Il celibato ecclesiastico (II).

Dopo questi presupposti necessari, cioè di concetto e di metodo di ricerca e di esposizione, seguiamo in primo luogo lo sviluppo della continenza degli ecclesiastici nella Chiesa Latina.


1. Il Concilio di Elvira

Delle testimonianze di vario genere che riguardano questo tema si deve invocare per prima quella del Concilio di Elvira. Nel primo decennio del secolo IV dopo Cristo si sono radunati vescovi e sacerdoti della Chiesa di Spagna nel centro diocesano di Elvira presso Granada per sottoporre ad una regolamentazione comune le condizioni ecclesiastiche della Spagna appartenente alla parte occidentale dell’Impero Romano, la quale sotto il Cesare Costanzo godeva di una pace religiosa relativamente buona. Nel periodo precedente, durante le persecuzioni dei cristiani, si erano verificati degli abusi in più di un settore della vita cristiana che aveva subito dei danni seri nell’osservanza della disciplina ecclesiastica. In 81 canoni conciliari si emanarono dei provvedimenti riguardo a tutti i campi più importanti della vita ecclesiastica che richiedevano dei chiarimenti e dei rinnovamenti, allo scopo di riaffermare la disciplina antica e di sancire le nuove norme resesi necessarie.

Il can. 33 di questo Concilio contiene dunque la, già nota, prima legge sul celibato. Sotto la rubrica: ” Sui vescovi e i ministri (dell’altare) che devono cioè essere continenti dalle loro consorti ” sta il testo dispositivo seguente: ” Si è d’accordo sul divieto completo che vale per i vescovi, i sacerdoti e i diaconi, ossia per tutti i chierici che sono impegnati nel servizio dell’altare, che devono astenersi dalle loro mogli e non generare figli; chi ha fatto questo deve essere escluso dallo stato clericale “. Già il canone 27 aveva insistito sulla proibizione che donne estranee abitassero insieme con i vescovi ed altri ecclesiastici. Essi potevano tenere con sé solo una sorella o una figlia consacrata vergine, ma per nessun motivo una donna estranea.


Da questi primi importanti testi legali si deve dedurre quanto segue: molti, se non la maggior parte, dei chierici maggiori della Chiesa spagnola di allora erano viri probati vale a dire uomini sposati prima della loro ordinazione a diaconi, sacerdoti, vescovi. Essi pero erano obbligati, dopo aver ricevuto l’ordine sacro, ad una completa rinuncia di ogni ulteriore uso del matrimonio, di osservare cioè completa continenza. Alla luce delle finalità del Concilio di Elvira, del diritto e della storia del diritto nel grande Impero Romano di cultura giuridica che dominava in quell’epoca anche nella Spagna, non è possibile vedere nel canone 33 (assieme con il canone 27) una legge nuova. Esso appare invece chiaramente quale reazione contro una non-osservanza ormai largamente invalsa di un obbligo tradizionale ben noto, al quale ora si annette anche la sanzione: o osservanza dell’obbligo assunto o rinuncia all’ufficio clericale. Una novità in questo campo con una tale generale retroattività della sanzione contro diritti già ben acquisiti dal tempo dell’ordinazione avrebbe causato una tempesta di proteste contro una tale evidente violazione di un diritto in un mondo tutt’altro che digiuno di diritto. Ciò ha percepito chiaramente già Pio XI quando, nella sua Enciclica sul sacerdozio, ha affermato che questa legge scritta suppone una prassi precedente.


2. La coscienza della tradizione del celibato nei concili africani

Dopo questa legge importante di Elvira dobbiamo considerarne subito un’altra, ancora più importante per la nostra questione e che incontreremo ancora più tardi quale punto di riferimento cruciale. Si tratta di una dichiarazione vincolante, che è stata fatta nel secondo Concilio Africano dell’anno 390 e ripetuta nei successivi per essere poi inserita nel Codice dei canoni della Chiesa Africana (e nei canoni in causa Apiarii), formalizzato nell’importante Concilio dell’anno 419. Sotto la rubrica: “Che la castità dei Leviti e sacerdoti deve essere custodita” il testo recita: “Il vescovo Epigonio disse: Siccome nel concilio precedente è stato trattato della continenza e castità, i tre gradi i quali per motivo dell’ordinazione sono legati ad un certo obbligo di castità – vale a dire il vescovo, il sacerdote e il diacono – devono essere più completamente istruiti sulla conservazione della castità. Il vescovo Genetlio continuo: “Come è stato detto sopra, conviene che i sacri presuli, i sacerdoti di Dio e i Leviti, ossia tutti coloro che servono ai divini sacramenti, siano continenti in tutto per cui possano senza difficoltà ottenere ciò che chiedono dal Signore; affinché così anche noi custodiamo ciò che hanno insegnato gli apostoli e che tutto il passato ha conservato “. ” A ciò i vescovi risposero unanimemente: Noi tutti siamo d’accordo che vescovi, sacerdoti e diaconi, custodi della castità, si astengano anch’essi stessi dalle loro mogli, affinché in tutto e da tutti coloro che servono all’altare sia conservata la castità”.


Da questa dichiarazione dei Concili di Cartagine risulta che anche nella Chiesa Africana una gran parte, se non la maggioranza, del clero superiore era sposato prima dell’ordinazione e che dopo di essa tutti dovevano vivere in continenza. Qui un tale obbligo viene attribuito espressamente all’ordine sacro ricevuto ed al servizio dell’altare. Inoltre lo si riporta esplicitamente ad un insegnamento degli apostoli e all’osservanza praticata in tutto il passato (antiquitas) e la si inculca con la conferma decisa unanimemente da tutto l’episcopato Africano.


