Il dibattito sulla realizzabilita’, opportunita’ e liceita’ morale della clonazione umana si e’ recentemente riacceso in conseguenza di notizie su esperimenti (eseguiti o previsti) e su autorizzazioni per progetti di ricerca
L’OSSERVATORE ROMANO, 22-23 Febbraio 1999
Il dibattito sulla clonazione umana:
Aspetti scientifici e morali
ROBERTO COLOMBO
Il dibattito pubblico sulla realizzabilità, opportunità e liceità morale, oppure no, della clonazione umana si è recentemente acceso di nuovo in conseguenza della diffusione di notizie su esperimenti (eseguiti o previsti) e su autorizzazioni per progetti di ricerca nel campo della embriologia dell’uomo e delle colture di cellule umane di origine embrionale precoce. Ma non si tratta semplicemente di una riproposizione, più attuale in termini di possibilità di realizzazione e più inquietante per l’urgenza della questione morale, della discussione già suscitata nel febbraio del 1997 dal rapporto sulla nascita a Edimburgo della pecora Dolly attraverso un riuscito esperimento di clonazione animale. E neppure si può ritenere che a giustificare la riapertura della questione siano delle sostanziali novità sul piano scientifico-procedurale (il trasferimento del nucleo di una cellula somatica, o la fusione della cellula stessa in un oocita enucleato resta tuttora la base del processo di clonazione di un organismo) oppure su quello giuridico-normativo (il divieto della clonazione umana permane, nei termini espressi allora, laddove è stato posto).
Che cosa raccomanda dunque una ripresa ed una precisazione della riflessione critica sulla clonazione? A dettare la necessità di ritornare sul problema è il mutato contesto scientifico, clinico e sociale nel quale si colloca, e le nuove finalità che dichiara di perseguire la ricerca in embriologia e biologia dello sviluppo nel domandare insistentemente di poter accedere alla sperimentazione sulla clonazione umana.
La precedente prospettiva di applicazione all’uomo, evocata due anni orsono dalla prima clonazione di un mammifero, era quella ispirata dal desiderio della «replicazione biologica» di uno o più individui con predeterminate caratteristiche somatiche e psichiche (robustezza, longevità, bellezza, genialità, temperamento etc.) o affettive (ad esempio il familiare deceduto), od orientata a scopi eugenetici (generazione di individui non affetti da malattie ereditarie né portatori sani di alleli recessivi per le medesime). Tale prospettiva, dissolto l’entusiasmo iniziale provocato in alcuni dall’immaginario collettivo ed alimentato in altri dal desiderio di onnipotenza, va rapidamente esaurendosi – pur con qualche isolato tentativo di riproposizione – in quanto condannata da sé stessa ad essere praticamente irrealizzabile ed eticamente inaccettabile. Praticamente irrealizzabile, perché ad un identico genotipo nucleare non corrisponde necessariamente uno stesso fenotipo somatico e ancor meno la stessa personalità: l’ambiente interno ed esterno al soggetto, che non è mai identico, gioca infatti un ruolo non indifferente nello sviluppo dei suoi caratteri fisici e psichici, così come l’educazione e l’esperienza personale sono determinanti nella formazione della sua cultura e della sua affettività. Anche il progetto eugenetico non appare realistico, tenuto conto, tra gli altri fattori, della ereditarietà extranucleare e della periodica e casuale insorgenza di mutazioni genomiche e di aberrazioni cromosomiche, sia somatiche che germinali.
