…La verita’, dono di Dio al suo popolo. La vocazione del teologo. Il Magistero dei Pastori. Magistero e teologia…
Donum Veritatis
INTRODUZIONE
1. La verità che rende liberi è un dono di Gesù Cristo (cfr. Gv 8,32). La ricerca della verità è insita nella natura dell’uomo, mentre l’ignoranza lo mantiene in una condizione di schiavitù. L’uomo infatti non può essere veramente libero se non riceve luce sulle questioni centrali della sua esistenza, e in particolare su quella di sapere da dove venga e dove vada. Egli diventa libero quando Dio si dona a lui come un amico, secondo la parola del Signore: «Non vi chiamo più servi, perché il servo non sa quello che fa il suo padrone; ma vi ho chiamati amici, perché tutto ciò che ho udito dal Padre l’ho fatto conoscere a voi» (Gv 15,15). La liberazione dall’alienazione del peccato e della morte si realizza per l’uomo quando il Cristo, che è la Verità, diventa per lui la «via» (cfr. Gv 14,6).
Nella fede cristiana conoscenza e vita, verità ed esistenza sono intrinsecamente connesse. La verità donata nella rivelazione di Dio sorpassa evidentemente le capacità di conoscenza dell’uomo, ma non si oppone alla ragione umana. Essa piuttosto la penetra, la eleva e fa appello alla responsabilità di ciascuno (Cfr. l Pt 3,15). Per questo, fin dall’inizio della chiesa la «regola della dottrina» (Rm 6,17) è stata legata, con il battesimo, all’ingresso del mistero di Cristo. Il servizio alla dottrina, che implica la ricerca credente dell’intelligenza della fede e cioè la teologia, è pertanto un’esigenza alla quale la chiesa non può rinunciare.
In ogni epoca la teologia è importante perché la chiesa possa rispondere al disegno di Dio, il quale vuole «che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità» (1Tm 2,4). In tempi di grandi mutamenti spirituali e culturali essa è ancora più importante, ma è anche esposta a rischi, dovendosi sforzare di «rimanere» nella verità (cfr. Gv 8,31) e tener conto nel medesimo tempo dei nuovi problemi che si pongono allo spirito umano. Nel nostro secolo, in particolare durante la preparazione e la realizzazione del concilio Vaticano II, la teologia ha contribuito molto a una più profonda «comprensione delle realtà e delle parole trasmesse» [Cost. dogm. Dei verbum (DV), n. 8: EV 1/883] ma ha anche conosciuto e conosce ancora dei momenti di crisi e di tensione.
La Congregazione per la dottrina della fede ritiene pertanto opportuno rivolgere ai vescovi della chiesa cattolica, e tramite loro ai teologi, la presente istruzione che si propone di illuminare la missione della teologia nella chiesa. Dopo aver preso in considerazione la verità come dono di Dio al suo popolo (I), essa descriverà la funzione dei teologi (II), si soffermerà quindi sulla missione particolare dei pastori (III), e proporrà infine alcune indicazioni sul giusto rapporto fra gli uni e gli altri (IV). Essa intende così servire la crescita nella conoscenza della verità (cfr. Col 1,10), che ci introduce in quella libertà per conquistarci la quale Cristo è morto e risuscitato (cfr. Gal 5,1).
I. LA VERITÀ, DONO DI DIO AL SUO POPOLO
2. Mosso da un amore senza misura, Dio ha voluto farsi vicino all’uomo che ricerca la propria identità e camminare con lui (cfr. Lc 24,15). Egli lo ha anche liberato dalle insidie del «padre della menzogna» (cfr. Gv 8,44) e gli ha dato accesso alla sua intimità perché vi trovi, in sovrabbondanza, la verità piena e la vera libertà. Questo disegno d’amore concepito dal «Padre della luce» (Gc 1,17; cfr. 1 Pt 2,9; l Gv 1,5) realizzato dal Figlio vincitore della morte (cfr. Gv 8,36) è reso continuamente attuale dallo Spirito che guida «alla verità tutta intera» (Gv 16,13).
3. La verità ha in sé una forza unificante: libera gli uomini dall’isolamento e dalle opposizioni nelle quali sono rinchiusi dall’ignoranza della verità e aprendo loro la via verso Dio, li unisce gli uni agli altri. Il Cristo ha distrutto il muro di separazione che aveva reso gli uomini estranei alla promessa di Dio e alla comunione dell’alleanza (cfr. Ef 2,12 – 14). Egli invia nel cuore dei credenti il suo Spirito, per mezzo del quale noi tutti in lui siamo «uno solo» (cfr. Rm 5,5; Gal 3,28). Così grazie alla nuova nascita e all’unzione dello Spirito Santo (cfr. Gv 3,5: 1Gv 2,20.27), diventiamo l’unico e nuovo popolo di Dio che, con vocazioni e carismi diversi, ha la missione di conservare e trasmettere il dono della verità. Infatti la chiesa tutta, come «sale della terra» e «luce del mondo» (cfr. Mt 5,13s), deve rendere testimonianza alla verità di Cristo che rende liberi.
4. A questa chiamata il popolo di Dio risponde «soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità, e offrendo a Dio un sacrificio di lode». Per quello che riguarda più specificatamente la «vita di fede», il Concilio Vaticano II precisa che «la totalità dei fedeli che hanno ricevuto l’unzione dello Spirito Santo (cfr. Gv 2,20) non può sbagliarsi nel credere, e manifesta questa proprietà peculiare mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo, quando “dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici” esprime l’universale suo consenso in materia di fede e di costumi» [Cost. dogm. Lumen gentium (LG), n. 12; EV 1/316].