Da una controversia con Roma, che fu trattata anche in queste assemblee conciliari Africane, si può ora conoscere quanto cosciente e viva fosse in questa Chiesa la tradizione della Chiesa antica. Il sacerdote Apiario era stato scomunicato dal suo vescovo.


Egli appellò a Roma, ove si accetto questo ricorso riferendosi ad un canone di Nicea il quale avrebbe autorizzato tali appelli. I vescovi Africani si dichiararono solidali con il loro collega affermando di non conoscere un tale canone niceno. In varie adunanze di questi vescovi, alle quali parteciparono anche i delegati di Roma, si discusse questa questione di cui ci sono ancora conservati i canoni in causa Apiarii. Gli Africani asserirono di non avere nella loro lista dei canoni niceni una siffatta disposizione e inviarono legati ad Alessandria, Antiochia e Costantinopoli per avere delle informazioni a tale scopo. Ma anche in questi centri orientali non si sapeva nulla di un tale canone niceno. L’errore da parte di Roma si spiego poi con il fatto che là ai canoni di Nicea erano stati aggiunti quelli del Concilio di Sardica, tenutosi nell’anno 342, di nuovo sulla questione Ariana e sotto lo stesso presidente che aveva presieduto anche il Concilio di Nicea, Hosio di Cordoba. Per questo motivo nell’archivio di Roma i canoni disciplinari di Sardica erano stati aggiunti a quelli di Nicea e considerati poi tutti come niceni. Ora a Sardica si era realmente deciso questo canone (can. 3). La Chiesa Africana non ebbe difficoltà di provare a Papa Zosimo questa erronea attribuzione al Concilio di Nicea.


Nella seduta principale che tratto tale questione e che si tenne il 25 maggio del 419 il vescovo Aurelio di Cartagine fungeva da Presidente. Vi partecipavano il Legato di Roma, Faustino di Fermo, con due presbiteri Romani, Filippo ed Azello, poi 240 vescovi Africani tra cui Agostino di Ippona ed Alipio di Tagaste. Il Presidente introdusse le discussioni con queste parole: “Abbiamo qui davanti a noi gli esemplari delle disposizioni che i nostri Padri hanno portato con sé da Nicea. Conserviamo la loro forma invariata e custodiamo anche le successive delibere da noi sottoscritte”. Segue il simbolo della fede nella Santissima Trinità pronunciato da tutti i padri conciliari.


Al terzo posto è stato ripetuto il testo riguardante la continenza degli ecclesiastici del Concilio del 390, sopra riferito, che allora era stato recitato da Epigonio e Genetlio e che viene ora pronunciato da Aurelio. Il delegato papale, Faustino, sotto la rubrica: “Dei gradi degli ordini sacri che devono astenersi dalle loro mogli”, aggiunse: “Noi siamo d’accordo che vescovo, sacerdote e diacono, vale a dire tutti coloro che toccano i sacramenti quali custodi della castità devono astenersi dalle loro spose”. A ciò tutti i vescovi risposero: “Siamo d’accordo che in tutti e da tutti coloro che servono all’altare deve essere custodita la castità”.


Tra le norme successive che da tutto il patrimonio tradizionale della Chiesa Africana vennero rilette o nuovamente decise si trova al 25° posto il testo detto dal presidente Aurelio: “Noi, cari fratelli, aggiungiamo qui ancora: quando è stato riferito riguardo alla incontinenza dalle proprie mogli da parte di alcuni chierici che erano solo lettori, è stato deciso ciò che anche in vari altri concili è stato confermato: i suddiaconi, che toccano i santi misteri ed i diaconi, i sacerdoti ed i vescovi devono, secondo le norme per loro vigenti, astenersi anche dalle proprie consorti, cosicché sono da tenersi come se non ne avessero; se non si attengono a questo, devono essere allontanati dal loro servizio ecclesiastico. Gli altri chierici non ne sono tenuti se non in età più matura. Dopo di ciò tutto il Concilio rispose: ciò che vostra santità ha detto in maniera giusta e ciò che è santo e che piace a Dio noi confermiamo”.


Abbiamo riportato queste testimonianze della Chiesa Africana della fine del secolo IV e dell’inizio del secolo V così dettagliatamente a causa della loro importanza fondamentale. Da questi testi risulta una chiara coscienza di una tradizione che si basava non solo su una persuasione generale, che da nessuno veniva messa in dubbio, ma anche su documenti ben conservati. Si trovavano in quegli anni nell’archivio della Chiesa Africana ancora gli atti originali che i Padri avevano portato con sé dal Concilio Niceno. Norme contrastanti il celibato ecclesiastico così come risulta qui affermato sarebbero state respinte nello stesso modo come l’errore o la svista della Chiesa Romana riguardo ai canoni di Sardica attribuiti a Nicea.


Da tutto questo risulta anche la coscienza di una tradizione comune della Chiesa Universale, le varie parti della quale sono in viva comunione fra di loro. ciò che dalla Chiesa Africana veniva tanto esplicitamente e ripetutamente affermato riguardo all’origine apostolica ed all’osservanza, tramandata dall’antichità, della continenza degli ecclesiastici insieme con le sanzioni contro i contravventori, non sarebbe certamente stato accettato tanto generalmente e pacificamente se non avesse avuto l’avallo di un fatto generalmente noto. Abbiamo, anzi, per questo perfino delle testimonianze esplicite anche da parte della Chiesa Orientale, sulle quali torneremo ancora.


3. La testimonianza della Chiesa di Roma

Nel contesto di questa testimonianza Africana sul celibato abbiamo già ascoltato una voce assai autorevole da parte di Roma: il Legato Pontificio Faustino ha manifestato a Cartagine la piena concordanza di Roma su questa questione, ivi solo incidentalmente sollevata.