La clonazione replicativa ed eugenetica – anche a prescindere dalla considerazione della irraggiungibilità dei suoi ambiziosi e sconcertanti obiettivi – risulta comunque inaccettabile alla luce di teorie etiche anche assai differenti e nel contesto di prospettive culturali diverse. Essa appare infatti negatrice di valori imprescindibili e ampiamente condivisi, primo tra i quali la inalienabile dignità della persona, il cui organismo nella clonazione verrebbe generato attraverso un processo asessuale e agamico di «produzione tecnologica» che inaugurerebbe una nuova e deprecabile forma di potere dell’uomo sull’uomo. Inoltre, come ha ricordato anche la Risoluzione del Parlamento Europeo del 12 marzo 1997, sul piano del diritto l’eventuale clonazione umana rappresenterebbe una violazione dei due principi fondamentali su cui si basano i diritti umani: il principio di parità fra tutti gli uomini e il principio di non discriminazione (cfr. Pontificia Accademia pro Vita, Riflessioni sulla clonazione, 1997: n. 4). E, nell’ambito della teologia morale cattolica, la concezione antropologica unitaria della persona (corpore et anima unus) – che ha sempre colto un nesso intrinseco tra sessualità, amore coniugale e procreazione – non può che vedere nella eventuale riproduzione di un uomo o di una donna per clonazione lo spezzarsi della originaria, creaturale e costitutiva circumsessione dei tre fattori e, ultimamente, la loro dissoluzione. La procreazione umana verrebbe così violata nel suo essere allo stesso tempo opus personae (offerta del proprio «io» sessuato nella reciprocità femminile e maschile), opus personarum (atto coniugale), e opus naturae (processo di fecondazione dei gameti ordinato al concepimento): la clonazione, in quanto riproduzione asessuale, acoitale e agamica è negatrice di tutte e tre le coessenziali dimensioni della generazione umana.
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Diversa da quella replicativa ed eugenetica è invece la prospettiva abbracciata dai più recenti sostenitori della clonazione umana, secondi i quali tale intervento biotecnologico troverebbe la sua ragione scientifica nella possibilità di produrre tessuti «di ricambio» istocompatibili con quelli del donatore di nucleo (e dunque innestabili nel suo corpo senza problemi di rigetto) e la sua giustificazione etica nel presupposto che a venire prodotto per clonazione non sarebbe un essere umano, sia pure allo stadio embrionale di sviluppo, ma solo una struttura biologica considerata come pre-organismica o preembrionale, la blastocisti, dalla quale sono prelevate le cellule necessarie per la coltura dei tessuti destinati all’innesto. Alcuni, non senza una certa ambiguità terminologica, denominano la procedura siffatta «clonazione cellulare».
Questo orientamento, chiamato terapeutico, si fonda sulla possibilità di ottenere linee cellulari pluripotenti a partire da singole cellule staminali di origine embrionale precoce, come è stato recentemente dimostrato attraverso esperimenti condotti da un gruppo di ricercatori statunitensi e israeliani e pubblicati sulla rivista Science (6 novembre 1998). Inducendo la differenziazione di tali colture in linee cellulari di interesse clinico, ad esempio in una di neuroni o di cardiomiociti, sarebbe in futuro possibile disporre di una certa quantità di tessuto nervoso o di muscolo cardiaco umano. Gli embrioni utilizzati negli esperimenti si trovavano allo stadio di blastocisti, ed erano stati ottenuti mediante ordinaria fertilizzazione in vitro. Ma i recenti lavori scientifici che hanno documentato l’applicazione della tecnica di clonazione all’ottenimento di altri mammiferi, non solo sciolgono i dubbi sulla autenticità e praticabilità del «metodo Dolly», ma fanno anche ritenere che non sarebbe impossibile procedere alla clonazione di embrioni umani, come sembra essere già recentemente avvenuto in un laboratorio sudcoreano.
Taluni ricercatori costruiscono su una distinzione concettuale avente pretesa di referenza empirica il tentativo di giustificare, dal punto di vista etico e giuridico la produzione, mediante clonazione o altro procedimento biologico, di blastocisti umane destinate esclusivamente a scopo di ricerca sulle cellule staminali embrionali e sulle colture di linee cellulari multipotenti da esse ottenibili. Si tratta di una distinzione – quella tra struttura biologica pre-organismica o pre-embrionale (fino allo stadio di blastocisti) e organismo embrionale vero e proprio (dopo l’impianto, a partire dal quattordicesimo giorno di sviluppo) – che risulta arbitraria, sia sotto il profilo delle proprietà che identificano il processo biologico in questione sia in relazione alla stadiazione convenzionale di tipo morfologico-temporale del medesimo, e come tale non è decisiva in ordine alla definizione dello statuto ontologico dell’embrione all’inizio del suo sviluppo. Nessuna struttura biologica multicellulare che non sia di tipo organismico è capace di autoorganizzare e controllare la propria crescita secondo un piano di sviluppo graduale, continuo e coordinato che conduce, nelle opportune condizioni fisiologiche, alla formazione di un individuo adulto. Inoltre, la scelta della ipotetica transizione tra entità preembrionale ed embrione umano non può fondarsi su alcun punto di discontinuità morfogenetica che sia più necessario o determinante di altri nel processo di sviluppo. Ogni procedura di produzione, sperimentazione, alterazione, e distruzione di un organismo umano allo stadio embrionale rappresenta un intervento gravemente illecito sulla vita di un essere umano che è solo all’inizio del suo sviluppo, ma già appartiene di fatto e di diritto alla famiglia umana: egli è uno di noi perché ciascuno di noi è stato come lui. La «regola aurea» dell’etica razionale ed il comandamento evangelico dell’amore del prossimo, che la perfeziona e la radica nella virtù teologale della carità, esigono un atteggiamento di accoglienza e di cura incondizionata nei confronti di ogni stagione dello sviluppo dell’essere umano che deve essere «rispettato e trattato come una persona umana fin dal suo concepimento e, pertanto, da quello stesso momento gli si devono riconoscere i diritti della persona, tra i quali anzitutto il diritto inviolabile di ogni essere umano innocente alla vita». (Donum vitae I, 1; Evangelium vitae, 60).
