scienza del bene e del male, simbolo dietro cui soggiace forse l’esecuzione di una pratica magica. E’ il peccato della natura che si chiude in se stessa e si compiace della propria perfezione e bellezza senza aprirsi a ciò che la supera. Evidentemente nel caso dell’angelo, intelligenza pura, non ha potuto trattarsi della ricerca di un bene apparente, perché questo avrebbe implicato un errore inammissibile. Si è trattato della ricerca di un bene reale, vero e obiettivo, non considerando però il bene superiore (cfr. Sum. theol. I, q. 63, a. 1 ad 4). Nell’uomo per lo più il peccato consiste nella ricerca di un bene apparente (anche se sempre colto sub specie boni, altrimenti non potrebbe essere voluto), per cui è ordinariamente peccato di ignoranza e fragilità (anche se colpevoli, trattandosi di peccato). Il peccato dell’angelo è insieme peccato contro il soprannaturale e anche contro il naturale, che ha in sé una potenza obbedienziale ad essere elevato e deve essere aperto a ciò che lo trascende. Solo che il motivo, l’occasione non è dell’ordine naturale, ma è soprannaturale.
Scheeben però, pur accogliendo le limpide osservazioni di san Tommaso, ritiene che anche la tesi di Suárez non debba essere interamente abbandonata. Essa anzi si presta bene ad integrare la tesi tomista e ad approfondire i dati della tradizione patristica:
Secondo Tommaso infatti l’origine del peccato dell’angelo deve essere cercata nel fatto che, in considerazione della superiorità della sua natura, ha visto nell’ordine soprannaturale della grazia – nella misura in cui la grazia gli era offerta come pura grazia ed a lui era richiesto il riconoscimento di questa stessa grazia – una diminuzione della considerazione a lui dovuta. Tanto più che l’angelo comprese che non avrebbe avuto un diritto maggiore alla grazia della natura umana a lui così inferiore. Quest’ultima, chiamata alla grazia non meno di lui, in questo gli sarebbe stata equiparata.
L’ulteriore precisazione di Suárez, di carattere fattuale: il fatto della prova costituita dalla presentazione del mistero dell’incarnazione alla mente dell’Angelo, aggiunge verosimiglianza alla teoria tomistica, in virtù di un “nexus mysteriorum inter se et cum fine hominis ultimo” ancora più perspicuo e coerente.
Questo è tanto più verosimile se si pensa che all’Angelo la grazia è stata mostrata come mediata dal Capo di tutta la creazione, costituito nell’umanità. In questo modo il riconoscimento richiesto implicava un omaggio dell’Angelo nei confronti del Capo divino-umano della creazione.
Anche gli altri elementi che integrano il peccato dell’angelo (ne costituiscono l’essenza fisica), come l’indipendenza nei confronti di Dio e il primato su tutta la creazione, trovano in questa ipotesi una spiegazione convincente:
L’asserzione della dignità della propria natura di fronte a quest’ordine soprannaturale era però già in se stessa una tendenza a non esser sottomesso a nessun ordinamento positivo di Dio e conduceva naturalmente anche alla tendenza a svincolarsi da Dio quanto più possibile. Conduceva altrettanto a cercare il Capo della creazione non nell’umanità [fatto puramente gratuito], ma nel culmine naturale costituito dal mondo angelico e a far sì che ad essa fosse sottoposta tutta la creazione, soprattutto l’umanità, così come, secondo la disposizione divina gli stessi angeli dovevano essere sottoposti, assieme al resto della creazione, a Cristo. Inoltre, come a Cristo era dovuto onore divino, così da questa tendenza ne risultò naturalmente un’altra, quella di chiedere onori divini per il loro proprio capo e quindi, a causa dell’uguaglianza di natura, per sé stessi. Nella consapevolezza infine dell’impossibilità di dar seguito ai loro desideri, l’orgoglio si sviluppò in invidia formale e odio mortale contro Dio, contro Cristo e gli uomini.
Numerosi sono i corollari che si possono trarre da questa visione e tutti fanno risaltare meglio l’armonia del dato rivelato:
1) Il peccato dell’angelo appare qui strutturalmente come un vero “mysterium iniquitatis” (2 Tess 2, 71) il quale trova la sua spiegazione solo in connessione con il mysterium gratiae Dei.