Roma infatti aveva già sotto Papa Siricio inviato una lettera ai vescovi dell’Africa, nella quale si rendevano loro note le decisioni del sinodo romano dell’anno 386 nelle quali si inculcavano nuovamente alcune importanti disposizioni apostoliche. Questa lettera era stata comunicata durante il Concilio di Telepte dell’anno 418. L’ultima parte di essa tratta (can. 9) precisamente della continenza degli ecclesiastici.


Con questo documento veniamo ad un secondo gruppo di testimonianze sul celibato, il quale ha senza dubbio il peso più forte non solo per la coscienza circa la tradizione osservata nella Chiesa Universale, ma anche per lo sviluppo ulteriore e l’osservanza del celibato clericale. Esse sono contenute nelle disposizioni dei Romani Pontefici a tale riguardo.


Un’affermazione generale sull’importanza della posizione di Roma per ogni questione, e perciò anche per quella sul celibato, ci viene da sant’Ireneo il quale, essendo discepolo di san Policarpo, era collegato con la tradizione giovannea, che egli tramandava, come vescovo di Lione dall’anno 178, anche alla Chiesa d’Europa. Se nella sua opera principale Contro le eresie dice che la tradizione apostolica viene conservata nella Chiesa di Roma che è stata fondata dagli apostoli Pietro e Paolo, per cui tutte le altre Chiese debbono convenire con essa, possiamo ben dire che ciò vale anche per la tradizione della continenza degli ecclesiastici.


Le prime testimonianze esplicite a questo riguardo ci sono state date dai due Papi: Siricio ed Innocenzo I.


Al predecessore del primo, Papa Damaso, il vescovo Himerio di Tarragona aveva posto alcune questioni alle quali solo il successore, cioè Siricio, ha dato la risposta. Alla domanda riguardante l’obbligo della continenza dei chierici maggiori il Papa risponde nella lettera “Directa” del 385 dicendo che i molti sacerdoti e i diaconi che anche dopo l’ordinazione generano dei bambini agiscono contro una legge irrinunciabile che lega i chierici maggiori dall’inizio della Chiesa. Il loro appello all’Antico Testamento, quando i sacerdoti e leviti potevano usare il loro matrimonio fuori del tempo del loro servizio nel Tempio, viene confutato dal Nuovo Testamento, nel quale i chierici maggiori devono prestare il loro sacro servizio ogni giorno, e pertanto dal giorno della loro ordinazione devono vivere continuamente nella continenza.


Una seconda lettera dello stesso Pontefice riguardante la stessa questione è quella già menzionata sopra, inviata ai vescovi Africani nel 386, nella quale vengono comunicate le deliberazioni di un sinodo romano. Questa lettera è particolarmente illuminante per il celibato. Il Papa dice, anzitutto, che i punti trattati nel sinodo non riguardano obblighi nuovi ma sono piuttosto punti della fede e della disciplina che, a causa della pigrizia e dell’inerzia di alcuni, sono stati trascurati. Essi devono essere riattivati, trattandosi di disposizioni dei padri apostolici secondo le parole della Sacra Scrittura: “State saldi e osservate le nostre tradizioni che avete ricevute sia a viva voce sia per iscritto” (2 Ts 2,15).


Il Concilio Romano è dunque ben cosciente che anche tradizioni ricevute solo per trasmissione orale sono vincolanti. Tenendo conto del giudizio divino, tutti i vescovi cattolici devono dunque osservare le seguenti nove disposizioni.


La nona viene esposta diffusamente: i sacerdoti ed i leviti non devono aver rapporti sessuali con le loro spose essendo essi occupati quotidianamente nel loro ministero sacerdotale. San Paolo ha scritto ai Corinzi di astenersi per dedicarsi alla preghiera. Se ai laici si impone la continenza affinché vengano esauditi nella loro preghiera, quanto più il sacerdote deve essere pronto in ogni momento ad offrire in castità sicura il sacrificio e ad amministrare il battesimo. Dopo alcune altre considerazioni ascetiche, dagli 80 vescovi radunati viene – qui per la prima volta per quanto io sappia – respinta in Occidente la obiezione, ancor oggi viva, che voleva provare la continuazione dell’uso del matrimonio con le parole dell’apostolo san Paolo secondo cui deve essere stato sposato una volta sola chi è candidato all’ordinazione sacra. Ciò non vuol dire, dicono i vescovi, che possa continuare a vivere nella concupiscenza di generare figli, ma ciò è stato detto a favore della continenza futura. Con ciò veniamo edotti ufficialmente – e lo si ripeterà poi continuamente – che il bisogno di risposarsi oppure il matrimonio con una vedova non danno la garanzia per una sicura continenza futura.


La lettera si conclude con una pressante esortazione di ubbidire a queste disposizioni che sono sostenute dalla tradizione.


Il successivo Romano Pontefice che si è occupato ampiamente della continenza degli ecclesiastici è Innocenzo I (401-417). Una lettera, che veniva attribuita già a Damaso e poi a Siricio, è probabilmente sua. A motivo di una domanda rivoltagli dai vescovi della Gallia, in un sinodo romano si esaminarono una serie di questioni pratiche e si comunicarono i risultati o le risposte nella lettera “Dominus inter” dell’inizio del secolo IV. La terza delle 16 domande riguarda la “castità e purezza dei sacerdoti”. Nell’introduzione il Papa si rende conto che “molti vescovi in varie chiese particolari si sono affrettati in umana temerità di cambiare le tradizioni dei padri per cui sono incappati nel buio dell’eresia preferendo così l’onore presso gli uomini ai meriti presso Dio”.