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Di fronte alla prospettiva di una applicazione terapeutica della clonazione di embrioni umani, non destinati allo sviluppo endouterino ma prodotti per prelevarne e coltivarne le cellule staminali, anche tra i cristiani vi è chi – pur prendendo le distanze dall’utilitarismo e dal pragmatismo che facilmente assolvono questo tipo di intervento – ritiene che non si possa formulare una proibizione assoluta di tale forma di clonazione. Alcuni, in accordo con le teorie etiche teleologiche (proporzionalismo consequenzialismo) e non riconoscendo nel rispetto della vita dell’embrione umano, almeno fino ad un certo stadio di sviluppo, un valore morale fondamentale, vedono nella «clonazione terapeutica» una mescolanza di effetti buoni e cattivi tale da richiedere di giudicare la moralità di questa azione in modo differenziato: la sua «bontà» morale sulla base della positiva intenzione del ricercatore riferita alla possibile terapia di determinate malattie (ad esempio, il morbo di Parkinson o il diabete mellito insulino-dipendente), e la sua «ingiustezza» in considerazione degli effetti negativi sulla vita dell’embrione (considerata un valore di ordine cosiddetto «pre-morale» o fisico o ontico). Di conseguenza, pur ammettendo che il processo di clonazione, se eseguito per ottenere un essere umano, sia «sbagliato» essi non giungono a valutare come moralmente «cattiva» la volontà che progetta o esegue tale intervento, in considerazione dell’intenzione del medico e del biologo, che si volgerebbe ad un alto valore di ordine morale – la cura del paziente – giudicato decisivo in quella circostanza. È comprensibile che siffatto ragionamento possa trovare una sua forza persuasiva, a motivo della immediata sintonia con la mentalità scientifica e tecnica, proprio tra i ricercatori e i medici, abituati a valutare operativamente le loro attività scientifiche, diagnostiche o terapeutiche sulla base del rapporto tra risultati e risorse e tra benefici ed eventi avversi.
Tuttavia anche la più scrupolosa ponderazione degli effetti buoni o cattivi prevedibili in conseguenza di un’azione non è un metodo adeguato per giudicare la qualità morale di una scelta eticamente rilevante quale è quella di intervenire su una vita umana. Né basta la buona intenzione, in quanto «la moralità dell’atto umano dipende anzitutto e fondamentalmente dall’oggetto ragionevolmente scelto dalla volontà deliberata» (Veritatis splendor, 78), ossia se questo è ordinabile al bene e al fine ultimo che è Dio. La stessa ragione attesta che tra gli oggetti delle azioni umane che «si configurano come “non ordinabili” a Dio perché contraddicono radicalmente il bene della persona, fatta a Sua immagine» (ivi 80) vi è tutto ciò che è contro la vita umana stessa, come la soppressione la violazione della integrità e l’offesa della dignità di un essere umano dal suo concepimento fino alla morte naturale.