5. Per esercitare la sua funzione profetica nel mondo, il popolo di Dio deve continuamente risvegliare o «ravvivare» la propria vita di fede (cfr. 2 Tm 1,6), in particolare per mezzo di una riflessione sempre più approfondita, guidata dallo Spirito Santo, sul contenuto della fede stessa tramite l’impegno di dimostrarne la ragionevolezza a coloro che gliene chiedono i motivi (cfr. 1 Pt 3,15). In vista di questa missione lo Spirito di verità dispensa, fra i fedeli di ogni ordine, grazie speciali date «per l’utilità comune» (l Cor 12,7 – 11).
II. LA VOCAZIONE DEL TEOLOGO
6. Fra le vocazioni suscitate dallo Spirito nella chiesa si distingue quella del teologo, che in modo particolare ha la funzione di acquisire, in comunione con il magistero, un’intelligenza sempre più profonda della parola di Dio contenuta nella Scrittura ispirata e trasmessa dalla tradizione viva della chiesa.
Di sua natura la fede fa appello all’intelligenza, perché svela all’uomo la verità sul suo destino e la via per raggiungerlo. Anche se la verità rivelata è superiore a ogni nostro dire e i nostri concetti sono imperfetti di fronte alla grandezza ultimamente insondabile (cfr. Ef 3,19), essa invita tuttavia la ragione – dono di Dio fatto per cogliere la verità – a entrare nella sua luce, diventando così capace di comprendere in una certa misura ciò che ha creduto. La scienza teologica, che rispondendo all’invito della voce della verità cerca l’intelligenza della fede, aiuta il popolo di Dio, secondo il comandamento dell’apostolo (cfr. l Pt 3,15), a rendere conto della sua speranza a coloro che lo richiedono.
7. Il lavoro del teologo risponde così al dinamismo insito nella fede stessa: di sua natura la Verità vuole comunicarsi, perché l’uomo è stato creato per percepire la verità, e desidera nel più profondo di se stesso conoscerla per ritrovarsi in essa e trovarvi la sua salvezza (cfr. l Tm 2,4). Per questo il Signore ha inviato i suoi apostoli perché facciano «discepole» tutte le nazioni e le ammaestrino (cfr. Mt 28,19s). La teologia, che ricerca la «ragione della fede» e a coloro che cercano offre questa ragione come una risposta, costituisce parte integrante dell’obbedienza a questo comandamento, perché gli uomini non possono diventare discepoli se la verità contenuta nella parola della fede non viene loro presentata (cfr. Rm 10,14s).
La teologia offre dunque il suo contributo perché la fede divenga comunicabile, e l’intelligenza di coloro che non conoscono ancora il Cristo possa ricercarla e trovarla. La teologia, che obbedisce all’impulso della verità che tende a comunicarsi, nasce anche dall’amore e dal suo dinamismo: nell’atto di fede l’uomo conosce la bontà di Dio e comincia ad amarlo, ma l’amore desidera conoscere sempre meglio colui che ama [cfr. Bonaventura, Prooem. in I Sent., q. 2, ad 6: «Quando fides non assentit propter rationem, sed propter amorem eius cui assentit, desiderat habere rationes»]. Da questa duplice origine della teologia, iscritta nella vita interna del popolo di Dio e nella sua vocazione missionaria, consegue il modo con cui essa deve essere elaborata per soddisfare alle esigenze della sua natura.
8. Poiché oggetto della teologia è la Verità, il Dio vivo e il suo disegno di salvezza rivelato in Gesù Cristo, il teologo è chiamato a intensificare la sua vita di fede e a unire sempre ricerca scientifica e preghiera [cfr. Giovanni Paolo II, Discorso in occasione della consegna del premio internazionale Paolo VI a Hans Urs von Balthasar, 23.6.1984; in Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VII, 1 1984, pp. 1911 – 1917]. Sarà così più aperto al «senso soprannaturale della fede» da cui dipende e che gli apparirà come una sicura regola per guidare la sua riflessione e misurare la correttezza delle sue conclusioni.
9. Nel corso dei secoli la teologia si è progressivamente costituita in vero e proprio sapere scientifico. E’ quindi necessario che il teologo sia attento alle esigenze epistemologiche della sua disciplina, alle esigenze di rigore critico, e quindi al controllo razionale di ogni tappa della sua ricerca. Ma l’esigenza critica non va identificata con lo spirito critico, che nasce piuttosto da motivazioni di carattere affettivo o da pregiudizio. Il teologo deve discernere in se stesso l’origine e le motivazioni del suo atteggiamento critico e lasciare che il suo sguardo sia purificato dalla fede. L’impegno teologico esige uno sforzo spirituale di rettitudine e di santificazione.
10. Pur trascendendo la ragione umana, la verità rivelata è in profonda armonia con essa. Ciò suppone che la ragione sia per sua natura ordinata alla verità in modo che, illuminata dalla fede, essa possa penetrare il significato della rivelazione. Contrariamente alle affermazioni di molte correnti filosofiche, ma conformemente a un retto modo di pensare che trova conferma nella Scrittura, si deve riconoscere la capacità della ragione umana di raggiungere la verità, così come la sua capacità metafisica di conoscere Dio a partire dal creato [Cfr. Concilio Vaticano I, cost. dogm. De fide catholica, De revelatione, can. 1: DS 3026].
Il compito proprio alla teologia di comprendere il senso della rivelazione esige pertanto l’utilizzo di acquisizioni filosofiche che forniscano «una solida e armonica conoscenza dell’uomo, del mondo e di Dio» [Decr. Optatam totius (OT), n. 15: EV 1/802], e possano essere assunte nella riflessione sulla dottrina rivelata. Le scienze storiche sono egualmente necessarie agli studi del teologo, a motivo innanzitutto del carattere storico della rivelazione stessa, che ci è stata comunicata in una «storia di salvezza». Si deve infine fare ricorso anche alle «scienze umane», per meglio comprendere la verità rivelata sull’uomo e sulle norme morali del suo agire, mettendo in rapporto con essa i risultati validi di queste scienze.