Cioè il mistero del male emerge maggiormente come vero e proprio mistero che trova la sua collocazione compiuta solo in un contesto soprannaturale. Ed è questa certamente la visione delle cose che emerge dalla Sacra Scrittura, dove al mysterium iniquitatis si contrappone il mysterium pietatis, che è proprio il mistero dell’incarnazione (cfr. 1 Tim 3, 16).
2) Qui la possibilità del peccato dell’angelo, che appare – in considerazione del puro ordine di natura – quasi incomprensibile, è resa comprensibile nel migliore dei modi.
Nell’ordine di natura, soprattutto visto in se stesso, nei suoi rapporti intrinseci segnati dalla necessità, riesce difficile capire come un’intelligenza angelica abbia potuto errare. Altro è il discorso se si vede la natura in relazione con un dato puramente gratuito, con il “mistero nascosto da secoli nella mente di Dio” che è il mistero di Cristo (cfr. Ef 3, 8-11). Questo, fra l’altro si combina bene con la posizione di san Tommaso sul problema del “motivo dell’incarnazione”. Se infatti l’Aquinate respinge (pur con prudenza: magis assentiendum videtur) l’ipotesi dell’incarnazione anche “se Adamo non avesse peccato”, lo fa proprio per salvarne la gratuità assoluta. Si può e si deve indagare una certa intrinseca razionalità dell’ordine soprannaturale una volta posto, questa è anzi l’anima della teologia, ma è imprudente, secondo l’Angelico, condurre la stessa indagine sul fondamento stesso di questo ordine, che è il decreto dell’incarnazione. Qui bisogna attenersi scrupolosamente alla lettera della Scrittura. Il motivo dell’incarnazione, e quindi il suo rapporto con l’ordine naturale, – dice san Tommaso – “lo può sapere soltanto colui che è nato e si è sacrificato perché così ha voluto”, quindi certamente non l’angelo.
Una illuminante chiave di interpretazione
Il peccato dell’angelo così spiegato si collega poi molto bene, in modo analogico, con il peccato dei primi uomini e costituisce una chiave di interpretazione assai convincente della storia, intesa come battaglia cosmica fra le forze del Bene e del male:
3) Il peccato dell’angelo appare qui, in quanto trasgressione di un comando dato per prova, così come è successo per i primi uomini, come qualcosa che deve essere presunto per diversi motivi, tra l’altro anche soltanto per questa analogia.
4) Si spiega così pienamente come, secondo l’opinione comune dei teologi, il peccato degli angeli abbia portato in sé, già nella sua origine e in forza di essa, tutta la cattiveria specifica dell’inimicizia contro Dio, Cristo e lo Spirito Santo che si è manifestata in essi nel corso dei tempi.
Infine non contrasta, anzi approfondisce, l’opinione di alcuni Padri secondo cui il peccato dell’angelo fu un peccato di invidia nei confronti dell’uomo. Infatti:
si spiega come diversi Padri abbiano potuto considerare l’invidia e la gelosia nei confronti dell’uomo come il peccato dell’angelo o come la causa della loro caduta. Perché, sebbene l’invidia formale sia una conseguenza della superbia, tuttavia originariamente la superbia poteva essere così costituita, non solo da svilupparsi subito in invidia, ma anche da essere portata ad esplosione proprio da ciò che è anche la causa specifica dell’invidia, cioè la preferenza di altri.
A queste possono essere aggiunte altre considerazioni e conseguenze, in parte sviluppate dallo stesso Scheeben in un’altra sua importante opera.
Prima di tutto appare come l’odio di Satana sia principalmente rivolto a Cristo. In certo qual modo più ancora che a Dio, perché l’odio è di Dio formalmente in quanto ha deciso l’incarnazione. E questo certamente getta luce sul fatto misterioso dell’amore-odio straordinari che la figura di Gesù, “segno di contraddizione”, ha sempre raccolto nella storia. Certamente le bestemmie, le profanazioni, i dileggi che si appuntano con insistenza morbosa sull’adorabile persona del Redentore non sono facilmente spiegabili con le leggi ordinarie della psicologia e sociologia umane.