La generazione per clonazione di un embrione umano al fine di utilizzarlo come fonte di cellule staminali da destinarsi alla coltura e successivamente alla pratica dell’innesto sul corpo dei pazienti che hanno donato il nucleo per la clonazione medesima è un’azione indegna della persona umana perché si oppone al suo bene, e nessuna intenzione buona o circostanza particolare è capace di cancellarne la malizia. Non può dunque essere oggetto di un atto positivo di volontà anche se nell’intento di salvaguardare o promuovere un importante bene individuale e sociale quale è la salute. Il reperimento in tessuti del paziente stesso, ove eventualmente possibile, di alcune cellule staminali multipotenti da avviare alla coltura, oppure la modificazione genetica in vitro di linee cellulari umane provenienti da cellule staminali eterologhe (la cui provenienza sia lecita), al fine di ridurre o eliminare la risposta immunitaria nei loro confronti, rappresentano due delle possibili strategie alternative nella ricerca di una fonte di tessuti per una terapia efficace e duratura di alcune malattie che hanno origine dalla morte o disfunzione di uno o pochi, ben definiti tipi di cellule.
Sì alla vita bene inviolabile
RAMÓN LUCAS LUCAS
Membro della Pontificia Accademia per la Vita
Nei giorni scorsi si è fatto un gran parlare su temi bioetici con motivo delle vicende parlamentari sulla legge della fecondazione artificiale. Ai cattolici è stata rivolta l’accusa di voler imporre una visione «confessionale». È questo punto che mi preme chiarire, data l’importanza che esso ha in temi come la fecondazione artificiale e l’aborto. Trasformare il delitto in diritto è la corruzione della norma morale, la perversione della persona e la distruzione della convivenza sociale giusta. Trasformare il delitto in diritto è attribuire alla libertà umana un significato perverso ed iniquo. La forza dell’argomentazione razionale sui problemi bioetici non nasce da una «posizione clericale», ma dal valore stesso degli argomenti fondati sulla natura delle cose. Questo vuol dire che il diritto alla vita e la sua inviolabilità assoluta è il primo e principale di ogni uomo, indipendentemente dalla sua credenza religiosa o dalla sua situazione; egli lo possiede per il fatto stesso di essere uomo, individuo della specie umana, e come tale deve essere rispettato. In questo senso non si tratta di imporre a nessuno il rispetto della vita umana in base a una norma morale «confessionale». Il rifiuto delle manipolazione e delle violazioni contro la vita, nonché la difesa della stessa si fondano sulla natura stessa delle cose e sull’esperienza umana. Esiste un punto di razionalità comune a tutti gli uomini, che permette la comunicazione fra di loro e la convivenza civile, che è indipendente dalla fede ed al quale si può aderire mediante basi scientifiche e filosofiche.
Non esiste una connessione assolutamente necessaria fra etica razionale e fede. In effetti, vi possono essere e di fatto ci sono forme valide di etica, vissuta e formulata, senza riferimento esplicito ad una credenza religiosa. In questa maniera è possibile una fondazione prossima autonoma, e di conseguenza non religiosa, della vita etica e della convivenza civile. L’autonomia della ragione umana e l’affermazione del valore assoluto dell’uomo e della vita umana, sono una base sufficiente per la fondatezza prossima dell’etica razionale umana. D’altro canto, l’apertura alla fede non priva l’uomo del suo valore assoluto. Per il credente, l’uomo è ordinato a Dio; ma non come mezzo, bensì come fine in se stesso. Questa posizione integra le convinzioni religiose (teonomia) con la razionalità inscritta nell’essere umano (autonomia). Si evita in questo modo l’errore di pensare che ogni «autonomia» è di per sé un’«eteronomia», o detto più semplicemente, il pensare che la fede si contrappone ed elimina la ragione. Esiste il rischio, non soltanto di abbandonare il fondamento metafisico dell’etica, ma di eludere gli argomenti razionali che provengono dall’ambiente cattolico, in nome della aconfessionalità. Affermare l’autonomia della ragione non significa prescindere da essa quando proviene da un determinato luogo, cioè dal mondo cattolico; agendo in questo modo non si cercherebbe la verità razionale in sé, ma soltanto quella che proviene da quei settori che mi stanno simpatici.