In questa prospettiva è compito del teologo assumere dalla cultura del suo ambiente elementi che gli permettano di mettere meglio in luce l’uno o l’altro aspetto dei misteri della fede. Un tale compito è certamente arduo e comporta dei rischi, ma è in se stesso legittimo e deve essere incoraggiato.
A questo proposito è importante sottolineare che l’utilizzazione da parte della teologia di elementi e strumenti concettuali provenienti dalla filosofia o da altre discipline esige un discernimento che ha il suo principio normativo ultimo nella dottrina rivelata. E’ essa che deve fornire i criteri per il discernimento di questi elementi e strumenti concettuali e non viceversa.
11. Il teologo, non dimenticando mai di essere anch’egli membro del popolo di Dio, deve nutrire rispetto nei suoi confronti e impegnarsi nel dispensargli un insegnamento che non leda in alcun modo la dottrina della fede.
La libertà propria alla ricerca teologica si esercita all’interno della fede della chiesa. L’audacia pertanto che si impone spesso alla coscienza del teologo non può portare frutti ed «edificare» se non si accompagna alla pazienza della maturazione. Le nuove proposte avanzate dall’intelligenza della fede «non sono che un’offerta fatta a tutta la chiesa. Occorrono molte correzioni e ampliamenti di prospettiva in un dialogo fraterno, prima di giungere al momento in cui tutta la chiesa possa accettarle». Di conseguenza la teologia, in quanto «servizio molto disinteressato alla comunità dei credenti, comporta essenzialmente un dibattito oggettivo, un dialogo fraterno, un’apertura e una disponibilità a modificare le proprie opinioni» [Giovanni Paolo II, Discorso ai teologi ad Altotting, 18.11.1980; AAS 73(1981), 104; cfr. anche Paolo VI, Discorso ai membri della Commissione teologica internazionale, 11.10.1972: AAS 64(1972), 682s; Giovanni Paolo II, Discorso ai membri della Commissione teologica internazionale, 26.10.1979: AAS 71(1979), 1428 – 1433].
12. La libertà di ricerca, che giustamente sta a cuore alla comunità degli uomini di scienza come uno dei suoi beni più preziosi, significa disponibilità ad accogliere la verità così come essa si presenta, al termine di una ricerca, nella quale non sia intervenuto alcun elemento estraneo alle esigenze di un metodo che corrisponda all’oggetto studiato.
In teologia questa libertà di ricerca si iscrive all’interno di un sapere razionale il cui oggetto è dato dalla rivelazione, trasmessa e interpretata nella chiesa sotto l’autorità del magistero, e accolta dalla fede. Trascurare questi dati, che hanno un valore di principio, equivarrebbe a smettere di fare teologia. Per ben precisare le modalità di questo rapporto con il magistero, è ora opportuno riflettere sul ruolo di quest’ultimo nella chiesa.
III. IL MAGISTERO DEI PASTORI
13. «Dio, con somma benignità, dispose che quanto egli aveva rivelato, per la salvezza di tutte le genti, rimanesse sempre integro e venisse trasmesso a tutte le generazioni» [DV 7; EV 1/880]. Egli ha dato alla sua chiesa, mediante il dono dello Spirito Santo, una partecipazione alla propria infallibilità [cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, dich. Mysterium ecclesiae (ME), n. 2: AAS 65(1973), 398s; EV 4/2567]. Il popolo di Dio, grazie al «senso soprannaturale della fede», gode di questa prerogativa, sotto la guida del magistero vivo della chiesa, che, per l’autorità esercitata nel nome di Cristo, è il solo interprete autentico della parola di Dio, scritta o trasmessa [Cfr. DV 10: EV 1/887].
14. Come successori degli apostoli, i pastori della chiesa «ricevono dal Signore… la missione di insegnare a tutte le genti e di predicare il Vangelo a ogni creatura, affinché tutti gli uomini… ottengano la salvezza» [LG 24: EV 1/342]. Ad essi è quindi affidato il compito di conservare, esporre e diffondere la parola di Dio, della quale sono servitori [DV 10: EV 1/887].
La missione del magistero è quella di affermare, coerentemente con la natura «escatologica» propria dell’evento di Gesù Cristo, il carattere definitivo dell’alleanza instaurata da Dio per mezzo di Cristo con il suo popolo, tutelando quest’ultimo da deviazioni e smarrimenti, e garantendogli la possibilità obiettiva di professare senza errori la fede autentica, in ogni tempo e nelle diverse situazioni. Ne consegue che il significato del magistero e il suo valore sono comprensibili solo in relazione alla verità della dottrina cristiana e alla predicazione della Parola vera. La funzione del magistero non è quindi qualcosa di estrinseco alla verità cristiana né di sovrapposto alla fede; essa emerge direttamente dall’economia della fede stessa, in quanto il magistero è, nel suo servizio alla parola di Dio, un’istituzione voluta positivamente da Cristo come elemento costitutivo della chiesa. Il servizio alla verità cristiana reso dal magistero è perciò a favore di tutto il popolo di Dio, chiamato a entrare in quella libertà della verità che Dio ha rivelato in Cristo.
15. Perché possano adempiere pienamente il compito loro affidato di insegnare il Vangelo e di interpretare autenticamente la rivelazione, Gesù Cristo ha promesso ai pastori della chiesa l’assistenza dello Spirito Santo. Egli li ha dotati in particolare del carisma di infallibilità per quanto concerne materie di fede e di costumi. L’esercizio di questo carisma può avere diverse modalità. Si esercita in particolare quando i vescovi, in unione con il loro capo visibile, mediante un atto collegiale, come nel caso dei concili ecumenici, proclamano una dottrina, o quando il pontefice romano, esercitando la sua missione di pastore e dottore supremo di tutti i cristiani, proclama una dottrina «ex cathedra» [cfr. LG 25: EV 1/344ss; ME 3: AAS 65(1973), 400s; EV 4/2571].