Siccome il richiedente cerca di avere dall’autorità della Sede Apostolica la conoscenza sia delle leggi che delle tradizioni, spinto non da curiosità ma dal desiderio di sicurezza nella fede, gli si comunica, con un linguaggio semplice ma di contenuto sicuro, ciò che deve sapere per poter correggere tutte le differenze che l’arroganza umana ha causato.


Alla terza questione proposta si dà poi il seguente responso: “In primo luogo è stato deciso riguardo ai vescovi, sacerdoti e diaconi che debbono partecipare ai sacrifici divini, attraverso le mani dei quali viene comunicata la grazia del battesimo e offerto il Corpo di Cristo, che vengono costretti non solo da noi ma dalle scritture divine alla castità: ai quali anche i padri hanno ingiunto di conservare la continenza corporale”. Segue poi una motivazione ampia di tale comandamento soprattutto dalla Sacra Scrittura che oggi non è meno degna di segnalazione. Concludendo si dice che anche solo per la venerazione dovuta alla religione non si deve affidare il mistero di Dio ai disubbidienti.


Tre altre lettere dello stesso Pontefice ripetono solo i concetti del suo predecessore Siricio, ai quali egli si associa pienamente: la lettera a Victricius di Rouen del 15 febbraio 404; quella indirizzata a Exsuperius di Tolosa del 20 febbraio 405 e quella ai vescovi Massimo e Severo della Calabria di data incerta.


È importante notare che sempre si chiedono qui le sanzioni contro gli impenitenti: essi devono essere allontanati dal ministero clericale.


I Romani Pontefici si impegnarono anche in seguito a conservare la stretta osservanza della tradizionale continenza dei chierici. Ci basta ricordare le testimonianze di due tra i più importanti rappresentanti di questi secoli.


Leone Magno scrive a questo riguardo nel 456 al vescovo Rustico di Narbonne: “La legge della continenza è la stessa per i ministri dell’altare (diaconi) come per i sacerdoti e i vescovi. Quando erano ancora laici e lettori era loro permesso di sposarsi e di generare figli. Ma assurgendo ai gradi suddetti è cominciato per loro il non essere più lecito ciò che lo era prima. Affinché perciò il matrimonio carnale diventasse un matrimonio spirituale è necessario che le spose di prima non già si mandassero via ma che si avessero come se non le avessero, affinché così rimanesse salvo l’amore coniugale ma cessasse allo stesso tempo anche l’uso del matrimonio”.


Con ciò, questo Papa conferma anche l’altro punto collegato con la continenza dogli sposati, che nella legislazione precedente viene anche menzionato, che cioè le spose dei chierici maggiori dopo l’ordinazione dei mariti dovevano essere mantenute dalla Chiesa. Una coabitazione ulteriore con i mariti, che ora erano tenuti alla continenza, generalmente non viene tollerata per il pericolo di venir meno all’obbligo assunto. Essa è solo permessa ove tale pericolo è escluso. Ogni testo contro l’abbandono delle spose è da intendersi in questo senso come risulta chiaramente da questo brano di Leone Magno.


Bisogna inoltre dire che già questo papa ha esteso l’obbligo di continenza dopo l’ordinazione sacra anche ai suddiaconi, cosa che finora non era chiara a causa del dubbio se l’ordine suddiaconale appartenesse o no agli ordini maggiori.


Gregorio Magno (590-604) fa capire, almeno indirettamente nelle sue lettere, che la continenza degli ecclesiastici veniva sostanzialmente osservata nella Chiesa Occidentale. Egli dispose semplicemente che anche l’ordinazione a saddiacono portasse con sé, definitivamente e per tutti, l’obbligo della continenza perfetta. Inoltre Si impegnava ripetutamente, affinché la convivenza tra chierici maggiori e donne a ciò non autorizzate rimanesse proibita a tutti i costi e venisse perciò impedita. Siccome le spose non appartenevano normalmente alla categoria delle autorizzate, egli dava con ciò una significativa interpretazione al rispettivo canone 3 del Concilio di Nicea.


Da quanto fin qui detto si può dedurre una prima constatazione assai importante: nella Chiesa Occidentale, ossia in Europa e nelle regioni dell’Africa che appartenevano al Patriarcato di Roma, l’unità di fede era e rimaneva sempre viva, insieme anche all’unità di disciplina, cosa che si manifesta attraverso una comunicazione più o meno intensa, ma mai interrotta tra le varie Chiese regionali. così rappresentanti di altre regioni erano accettati nei Concili regionali. Ad Elvira, per esempio, era presente tra gli altri il sacerdote Eutyches quale rappresentante di Cartagine e al Concilio di Cartagine del 418, che tratto la questione dei Pelagiani, erano presenti anche vescovi della Spagna.


Una tale coscienza di unità e della sostanziale uniformità la troviamo affermata espressamente negli atti conciliari del tempo. Essa era pero attuata e tradotta in pratica dal principio di unità, il primato romano, il quale divento sempre più operativo dal tempo in cui finirono le persecuzioni. Quest’opera si manifesta soprattutto nelle questioni tanto essenziali della fede per tutta la Chiesa Universale. Ma la possiamo anche costatare nelle materie della disciplina soprattutto nell’ambiente del patriarcato romano.


Una prova di prim’ordine di questa unità disciplinare è presente proprio nel problema della continenza del clero maggiore, di cui ci stiamo occupando. Accanto alla prassi conciliare, che opera sin dall’inizio efficacemente per la sua affermazione e conservazione, emerge l’opera orientatrice e la cura conservatrice universale dei Romani Pontefici, cominciando da Papa Siricio. Se il celibato ecclesiastico, rettamente inteso, si è conservato nella sua coscienza di origine e di tradizione antica in tutta la sua chiarezza e nonostante tutte le difficoltà sempre e dappertutto risorgenti, lo dobbiamo senza dubbio alla sollecitudine ininterrotta dei Papi. Un’altra prova a contrario di questa affermazione ci darà la storia del celibato nella Chiesa Orientale.