Vi sono quattro fondamenti sui quali poggiano costantemente i motivi razionali in materia bioetica:
– Il nesso inseparabile fra vita e libertà, ed il vincolo costitutivo fra la libertà e la verità. La vita e la libertà sono beni inseparabili: quando si viola uno, l’altro finisce anche con l’essere violato. Non vi è vera libertà quando non si accoglie e ama la vita, e non vi è vita piena se non nella libertà. D’altra parte, separare la libertà dalla verità oggettiva rende impossibile la fondazione dei diritti della persona su una solida base razionale, e stabilisce le premesse di comportamenti arbitrari e totalitari tanto degli individui come delle istituzioni. È vero che «una legge come quella sull’aborto e sulla procreazione assistita non impone a nessuno di abortire o di procreare artificialmente», ed «il cattolico osservante resta libero di non abortire, di non procreare che in maniera naturale»; ma non è vero che accresca «le opportunità di libertà per tutti» (certamente non per chi viene soppresso e manipolato). Sarebbe come legalizzare il furto o l’omicidio; certamente il cattolico osservante non sarebbe obbligato a rubare o a uccidere; ma cosa direbbe chi, in base a questa legge, è derubato o ucciso? Nella regolamentazione di una materia come questa, la rivendicazione della libertà individuale deve tener necessariamente conto di non ledere i diritti oggettivi dell’altro, soprattutto quando questo è debole e indifeso. In questi casi la legislazione, anche se formulata in forma negativa (non punibilità di certe azioni) esprime implicitamente un giudizio di violabilità della vita e della persona in determinate condizioni, togliendo la tutela e la protezione. Il bene inviolabile richiede l’impegno della tutela da chi lo vuole violare. Se il violatore non viene fermato (e invece è protetto e finanziato, come nel caso dell’aborto) ciò vuol dire che non si considera quel bene inviolabile.
– La finalità naturale, primaria e principale della medicina e del progresso tecnico-scientifico è la difesa e la protezione della vita, non la sua manipolazione od eliminazione; per disgrazia si costata che, tanto nell’aborto come nella fecondazione artificiale, la scienza medica invece di proteggere la vita si mette al servizio della sua manipolazione e distruzione, perdendo così la propria dimensione etica originale, riconosciuta già nell’antico e sempre attuale giuramento di Ippocrate. E non serve dire che la fecondazione artificiale (omologa o eterologa) mira precisamente a promuovere la vita; se è vero che mediante essa coppie sterili possono avere figli, è pure vero che il prezzo da pagare è la manipolazione, la distruzione, l’uccisione, la crioconservazione di molti fratellini o sorelline. Il fine non giustifica i mezzi. Se è buono avere soldi per vivere una vita felice con la famiglia in campagna, non è certamente buono ottenerli assaltando le banche e trucidando i vigilantes. Non si tratta di diffidenza e, tanto meno, opposizione allo sviluppo tecnico-scientifico, ma di far sì che esso sia al servizio dell’uomo e non per distruggerlo. Non tutto ciò che è tecnicamente possibile, è moralmente ammissibile.
– Il figlio è un dono, frutto dell’amore reciproco dei coniugi. Il figlio non viene aggregato o introdotto dall’esterno nella famiglia. Il figlio è concepito, non prodotto; egli è una persona che si accoglie, non un oggetto che si ordina. Prima ancora che i criteri etici, la fecondazione artificiale contraddice lo statuto antropologico del nascituro e della sessualità. Il figlio viene privato del diritto ad essere concepito come frutto dell’amore coniugale, e nel caso della fecondazione eterologa, e anche privato dell’identità dei propri genitori. Ogni essere umano ha diritto di sapere di chi è figlio. È dunque un dovere di giustizia che la legge garantisca tale diritto. Inoltre, non si tratta di questionare le tecniche di fecondazione artificiale per il semplice fatto di essere artificiali; la posta in gioco non è l’elemento tecnico, ma il fatto che l’origine di una persona umana, in virtù della dignità che gli è propria, deve essere il frutto della donazione di amore tra i genitori, e non un prodotto tecnico. Ciò è manifesto nella natura della sessualità umana, la quale non è un dato puramente biologico, ma implica tutta la persona.
– Le leggi degli stati hanno come obiettivo naturale la tutela del bene (e la vita è il primo e principale bene) delle persone e la difesa dei più deboli e degli innocenti dalle aggressioni ingiuste; per tanto, nessuna legge civile che in qualche modo attenti contro questo bene primordiale potrà essere considerata moralmente legittima, nemmeno quando essa è frutto del voto di una maggioranza; contraddicendo un diritto fondamentale della persona, essa perde ogni validità giuridica e non è più legge ma corruzione della legge. Le violazioni di questo bene fondamentale degradano l’uomo e la convivenza fra gli uomini; invece il suo rispetto rende tale convivenza più degna, contribuisce al rinnovamento della società, promuove la vera democrazia e consolida la vera pace.