16. Il compito di custodire santamente e di esporre fedelmente il deposito della divina rivelazione implica, di sua natura, che il magistero possa proporre «in modo definitivo» [cfr. Professio fidei et Iusiurandum fidelitatis; AAS 81(1989), 104s: «omnia et singula quae circa doctrinam de fide vel moribus ab eadem definitive proponuntur»; cfr. Regno – doc. 7(1989), 200] enunciati che, anche se non sono contenuti nelle verità di fede, sono a esse tuttavia intimamente connessi, così che il carattere definitivo di tali affermazioni deriva, in ultima analisi, dalla rivelazione stessa [cfr. LG 25: EV 1/347; ME 3 – 5: AAS 65(1973), 400 – 404; EV 4/2570ss; Professio fidei et Iusiurandum fidelitatis; AAS 81(1989), 104s].
Ciò che concerne la morale può essere oggetto di magistero autentico, perché il Vangelo, che è parola di vita, ispira e dirige tutto l’ambito dell’agire umano. Il magistero ha dunque il compito di discernere, mediante giudizi normativi per la coscienza dei fedeli, gli atti che sono in se stessi conformi alle esigenze della fede e ne promuovono l’espressione nella vita, e quelli che al contrario, per la loro malizia intrinseca, sono incompatibili con queste esigenze. A motivo del legame che esiste fra l’ordine della creazione e l’ordine della redenzione, e a motivo della necessità di conoscere e osservare tutta la legge morale in vista della salvezza, la competenza del magistero si estende anche a ciò che riguarda la legge naturale [cfr. Paolo VI, encicl. Humanae vitae, n. 4: AAS 60(1968), 483; EV 3/590].
D’altra parte la rivelazione contiene insegnamenti morali che di per sé potrebbero essere conosciuti dalla ragione naturale, ma a cui la condizione dell’uomo peccatore rende difficile l’accesso. E’ dottrina di fede che queste norme morali possono essere infallibilmente insegnate dal magistero [cfr. Concilio Vaticano I, cost. dogm. Dei Filius, e. 2: DS 3005].
17. L’assistenza divina è data inoltre ai successori degli apostoli, che insegnano in comunione con il successore di Pietro, e, in una maniera particolare, al romano pontefice, pastore di tutta la chiesa, quando, senza giungere a una definizione infallibile e senza pronunciarsi in un «modo definitivo», nell’esercizio del loro magistero ordinario propongono un insegnamento, che conduce a una migliore comprensione della rivelazione in materia di fede e di costumi, e direttive morali derivanti da questo insegnamento.
Si deve dunque tener conto del carattere proprio di ciascuno degli interventi del magistero e della misura in cui la sua autorità è coinvolta, ma anche dal fatto che essi derivano tutti dalla stessa fonte e cioè da Cristo che vuole che il suo popolo cammini nella verità tutta intera. Per lo stesso motivo le decisioni magisteriali in materia di disciplina, anche se non sono garantite dal carisma dell’infallibilità, non sono sprovviste dell’assistenza divina, e richiedono l’adesione dei fedeli.
18. Il pontefice romano adempie la sua missione universale con l’aiuto degli organismi della Curia romana e in particolare della Congregazione per la dottrina della fede per ciò che riguarda la dottrina sulla fede e sulla morale. Ne consegue che i documenti di questa congregazione approvati espressamente dal papa partecipano al magistero ordinario del successore di Pietro [cfr. CIC cann. 360 – 361; Paolo VI, cost. apost. Regimini ecclesiae universae, 15.8.1967, nn. 29 – 40: AAS 59(1967), 897 – 899; EV 2/1569ss; Giovanni Paolo II, cost. apost. Pastor bonus, 28.6.1988, artt. 48 – 55: AAS 80(1988), 873 – 874; Regno – doc. 15(1988), 458s.].
19. Nelle chiese particolari spetta al vescovo custodire e interpretare la parola di Dio e giudicare con autorità ciò che le è conforme o meno. L’insegnamento di ogni vescovo, preso singolarmente, si esercita in comunione con quello del pontefice romano, pastore della chiesa universale, e con gli altri vescovi dispersi per il mondo o riuniti in concilio ecumenico. Questa comunione è condizione della sua autenticità.
Membro del collegio episcopale in forza della sua ordinazione sacramentale e della comunione gerarchica, il vescovo rappresenta la sua chiesa, così come tutti i vescovi in unione con il papa rappresentano la chiesa universale nel vincolo della pace, dell’amore, dell’unità e della verità. Convergendo nell’unità, le chiese locali, con il loro proprio patrimonio, manifestano la cattolicità della chiesa. Da parte loro, le conferenze episcopali contribuiscono alla realizzazione concreta dello spirito («affectus») collegiale [cfr. LG 22 – 23: EV 1/336ss. Come è noto, a seguito della seconda Assemblea generale straordinaria del sinodo dei vescovi, il santo padre ha affidato alla Congregazione per i vescovi l’incarico di approfondire lo «status teologico – giuridico delle conferenze episcopali»].
20. Il compito pastorale del magistero, che ha lo scopo di vigilare perché il popolo di Dio rimanga nella verità che libera, è dunque una realtà complessa e diversificata. Il teologo, nel suo impegno al servizio della verità, dovrà, per restare fedele alla sua funzione, tener conto della missione propria al magistero e collaborare con esso. Come si deve intendere questa collaborazione? Come si realizza concretamente e quali ostacoli può incontrare? E’ ciò che occorre adesso esaminare più da vicino.