4. La testimonianza dei Padri e degli scrittori ecclesiastici

Prima di dedicarci a questa dobbiamo pero seguire ancora altre fasi dello sviluppo nella Chiesa Occidentale.


Alla categoria dei testimoni più importanti della fede e della tradizione, nei primi periodi della storia della Chiesa, appartengono i Padri e gli scrittori ecclesiastici. Per la continenza del clero è opportuno sentire per primo sant’Ambrogio. Nella sua sede milanese in qualità di Consularis Aemiliae et Liguriae, eletto vescovo, Ambrogio è diventato presto uno degli uomini più importanti nella Chiesa dell’Occidente. Per quanto concerne il nostro argomento questo pastore, particolarmente sensibile per gli obblighi giuridici a motivo del suo precedente ufficio civile, aveva delle idee molto chiare. Egli dice che anche i ministri dell’altare che erano sposati prima di essere tali non dovevano dopo la loro ordinazione continuare l’uso del matrimonio, anche se quest’obbligo non era sempre osservato come avrebbe dovuto essere nelle regioni più remote. Di fronte all’Antico Testamento si tratta di un nuovo comandamento del Nuovo Testamento perché i sacerdoti di questo sono obbligati ad una preghiera ed a un ministero santo, costante e continuo.


San Girolamo conosceva bene la tradizione sia dell’Occidente come anche dell’Oriente e ciò per esperienza personale. Egli dice, nella sua confutazione di Gioviniano, che è del 393, senza insinuare alcuna distinzione tra Oriente ed Occidente, che l’apostolo san Paolo, nel noto passo della sua lettera a Tito, ha detto che un candidato all’ordine sacro sposato doveva aver contratto matrimonio una volta sola, doveva aver educato bene i suoi figli, ma non poteva più generare altri figli in seguito. Doveva pertanto sempre dedicarsi alla preghiera e al servizio divino e, di conseguenza, non solo per un tempo limitato, come nell’Antico Testamento: Si semper orandum et ergo semper carendum matrimonio.


Nella sua dissertazione “Adversus Vigilantium” del 406 san Girolamo ripete l’obbligo dei ministri dell’altare di vivere sempre continenti. A questo proposito dice che questa è la prassi della Chiesa dell’Oriente, dell’Egitto e della Sede Apostolica, dove si accettano solo chierici che sono celibi e continenti oppure che, se sposati, hanno prima rinunciato alla vita matrimoniale. Già nel suo “Apologeticum ad Pammachium” aveva detto che anche gli apostoli erano vel virgines vel post nuptias continentes; e: Presbiteri, episcopi, diaconi aut virgines eliguntur aut vidui aut certe post sacerdotium in aeternum pudici.


Sant’Agostino, dal 395/6 vescovo di Ippona, non solo conosceva bene l’obbligo generale del clero maggiore alla continenza, ma aveva partecipato ai Concili di Cartagine ove tale obbligo era stato ripetutamente affermato, riconducendolo agli stessi apostoli e ad una tradizione costante del passato. Nessun suo dissenso manifestato in queste occasioni è noto. Nella sua dissertazione “De coniugiis adulterinis” afferma che anche uomini sposati, se improvvisamente e perciò quasi contro le loro volontà sono stati chiamati a far parte del clero maggiore ed ordinati, sono tenuti alla continenza diventando così un esempio per i laici che devono vivere lontani dalle loro mogli e sono perciò esposti alla tentazione di commettere adulterio.


Del quarto grande padre della Chiesa Occidentale, Gregorio Magno, quale testimone della continenza dei ministri sacri abbiamo già parlato, esaminando le testimonianze dei Romani Pontefici.


Dalla prassi disciplinare occidentale finora accertata consegue che la continenza dei tre ultimi gradi del ministero clericale nella Chiesa si manifesta quale obbligo che viene riportato agli inizi della Chiesa e che è stato accolto e trasmesso come patrimonio della tradizione orale. Dopo il tempo delle persecuzioni e soprattutto a causa delle conversioni sempre più numerose che esigevano anche numerose ordinazioni, avvengono anche delle trasgressioni più generali di un tale obbligo contro le quali pero i concili e le sollecitudini dei Romani Pontefici procedono con sempre maggior insistenza per mezzo di leggi e disposizioni scritte. In esse compaiono subito anche le conseguenze contro i trasgressori, che consistono nella sospensione o espulsione dal ministero sacro.


Tutto ciò non appare mai come innovazione, ma viene riferito piuttosto alle origini della Chiesa. Siamo perciò autorizzati a considerare una tale prassi, conformemente alle regole del giusto metodo giuridico storico, come vero obbligo vincolante, tramandato dalla tradizione orale anche prima che venisse fissato da leggi scritte. Chi volesse affermare il contrario non solo peccherebbe contro un metodo scientifico cogente, ma taccerebbe di bugiardi tutti i testi unanimi che abbiamo ascoltato poiché di ignoranza non li si potrebbero accusare.


5. Evoluzione dell’argomento nei secoli successivi


Su questa base accertata dalla prassi della Chiesa Antica possiamo ora seguire lo sviluppo del celibato ecclesiastico nei successivi secoli e in un primo momento nell’Occidente.


Non vi può essere dubbio che anche nei successivi tempi venissero ancora scelti molti sacri ministri tra gli uomini sposati. I numerosi Concili della Spagna e della Gallia lo dimostrano, poiché essi insistono ripetutamente e senza interruzione sull’obbligo della continenza per tali ministri.