A questo si possono naturalmente aggiungere del tutto analoghe considerazioni sulla figura di Maria, che peraltro si ricollega bene con l’inimicizia di Gn 3, 15. Non si può infatti staccare il mistero dell’incarnazione e della redenzione da quello della vocazione e predestinazione di Maria. La carne di Gesù, Figlio di Dio “nato da donna” (Gal 4, 4), trae origine interamente da lei e l’incarnazione si è realizzata di fatto mediante la cooperazione libera di Maria. Ma non lo si può staccare neppure dalla Chiesa, “incarnazione continuata” secondo la felice espressione di Möhler e della scuola ecclesiologica romana. Anzi, si può persino notare come il rifiuto della Chiesa sia molto più diffuso del rifiuto di Cristo, e come l’odio alla Chiesa abbia coinvolto le masse molto di più dell’odio a Cristo. Ma se si guardano le cose più da vicino non si tarda a capire che un Cristo staccato dalla Chiesa è un Cristo astratto e, in definitiva, appunto disincarnato.
Si comprende meglio perché il dogma dell’incarnazione abbia sempre giocato un ruolo decisivo nella storia delle eresie, soprattutto degli inizi, per cui non è azzardato affermare che il rifiuto dell’incarnazione è come l’eresia capitale, ultimamente soggiacente a tutte le altre. “Da questo potete riconoscere lo spirito di Dio: ogni spirito che riconosce che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio; ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Questo è lo spirito dell’anticristo che, come avete udito, viene, anzi è già nel mondo”.
Così come riceve nuova luce il fatto, già di per sé evidente, della profonda solidarietà del mistero dell’incarnazione con la dignità della persona umana. L’odio satanico per l’economia dell’incarnazione è indissolubilmente odio per il Donatore, per il Dono e per il suo principale beneficiario: l’uomo. Anzi è proprio su questo versante che si è appuntata l’attenzione per es. di Tertulliano, san Cipriano e sant’Agostino che hanno visto il peccato dell’angelo soprattutto come peccato di invidia per l’uomo. Gli orrori della storia, particolarmente di quella più recente delle guerre totali, dei Lager, dei Gulag e dell’abbrutimento morale e fisico di masse sterminate di uomini, non possono risultare che più comprensibili. Nella loro umana irrazionalità e gratuità evocano un sinistro odio per l’uomo in quanto tale e per l’uomo nella sua carne.
Qui trova una sua logica profonda anche quello scandalo per la materia che costituisce come l’irrinunciabile Leitmotiv di ogni pensiero gnostico. Satana ci appare allora proprio, oltre che come il primo peccatore, come il “primo gnostico”.
Le conferme della tradizione giudaica
Un’altra conferma assai suggestiva ci viene dal versante della tradizione giudaica. Il teologo sistematico cattolico è abituato a guardare con sospetto a questo genere di fonti. Questo sospetto però è giustificato (e lo è pienamente) nella misura in cui quella letteratura è accolta acriticamente, cioè senza discernimento soprattutto teologico, e la sua testimonianza è concepita come fondante. Tuttavia, se anche la storia può essere catalogata fra i luoghi teologici, a maggior ragione la tradizione ebraica (e, secondariamente, anche quella di altri popoli) può costituire una importante conferma. Essendo chiaro che l’ipotesi ha una sua consistenza speculativa propria, fondata sul “nexus mysteriorum” e sull’analogia biblica, come abbiamo visto.
Nella Vita di Adamo ed Eva, un apocrifo di origine giudaica, si racconta che l’arcangelo Samaele si ribellò nel sesto giorno, trascinato da una indomabile gelosia di Adamo, che Dio aveva ordinato a tutti gli angeli di adorare. Mentre Michele ubbidisce immediatamente, Samaele si ribella e, dopo una disputa fra i due Dio fa scaraventare Samaele fuori dal cielo e giù sulla terra, dove egli tenta Eva e continua a tramare contro gli uomini.
Nella Bereshit Rabbati, un midrásh sul Genesi della prima metà dell’XI secolo, si precisa che l’uomo è presentato a Samaele come superiore a lui: “Satana, il più grande degli angeli del Paradiso, con dodici ali invece di sei come tutti gli altri, si rifiutò di porgere omaggio all’immagine di Dio, dicendo: “Tu hai creato noi angeli dallo splendore della Shekinah, ed ora ci ordini di prostrarci davanti alla creatura che hai plasmato dalla polvere della terra?” E Dio rispose: “Questa creatura, anche se fatta di polvere, ti supera in sapienza e intelligenza””.