IV. MAGISTERO E TEOLOGIA
A. I rapporti di collaborazione
21. Il magistero vivo della chiesa e la teologia, pur avendo doni e funzioni diverse, hanno ultimamente il medesimo fine: conservare il popolo di Dio nella verità che libera e farne così la «luce delle nazioni». Questo servizio alla comunità ecclesiale mette in relazione reciproca il teologo con il magistero. Quest’ultimo insegna autenticamente la dottrina degli apostoli e, traendo vantaggio dal lavoro teologico, respinge le obiezioni e le deformazioni della fede, proponendo inoltre con l’autorità ricevuta da Gesù Cristo nuovi approfondimenti, esplicitazioni e applicazioni della dottrina rivelata. La teologia invece acquisisce, in modo riflesso, un’intelligenza sempre più profonda della parola di Dio, contenuta nella Scrittura e trasmessa fedelmente dalla tradizione viva della chiesa sotto la guida del magistero, cerca di chiarire l’insegnamento della rivelazione di fronte alle istanze della ragione, e infine gli dà una forma organica e sistematica [cfr. Paolo VI, Discorso ai partecipanti al Congresso internazionale sulla teologia del concilio Vaticano II, 1.10.1966: AAS 58(1966), 892s].
22. La collaborazione fra il teologo e il magistero si realizza in modo speciale quando il teologo riceve la missione canonica o il mandato di insegnare. Essa diventa allora, in un certo senso, una partecipazione all’opera del magistero al quale la collega un vincolo giuridico. Le regole di deontologia che derivano per se stesse e con evidenza dal servizio alla parola di Dio vengono corroborate dall’impegno assunto dal teologo accettando il suo ufficio ed emettendo la Professione di fede e il Giuramento di fedeltà [cfr. CIC can. 833; Professio fidei et Iusiurandum fidelitatis; AAS 81 (1989), 104s].
Da quel momento egli è investito ufficialmente del compito di presentare e illustrare, con tutta esattezza e nella sua integralità, la dottrina della fede.
23. Quando il magistero della chiesa si pronuncia infallibilmente dichiarando solennemente che una dottrina è contenuta nella rivelazione, l’adesione richiesta è quella della fede teologale. Questa adesione si estende all’insegnamento del magistero ordinario e universale quando propone a credere una dottrina di fede come divinamente rivelata.
Quando esso propone «in modo definitivo» delle verità riguardanti la fede e i costumi, che, anche se non divinamente rivelate, sono tuttavia strettamente e intimamente connesse con la rivelazione, queste devono essere fermamente accettate e ritenute [il testo della nuova Professione di fede (cfr. nota 15) precisa l’adesione a questi insegnamenti in questi termini: «Firmiter etiam amplector et retineo … »].
Quando il magistero, anche senza l’intenzione di porre un atto «definitivo», insegna una dottrina per aiutare a un’intelligenza più profonda della rivelazione e di ciò che ne esplicita il contenuto, ovvero per richiamare la conformità di una dottrina con le verità di fede, o infine per mettere in guardia contro concezioni incompatibili con queste stesse verità, è richiesto un religioso ossequio della volontà e dell’intelligenza [cfr. LG 25: EV 11344; CIC can. 752, 14]. Questo non può essere puramente esteriore e disciplinare, ma deve collocarsi nella logica e sotto la spinta dell’obbedienza della fede.
24. Infine il magistero, allo scopo di servire nel miglior modo possibile il popolo di Dio, e in particolare per metterlo in guardia nei confronti di opinioni pericolose che possono portare all’errore, può intervenire su questioni dibattute nelle quali sono implicati, insieme ai principi fermi, elementi congetturali e contingenti. E spesso è solo a distanza di un certo tempo che diviene possibile operare una distinzione fra ciò che è necessario e ciò che è contingente.
La volontà di ossequio leale a questo insegnamento del magistero in materia per sé non irreformabile deve essere la regola. Può tuttavia accadere che il teologo si ponga degli interrogativi concernenti, a seconda dei casi, l’opportunità, la forma o anche il contenuto di un intervento. Il che lo spingerà innanzitutto a verificare accuratamente quale è l’autorevolezza di questi interventi, così come essa risulta dalla natura dei documenti, dall’insistenza nel riproporre una dottrina e dal modo stesso di esprimersi [Cfr. LG 25 § 1: EV 1/344].
In questo ambito degli interventi di ordine prudenziale, è accaduto che dei documenti magisteriali non fossero privi di carenze. I pastori non hanno sempre colto subito tutti gli aspetti o tutta la complessità di una questione. Ma sarebbe contrario alla verità se, a partire da alcuni determinati casi, si concludesse che il magistero della chiesa possa ingannarsi abitualmente nei suoi giudizi prudenziali, o non goda dell’assistenza divina nell’esercizio integrale della sua missione. Di fatto il teologo, che non può esercitare bene la sua disciplina senza una certa competenza storica, è cosciente della decantazione che si opera con il tempo. Ciò non deve essere inteso nel senso di una relativizzazione degli enunciati della fede. Egli sa che alcuni giudizi del magistero potevano essere giustificati al tempo in cui furono pronunciati, perché le affermazioni prese in considerazione contenevano in modo inestricabile asserzioni vere e altre che non erano sicure. Soltanto il tempo ha permesso di compiere un discernimento e, a seguito di studi approfonditi, di giungere a un vero progresso dottrinale.