Le sanzioni diventano talvolta più miti: così, per esemplo, quando nel Concilio di Tour del 461 non si infligge più la scomunica a vita ma solamente l’esclusione dal servizio ecclesiastico.


D’altra parte si accentua sempre di più la preoccupazione della Chiesa di provvedere con candidati celibi per gli ordini maggiori e di ridurre sempre di più quelli sposati, perché l’esperienza aveva dimostrato il pericolo permanente della debolezza umana di fronte all’obbligo assunto proprio da parte di questi ultimi candidati.


Un’altra disposizione che si doveva continuamente ricordare e rinnovare era il divieto di coabitazione tra ogni sorta di chierici maggiori e donne che non davano il pieno affidamento di osservanza della continenza.


Assai significative per un giudizio complessivo sulla disciplina celibataria nell’Europa medievale sono le rispettive disposizioni della Chiesa Insulare (Irlanda-Britannia). I Libri Penitenziali che rispecchiano fedelmente vita e disciplina vigenti in questa Chiesa, sono molti aspetti particolare, dimostrano senza lasciare spazio a dubbi, gli stessi obblighi anche per il clero maggiore insulare in antecedenza sposato. Chi di loro continuava l’uso del matrimonio con la sposa veniva ritenuto colpevole di adulterio e punito adeguatamente. Se questi obblighi tanto gravosi venivano richiesti ed osservati sostanzialmente anche nella Chiesa Insulare nella quale vigevano i rudi costumi della gente di cui gli stessi Libri Penitenziali ci danno una viva dimostrazione, abbiamo un’ottima prova che il celibato era anche là possibile, ma probabilmente solo a motivo di una venerabile tradizione che nessuno metteva in dubbio.


Accanto ai pericoli generali ordinari che minacciavano sempre e dappertutto la continenza degli ecclesiastici, ci sono nella storia della Chiesa tempi, circostanze e regioni ove emergono pericoli straordinari, che provocavano in modo del tutto particolare le autorità della Chiesa. Difficoltà di questo genere erano causate ripetutamente da eresie alquanto diffuse. Un esempio è l’arianesimo dei Visigoti operante ancora anche dopo la loro conversione al cattolicesimo nel loro regno nella penisola iberica. Il Concilio di Toledo del 569 e di Saragozza del 592 hanno dato delle norme esplicite in questo senso per i chierici provenienti dall’arianesimo.


6. La riforma gregoriana

Ma una delle crisi più gravi colpì la continenza degli ecclesiastici in tutte le regioni della Chiesa Cattolica Occidentale che furono coinvolte nei disordini che hanno reso necessaria la Riforma Gregoriana. Erano le regioni di quelle parti dell’Europa ove era penetrato più o meno diffusamente il cosiddetto sistema beneficiale ecclesiastico, che dominava poi sostanzialmente tutta la vita pubblica e in seguito anche quella privata nella Chiesa e nella società ecclesiastica.


I beni patrimoniali del beneficio ecclesiastico, che erano collegati con tutti gli uffici sia superiori che inferiori della Chiesa, rendevano il detentore del beneficio e perciò anche dell’ufficio largamente indipendente economicamente e con ciò spesso anche professionalmente, poiché anche l’ufficio che seguiva il beneficio non poteva più essere tolto se non con grande difficoltà. Il conferimento del beneficio-ufficio, che avveniva spesso attraverso laici che ne avevano il diritto – proveniente dalla chiesa propria in senso stretto e lato, – portava negli uffici ecclesiastici, vescovi ed abati fino ai parroci, candidati spesso impreparati o addirittura indegni. La concessione e assegnazione degli uffici da parte di laici potenti, che in questo affare badavano di più ai propri interessi secolari e profani che a quelli spirituali e religiosi della Chiesa, portava agli altri due mali fondamentali nella vita ecclesiastica di allora: la simonia, ossia la compera degli uffici, e il nicolaismo, vale a dire la larga violazione del celibato ecclesiastico.


Dopo il fallimento di riforme regionali, i Papi cominciarono a occuparsi di questa situazione calamitosa nella Chiesa su base europea. Essi riuscirono, soprattutto con l’impegno decisivo di Gregorio VII, a venire a capo di questo grave pericolo che aveva coinvolto tutti gli alti gradi della gerarchia ecclesiastica.


Così proprio questo pericolo diventò un impulso non solo di reintegrazione dell’antica disciplina celibataria, ma anche di un tentativo efficace di domarlo attraverso una scelta e una formazione migliore dei candidati per cui si limitava sempre maggiormente l’accettazione di uomini sposati, cercando cos’ di tornare ad una generale osservanza di questo obbligo di continenza.


Un’altra conseguenza importante di questa riforma è la disposizione, decisa solennemente nel secondo Concilio Lateranense dell’anno 1139, che i matrimoni contratti dai chierici maggiori, come anche quelli dei consacrati attraverso voti di vita religiosa non fossero più solamente illeciti ma anche invalidi. Ciò ha causato un fraintendimento ancor oggi molto diffuso, e cioè che il celibato ecclesiastico fosse stato introdotto solo dal Concilio Lateranense II. In realtà si è reso solo invalido ciò che era già sempre proibito. Questa sanzione nuova conferma dunque piuttosto un obbligo esistente da molti secoli.


7. Il celibato nel diritto canonico classico

Quasi allo stesso tempo iniziano vita ed attività della scienza del diritto della Chiesa. Il monaco camaldolese Giovanni Graziano ha composto attorno al 1142 a Bologna la sua “Concordia discordantium canonum” chiamata poi semplicemente Decreto di Graziano, nel quale egli ha raccolto tutto il materiale giuridico del primo millennio della Chiesa e ha messo d’accordo, o ha almeno cercato di farlo, le varie e differenti norme. Con lui si inizia la scuola del diritto della Chiesa che si associa a quella parallela del diritto romano e che si chiamerà la scuola dei glossatori, vale a dire degli interpreti delle raccolte di diritto ecclesiastico (e del diritto romano) e dei suoi testi legali.