Questa tradizione ebraica è poi confluita nel Corano: “Quando dicemmo agli angeli: “prostratevi in adorazione avanti ad Adamo”, essi si prostrarono tutti, eccetto Iblis, il quale si rifiutò, anzi si inorgoglì e così divenne uno dei miscredenti”.
Se questi dati si pongono in relazione con la tradizione ebraica dell’Uomo primordiale (Adam Qadmon), a cui corrisponde quella islamica dell’Uomo universale, e con la visione di Daniele del Figlio dell’uomo, diventano particolarmente eloquenti. Soprattutto se si considera che l’ipotesi in questione non richiede, come invece sembrano esigere Suárez e Scheeben, una rivelazione formale ed esplicita del mistero dell’incarnazione fatta agli angeli nel momento successivo alla creazione. E’ sufficiente infatti che la mente angelica abbia visto una glorificazione dell’uomo, nella sua idea archetipica, assolutamente sproporzionata alla dignità della sua natura. Alcuni angeli, secondo uno schema tipico, sono rimasti scandalizzati da quello che non hanno capito, lo hanno trovato assurdo e insultante e lo hanno rifiutato. In questo rifiuto era implicito il rifiuto dell’incarnazione (che era il motivo nascosto della gloria dell’uomo) da loro conosciuta solo successivamente, forse soltanto attraverso la predicazione della Chiesa. Così il rifiuto appare insieme un atto di infedeltà oltre che di orgoglio, rifiutando l’angelo di prestare l’ossequio della sua mente e della sua volontà a qualcosa che appariva abnorme (ma non era propriamente assurdo) per la sua intelligenza acutissima.
Il peccato dell’uomo alla luce del primo peccato
In questa visione “prospettica” anche il peccato umano guadagna in comprensibilità. Esso trova la sua collocazione in uno stato intermedio fra il male fisico, il male inconsapevole del mondo materiale, e il puro male morale del mondo angelico. Anche se certamente deve essere posto più vicino a questo che a quello, perché rientra nello stesso genere di male morale. Appare però più evidente il carattere di debolezza e fragilità che, in qualche modo, specifica il peccato umano in quanto tale. L'”umano troppo umano” che, se da una parte frustra un po’ le nostre velleità di grandezza, dall’altra ci pone in una condizione ben più vantaggiosa degli angeli. Scheeben sottolinea molto efficacemente questo contrasto. Per lui il peccato dell’angelo è:
1) Un peccato di pura cattiveria e non, come sono di regola i peccati degli uomini, di ignoranza e debolezza.
2) Un peccato che comporta una ribellione contro Dio non soltanto indiretta e implicita, ma diretta ed esplicita e specialmente contro il suo ordine di grazia ed ha così il carattere di peccato contro lo Spirito Santo.
3) Un peccato che rinnega strutturalmente e definitivamente l’intero rapporto della creatura col creatore e rompe la società con Dio fondando una formale inimicizia con lui.
4) Un peccato che viene commesso con tutta l’energia di volontà di cui solo è capace un puro spirito e con l’intenzione di persistere e perseverare in modo irrevocabile.
5) Un peccato infine che non ha la consistenza effimera di un atto passeggero, come per l’uomo, per rimanere soltanto nella forma di peccato abituale, ma, per la natura dell’angelo sempre desta e attiva, continua in un atto ininterrotto.
Per tutti questi motivi il distacco dell’angelo da Dio è, strutturalmente, un peccato più radicale e un peccato ad mortem in un senso ben più pieno del semplice peccato mortale dell’uomo e anche di quel peccato ad mortem che si manifesta nella impenitenza umana.
Fermo restando naturalmente che, quanto più la malvagità umana cresce di intensità, tanto più si avvicina a questo “modello”. E certe malvagità che la storia e la fenomenologia del satanismo e del magismo ci presentano trovano solo qui una chiave interpretativa adeguata. Così come si dà una imitatio Christi, si dà anche una, consapevole o meno, imitatio Diaboli.
Don Piero CANTONI
Canevara, 8 maggio 1991, nel mese dedicato a Colei che ha schiacciato il capo al Serpente.