25. Anche quando la collaborazione si svolge nelle condizioni migliori, non è escluso che nascano tra il teologo e il magistero delle tensioni. Il significato che a queste si conferisce e lo spirito con il quale le si affronta non sono indifferenti: se le tensioni non nascono da un sentimento di ostilità e di opposizione, possono rappresentare da un fattore di dinamismo e uno stimolo che sospinge il magistero e i teologi ad adempiere le loro rispettive funzioni praticando il dialogo.
26. Nel dialogo deve dominare una duplice regola: là ove la comunione di fede è in causa vale il principio dell’«unitas veritatis»; là ove rimangono delle divergenze che non mettono in causa questa comunione, si salvaguarderà l’«unitas caritatis».
27. Anche se la dottrina della fede non è in causa, il teologo non presenterà le sue opinioni o le sue ipotesi divergenti come se si trattasse di conclusioni indiscutibili. Questa discrezione è esigita dal rispetto della verità così come dal rispetto per il popolo di Dio (cfr. Rm 14,1 – 15; 1Cor 8; 10; 23 – 33). Per gli stessi motivi egli rinuncerà a una loro espressione pubblica intempestiva.
28. Ciò che precede ha un’applicazione particolare nel caso del teologo che trovasse serie difficoltà, per ragioni che gli paiono fondate, ad accogliere un insegnamento magisteriale non irreformabile.
Un tale disaccordo non potrebbe essere giustificato se si fondasse solamente sul fatto che la validità dell’insegnamento dato non è evidente o sull’opinione che la posizione contraria sia più probabile. Così pure non sarebbe sufficiente il giudizio della coscienza soggettiva del teologo, perché questa non costituisce un’istanza autonoma ed esclusiva per giudicare della verità di una dottrina.
29. In ogni caso non potrà mai venir meno un atteggiamento di fondo di disponibilità ad accogliere lealmente l’insegnamento del magistero, come si conviene a ogni credente nel nome dell’obbedienza della fede. Il teologo si sforzerà pertanto di comprendere questo insegnamento nel suo contenuto, nelle sue ragioni e nei suoi motivi. A ciò egli consacrerà una riflessione approfondita e paziente, pronto a rivedere le sue proprie opinioni e a esaminare le obiezioni che gli fossero fatte dai suoi colleghi.
30. Se, malgrado un leale sforzo, le difficoltà persistono, è dovere del teologo far conoscere alle autorità magisteriali i problemi suscitati dall’insegnamento in se stesso, nelle giustificazioni che ne sono proposte o ancora nella maniera con cui è presentato. Egli lo farà in uno spirito evangelico, con il profondo desiderio di risolvere le difficoltà. Le sue obiezioni potranno allora contribuire a un reale progresso, stimolando il magistero a proporre l’insegnamento della chiesa in modo più approfondito e meglio argomentato.
In questi casi il teologo eviterà di ricorrere ai «mass – media» invece di rivolgersi all’autorità responsabile, perché non è esercitando in tal modo una pressione sull’opinione pubblica che si può contribuire alla chiarificazione dei problemi dottrinali e servire la verità.
31. Può anche accadere che al termine di un esame dell’insegnamento del magistero serio e condotto con volontà di ascolto senza reticenze, la difficoltà rimanga, perché gli argomenti in senso opposto sembrano al teologo prevalere. Davanti a un’affermazione, alla quale non sente di poter dare la sua adesione intellettuale, il suo dovere è di restare disponibile per un esame più approfondito della questione.
Per uno spirito leale e animato dall’amore per la chiesa, una tale situazione può certamente rappresentare una prova difficile. Può essere un invito a soffrire nel silenzio e nella preghiera, con la certezza che se la verità è veramente in causa, essa finirà necessariamente per imporsi.
B. Il problema dei dissenso
32. A più riprese il magistero ha attirato l’attenzione sui gravi inconvenienti arrecati alla comunione della chiesa da quegli atteggiamenti di opposizione sistematica, che giungono perfino a costituirsi in gruppi organizzati [cfr. Paolo VI, esort. apost. Paterna cum benevolentia (PcB), 8.12.1974; AAS 67(1975), 5 – 23; EV 5/815ss. Si veda anche ME: AAS 65 (1973), 396 – 408; EV 4/2564ss]. Nell’esortazione apostolica Paterna cum benevolentia Paolo VI ha proposto una diagnosi che conserva ancora tutta la sua pertinenza. In particolare qui si intende parlare di quell’atteggiamento pubblico di opposizione al magistero della chiesa, chiamato anche «dissenso», e che occorre ben distinguere dalla situazione di difficoltà personale, di cui si è trattato più sopra. Il fenomeno del dissenso può avere diverse forme, e le sue cause remote o prossime sono molteplici.
Tra i fattori che possono esercitare la loro influenza in maniera remota o indiretta, occorre ricordare l’ideologia del liberalismo filosofico che impregna anche la mentalità della nostra epoca. Di qui proviene la tendenza a considerare che un giudizio ha tanto più valore quanto più procede dall’individuo che si appoggia sulle proprie forze. Così si oppone la libertà di pensiero all’autorità della tradizione, considerata causa di schiavitù. Una dottrina trasmessa e generalmente recepita è a priori sospetta e il suo valore veritativo contestato. Al limite, la libertà di giudizio così intesa è più importante della verità stessa. Si tratta quindi di tutt’altro che dell’esigenza legittima della libertà, nel senso di assenza di costrizione, come condizione richiesta per la ricerca leale della verità. In virtù di questa esigenza la chiesa ha sempre sostenuto che «nessuno può essere costretto ad abbracciare la fede contro la sua volontà» [Dich. Dignitatis humanae (DH), n. 10: EV 1/1070].