In questo Decreto di Graziano si tratta naturalmente anche della questione e dell’obbligo della continenza dei chierici e lo si fa precisamente nelle Distinzioni (della prima parte del Decreto) dalla 26 alla 34 e poi ancora dalla 81 alla 84. Lo stesso avviene anche nelle altre parti del Corpus Iuris (Canonici) che ora viene formandosi, in occasione della promulgazione delle rispettive leggi.


Per poter comprendere bene le spiegazioni che i canonisti hanno dato di queste leggi dobbiamo considerare da una parte che essi, così come anche i loro colleghi romanisti, non hanno sviluppato una ricerca e conoscenze storico-giuridiche – cosa che si è fatta solo in seguito nella scuola dei culti, cioè nella scuola giuridica umanistica dal secolo XVI in poi. Non dobbiamo perciò meravigliarci se i glossatori ossia la scuola giuridica dassica non ha, neanche nella canonistica, conosciuto una critica, in senso proprio, delle fonti e dei testi.


Per il nostro tema questa consapevolezza è importante poiché in Graziano ci imbattiamo subito con il fatto che nella questione del celibato ecclesiastico egli ha accettato quale fatto veramente accaduto al Concilio di Nicea la favola storica di Paphnutius e che egli, insieme al canone 13 del Concilio Trullano II del 691, ha accettato acriticamente la differenza tra la prassi celibataria della Chiesa Occidentale e Orientale. Mentre essa non costituisce per lui nessun motivo di giustificazione per la prassi differente nella Chiesa Latina, egli e la scuola classica di diritto canonico riconoscono la motivazione principale dell’obbligo differente in materia di continenza del clero maggiore Orientale. Ritorneremo su questa differenza nella trattazione storica del celibato nella Chiesa Orientale.


Ora dobbiamo dire che, proprio a causa di questa noncuranza critica, i dubbi già esistenti allora in Occidente riguardo a tale invenzione, che già Gregorio VII ed altri riformatori ed al loro seguito, soprattutto Bernoldo di Costanza, avevano riconosciuta, non hanno fatto una impressione decisiva sulla scuola canonistica, la quale, del resto, ha riconosciuto anche le deliberazioni del Concilio Trullano II come pienamente valide per la Chiesa Orientale; nello stesso Concilio, come vedremo, è stata fissata la disciplina celibataria della Chiesa Bizantina e delle sue dipendenze.


Non esiste, pero, per i canonisti medievali, come già detto, nessun dubbio sulla obbligatorietà, per la Chiesa Occidentale, della continenza di tutto il clero maggiore. E ciò certamente perché erano ben conosciuti da loro i documenti esaminati sopra dei Concili occidentali, soprattutto dei Concili Africani (Graziano non dimostra pero di conoscere il can. 33 di Elvira), dei Romani Pontefici e dei Padri. Tutti i canonisti sono generalmente d’accordo che la proibizione di sposarsi per i ministri maggiori sia da attribuirsi agli apostoli, al loro esempio ma, in parte, anche alla loro disposizione. Alcuni attribuiscono il divieto dell’uso del matrimonio contratto prima dell’ordinazione agli apostoli, altri a disposizioni legislative posteriori, soprattutto ai Pontefici Romani cominciando da Siricio. Essi cercano di spiegare su quali ragioni si basa tale divieto, pero con motivazioni in parte contrastanti. Alcuni lo riferiscono ad un voto, espresso o tacito, o all’ordine annesso o solennizzato dalla legittima autorità. Di fronte alla difficoltà che nessuno può imporre ad alcuno un votum si cerca di trovare la soluzione nella constatazione che non lo si impone alla persona ma all’ufficio che ha annesso una tale condizione; che la Chiesa possa fare ciò non vi è nessun dubbio da parte di tutti i canonisti, che lo spiegano anche con ragionamenti assai interessanti e convincenti.


La dottrina che convince più facilmente dice che attraverso una legge questa disposizione può essere unita, soprattutto dai Romani Pontefici, all’ordine sacro e che ciò è stato realmente fatto: per i vescovi, per i sacerdoti e per i diaconi, sin dai primi tempi della Chiesa, dai Concili e dai Romani Pontefici. Per i suddiaconi è stato deciso definitivamente solo da Papa Gregorio I. Nessuno dei canonisti medievali dubita che questo obbligo vincola illimitatamente sin dal momento della sua introduzione. Si noti particolarmente il fatto che alcuni glossatori si riferiscono esplicitamente a norme puramente tradizionali quali fonti di obbligo della continenza clericale, le quali erano già esistenti prima della loro prescrizione legislativa, e che una dispensa da un obbligo proveniente da un voto non era possibile neanche per il Papa. Per questo molti si decidevano per la teoria della causa efficiente che proveniva da una legge perché da una legge generale il Papa potrebbe dispensare. Un buon numero di loro è pero del parere che una tale dispensa possa essere data solo in singoli casi ma non per tutti, perché ciò equivarrebbe all’abolizione di una obbligazione contro lo status ecclesiae, cosa che anche al Papa non sarebbe possibile.


Dopo questa sintetica esposizione del pensiero dei glossatori sul celibato ecclesiastico, rettamente inteso, vigente nella Chiesa Occidentale, gioverà riferire almeno qualche testo importante sul nostro tema che possa considerarsi particolarmente rappresentativo della loro dottrina.