Il peso di un’opinione pubblica artificiosamente orientata e dei suoi conformismi esercita anche la sua influenza. Sovente i modelli sociali diffusi dai «mass – media» tendono ad assumere un valore normativo; si diffonde in particolare il convincimento che la chiesa non dovrebbe pronunciarsi che sui problemi ritenuti importanti dall’opinione pubblica e nel senso che a questa conviene. Il magistero, per esempio, potrebbe intervenire nelle questioni economiche e sociali, ma dovrebbe lasciare al giudizio individuale quelle che riguardano la morale coniugale e familiare.
Infine anche la pluralità delle culture e delle lingue, che è in se stessa un ricchezza, può indirettamente portare a dei malintesi, motivo di successivi disaccordi.
In questo contesto un discernimento critico ben ponderato e una vera padronanza dei problemi sono richiesti dal teologo, se vuole adempiere la sua missione ecclesiale e non perdere, conformandosi al mondo presente (cfr. Rm 12,2; Ef 4,23), l’indipendenza del giudizio che deve essere quella dei discepoli di Cristo.
33. Il dissenso può rivestire diversi aspetti. Nella sua forma più radicale esso ha di mira il cambiamento della chiesa, secondo un modello di contestazione ispirato da ciò che si fa nella società politica. Più frequentemente si ritiene che il teologo sarebbe obbligato ad aderire all’insegnamento infallibile del magistero, mentre invece, adottando la prospettiva di una specie di positivismo teologico, le dottrine proposte senza che intervenga il carisma dell’infallibilità non avrebbero nessun carattere obbligatorio, lasciando al singolo piena libertà di aderirvi o meno. Il teologo sarebbe quindi totalmente libero di mettere in dubbio o di rifiutare l’insegnamento non infallibile del magistero, in particolare in materia di norme morali particolari. Anzi con questa opposizione critica egli contribuirebbe al progresso della dottrina.
34. La giustificazione del dissenso si appoggia in generale su diversi argomenti, due dei quali hanno un carattere più fondamentale. Il primo è di ordine ermeneutico: i documenti del magistero non sarebbero niente altro che il riflesso di una teologia opinabile. Il secondo invoca il pluralismo teologico, spinto talora fino a un relativismo che mette in causa l’integrità della fede: gli interventi magisteriali avrebbero la loro origine in una teologia fra molte altre, mentre nessuna teologia particolare può pretendere di imporsi universalmente. In opposizione e in concorrenza con il magistero autentico sorge così una specie di «magistero parallelo» dei teologi [L’idea di un «magistero parallelo» dei teologi in opposizione e in concorrenza con il magistero dei pastori si appoggia talvolta su alcuni testi in cui san Tommaso d’Aquino distingue tra «magisterium cathedrae pastoralis» e «magisteriurn cathedrae magisterialis» (Contra impugnantes, c. 2; Quodlib. III, q. 4, a. 1 (9); In IV Sent. 19, 2, 2, q. 3 sol: 2 ad 4). In realtà questi testi non offrono alcun fondamento a questa posizione, perché san Tommaso è assolutamente certo che il diritto di giudicare in materia di dottrina spetta solo all’«officium praelationis»].
Uno dei compiti del teologo è certamente quello di interpretare correttamente i testi dei magistero, e allo scopo egli dispone di regole ermeneutiche, tra le quali figura il principio secondo cui l’insegnamento del magistero – grazie all’assistenza divina – vale al di là dell’argomentazione, talvolta desunta da una teologia particolare, di cui esso si serve. Quanto al pluralismo teologico, esso non è legittimo se non nella misura in cui è salvaguardata l’unità della fede nel suo significato obiettivo [cfr. PcB 4: AAS 67(1975), 14 – 15; EV 5/830ss]. I diversi livelli che sono l’unità della fede, l’unità – pluralità delle espressioni della fede e la pluralità delle teologie sono infatti essenzialmente legati fra loro. La ragione ultima della pluralità è l’insondabile mistero di Cristo che trascende ogni sistematizzazione oggettiva. Ciò non può significare che siano accettabili conclusioni che gli siano contrarie, e ciò non mette assolutamente in causa la verità di asserzioni per mezzo delle quali il magistero si è pronunciato [cfr. Paolo VI, Discorso ai membri della Commissione teologica internazionale, 11.10.1973: AAS 65(1973), 555 – 559]. Quanto al «magistero parallelo», esso può causare grandi mali spirituali opponendosi a quello dei pastori. Quando infatti il dissenso riesce a estendere la sua influenza fino a ispirare un’opinione comune, tende a diventare regola di azione, e ciò non può non turbare gravemente il popolo di Dio e condurre ad una disistima della vera autorità [cfr. Giovanni Paolo II, encicl. Redemptor hominis (RH), n. 19: AAS 71(1979), 308; EV 6/1248; Discorso ai fedeli di Managua, 4.3.1983, n. 7: AAS 75(1983), 723; Regno – doc. 7(1983), 215s; Discorso ai religiosi a Guatemala, 8.3.1983, n. 3: AAS 75(1983), 746; Discorso ai vescovi a Lima, 2.2.1985, n. 5: AAS 77(1985), 874; Regno – doc 5(1985), 137; Discorso alla Conferenza dei vescovi belgi a Malines, 18.5.1985, n. 5: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VIII, 1(1985), 1481; Regno – doc. 11(1985), 328; Discorso ad alcuni vescovi americani in visita «ad limina», 15.10.1988, n. 6: L’Osservatore romano, 16.10.1988, 4].
35. Il dissenso fa appello anche talvolta a un’argomentazione sociologica, secondo la quale l’opinione di un gran numero di cristiani sarebbe un’espressione diretta e adeguata del «senso soprannaturale della fede».
In realtà le opinioni dei fedeli non possono essere puramente e semplicemente identificate con il «sensus fidei» [cfr. Giovanni Paolo II, esort. apost. Familiaris consortio (FC), n. 5: AAS 74(1982), 85s; EV 7/1538]. Quest’ultimo è una proprietà della fede teologale la quale, essendo un dono di Dio che fa aderire personalmente alla Verità, non può ingannarsi. Questa fede personale è anche fede della chiesa, poiché Dio ha affidato alla chiesa la custodia della Parola e, di conseguenza, ciò che il fedele crede è ciò che crede la chiesa. Il «sensus fidei» implica pertanto, di sua natura, l’accordo profondo dello spirito e del cuore con la chiesa, il «sentire cum ecclesia».
Se quindi la fede teologale in quanto tale non può ingannarsi, il credente può invece avere delle opinioni erronee, perché tutti i suoi pensieri non procedono dalla fede [cfr. la formula del concilio di Trento, sess. VI, c. 9: fides «cui non potest subesse falsum»: DS 1534; cfr. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, II – II, q. 1, a. 3, ad 3: «Possibile est enim hominem fidelem ex coniectura humana falsum aliquid aestimare. Sed quod ex fide falsum aestimet, hoc est impossibile»]. Le idee che circolano nel popolo di Dio non sono tutte in coerenza con la fede, tanto più che possono facilmente subire l’influenza di un’opinione pubblica veicolata da moderni mezzi di comunicazione. Non è senza motivo che il concilio Vaticano II sottolinei il rapporto indissolubile fra il «sensus fidei» e la guida del popolo di Dio da parte del magistero dei pastori: le due realtà non possono essere separate l’una dall’altra [cfr. LG 12: EV 1/316s]. Gli interventi del magistero servono a garantire l’unità della chiesa nella verità del Signore. Essi aiutano a «dimorare nella verità» di fronte al carattere arbitrario delle opinioni mutevoli, e sono l’espressione dell’obbedienza alla parola di Dio [cfr. DV 10: EV 1/886]. Anche quando può sembrare che essi limitino la libertà dei teologi, essi instaurano, per mezzo della fedeltà alla fede che è stata trasmessa, una libertà più profonda che non può venire se non dall’unità nella verità.
36. La libertà dell’atto di fede non può giustificare il diritto al dissenso. In realtà essa non significa affatto la libertà nei confronti della verità, ma il libero auto – determinarsi della persona in conformità con il suo obbligo morale di accogliere la verità. L’atto di fede è un atto volontario, perché l’uomo, riscattato dal Cristo redentore e chiamato da lui all’adozione filiale (cfr. Rm 8,15; Gal 4,5; Ef 1,5; Gv 1,12), non può aderire a Dio se non a condizione che, «attirato dal Padre» (Gv 6,44), egli faccia a Dio l’omaggio ragionevole della sua fede (cfr. Rm 12,1). Come ha ricordato la dichiarazione Dignitatis humanae [cfr. DH 9 – 10: EV 1/1069s], nessuna autorità umana ha il diritto di intervenire, con costrizioni o pressioni, in questa scelta che supera i limiti delle sue competenze. Il rispetto del diritto alla libertà religiosa è il fondamento del rispetto dell’insieme dei diritti dell’uomo.
Non si può pertanto fare appello a questi diritti dell’uomo per opporsi agli interventi del magistero. Un tale comportamento misconosce la natura e la missione della chiesa, che ha ricevuto dal suo Signore il compito di annunciare a tutti gli uomini la verità della salvezza, e lo realizza camminando sulle tracce del Cristo, sapendo che «la verità non si impone che in forza della stessa verità, la quale penetra nelle menti soavemente e insieme con vigore» [DH 1: EV 1/1044].
37. In forza del mandato divino che gli è stato dato nella chiesa, il magistero ha per missione di proporre l’insegnamento del vangelo, di vegliare sulla sua integrità e di proteggere così la fede del popolo di Dio. Per realizzare questo talvolta può essere condotto a prendere delle misure onerose, come per esempio quando ritira a un teologo che si discosta dalla dottrina della fede la missione canonica o il mandato dell’insegnamento che gli aveva affidato, ovvero dichiara che degli scritti non sono conformi a questa dottrina. Agendo così esso intende essere fedele alla sua missione, perché difende il diritto del popolo di Dio a ricevere il messaggio della chiesa nella sua purezza e nella sua integralità, e quindi a non essere turbato da un’opinione particolare pericolosa.
Il giudizio espresso dal magistero in tali circostanze, al termine di un esame approfondito, condotto in conformità con procedure stabilite, e dopo che all’interessato è stata concessa la possibilità di dissipare eventuali malintesi sul suo pensiero, non tocca la persona del teologo, ma le sue posizioni intellettuali pubblicamente espresse. Il fatto che queste procedure possano essere perfezionate non significa che esse siano contrarie alla giustizia e al diritto. Parlare in questo caso di violazione dei diritti dell’uomo è fuori luogo, perché si misconoscerebbe l’esatta gerarchia di questi diritti, come anche la natura della comunità ecclesiale e del suo bene comune. Peraltro il teologo, che non è in sintonia con il «sentire cum ecclesia», si mette in contraddizione con l’impegno da lui assunto liberamente e consapevolmente di insegnare in nome della chiesa [cfr. Giovanni Paolo II, cost. apost. Sapientia christiana, 15.4.1979, art. 27 § 1: AAS 71(1979), 483; EV 6/1385; CIC can. 812].
38. Infine l’argomentazione che si rifà al dovere di seguire la propria coscienza non può legittimare il dissenso. Innanzitutto perché questo dovere si esercita quando la coscienza illumina il giudizio pratico in vista di una decisione da prendere, mentre qui si tratta della verità di un enunciato dottrinale. Inoltre perché se il teologo deve, come ogni credente, seguire la sua coscienza, egli è anche tenuto a formarla. La coscienza non è una facoltà indipendente e infallibile, essa è un atto di giudizio morale che