Ce lo dà Raymundo da Peñafort, il quale ha composto anche il Liber Extra di Papa Gregorio IX, parte centrale del Corpus Iuris Canonici, e può perciò essere assunto quale uomo di fiducia del Pontefice ed insieme rappresentante qualificato della scienza canonistica, già abbastanza matura, di allora. Per quello che riguarda origine e contenuto dell’obbligo di continenza di uomini sposati prima dell’ordinazione sacra egli dice: “I vescovi, i sacerdoti e i diaconi devono osservare la continenza anche con le loro spose (di prima). Questo hanno insegnato gli apostoli con il loro esempio e anche con le loro disposizioni come dicono alcuni secondo i quali la parola “insegnamento” (Dist. 84, can. 3) può essere interpretata in maniera varia. ciò è stato rinnovato nel Concilio di Cartagine, come nella citata disposizione cum in merito di Papa Siricio”. Dopo le altre spiegazioni riassuntive Raymundo viene a parlare delle ragioni dell’introduzione di tale obbligo: “La ragione era duplice: sia la purezza sacerdotale, affinché così possano ottenere in tutta sincerità ciò che con la loro preghiera chiedono a Dio (Dist. 84, cap. 3 e dict. p.c. 1 Dist. 31); la seconda ragione è che possano pregare senza impedimenti (1 Cor 7,5) ed esercitare il loro ufficio; perché non possono fare le due cose insieme: cioè servire la moglie e la Chiesa”.


8. La continuità della dottrina della Chiesa nell’epoca moderna

La continua vita sacrificata di un tale gravoso impegno può essere vissuta solo se nutrita da una fede viva poiché la debolezza umana si fa anche continuamente sentire. La motivazione soprannaturale può venire compresa in continuità solo da una tale fede, sempre coscientemente vissuta. Dove viene meno la fede diminuisce anche la forza di perseveranza, dove muore la fede muore anche la continenza.


Prove sempre nuove di questa verità sono tutti i movimenti eretici e scismatici che si susseguono nella Chiesa. Una delle prime conseguenze presso i loro seguaci è sempre la rinuncia alla continenza clericale. perciò non può meravigliare il fatto che anche nelle grandi eresie e defezioni dall’unità della Chiesa Cattolica del sec. XVI, ossia dai Luterani, Calvinisti, Zwingliani, Anglicani si rinuncia subito al celibato ecclesiastico. Gli sforzi di riforma del Concilio di Trento per ristabilire la vera fede e la buona disciplina nella Chiesa Cattolica dovettero perciò occuparsi anche degli attacchi alla continenza dei ministri sacri.


Dalla storia di questo Concilio si sa già con certezza che soprattutto imperatori, re, principi ma anche rappresentanti della stessa Chiesa si sono impegnati per ottenere un alleggerimento o una dispensa da questo obbligo nella buona intenzione di recuperare i ministri sacri che avevano lasciato la Chiesa Cattolica. Ma una commissione istituita dai Romani Pontefici per trattare questa questione venne, a motivo di tutta la tradizione precedente, alla conclusione di dover mantenere senza compromessi questo impegno celibatario: la Chiesa non potrebbe rinunciare ad un obbligo, valido sin dall’inizio e poi sempre rinnovato.


Per motivi pastorali si diede l’autorizzazione speciale per la Germania e per l’Inghilterra che i sacerdoti apostati, dopo la rinuncia ad ogni convivenza ed uso matrimoniale, potevano essere assolti e reintegrati nel loro ministero nella Chiesa Cattolica. Se rifiutavano questo ritorno poteva essere sanata l’invalidità del loro matrimonio, ma essi rimanevano sempre esclusi da ogni ministero sacro.


È da notare che i Padri del Concilio di Trento non solo rinnovarono tutti gli obblighi rispettivi, ma si rifiutarono anche di di chiarare la legge del celibato della Chiesa Latina una legge puramente ecclesiastica, come si erano anche rifiutati di comprendere la Madonna nella legge universale del peccato originale.


Ma la decisione più radicale del Concilio di Trento per la salvaguardia del celibato ecclesiastico fu la fondazione dei seminari per l’educazione dei sacerdoti, che è stata decisa dal noto canone 18 della Sessione XXIII ed imposta a tutte le diocesi. In questi seminari dovevano essere scelti i giovani per il sacerdozio, formati e fortificati per questo ministero.


Questa prescrizione provvidenziale, che veniva lentamente attuata ovunque, ha offerto alla Chiesa tanti candidati celibi per i gradi superiori del ministero dell’ordine sacro che da allora in poi si è potuto fare a meno di ordinare gli sposati: ciò che era stato il desiderio espresso da molti padri del Concilio.


Da allora il consenso finora dominante del celibato che comportava per l’ordinato sia l’obbligo di continenza completa dall’uso del matrimonio contratto prima dell’ordinazione come anche il divieto di nozze future, molto diffuso nella mentalità dei fedeli, si è ristretto a quest’ultimo, sicché oggi si intende sono il celibato ecclesiastico comunemente solo la proibizione di sposarsi.


La Chiesa è sempre stata ferma nel conservare la sua tradizione riguardo al suo celibato anche nei tempi duri successivi. Una chiara testimonianza ne è la Rivoluzione della fine del secolo XVIII e dell’inizio del secolo XIX. Anche qui si è di nuovo adottata la prassi del secolo XVI: i sacerdoti che si erano sposati durante la Rivoluzione dovevano decidersi: o rinunciare al matrimonio civile invalidamente contratto oppure far sanare dalla Chiesa l’invalidità. Nel primo caso potevano essere riammessi al ministero sacro, nel secondo erano esclusi per sempre da questo ministero come aveva già deciso la prima legge scritta in materia a noi nota, quella del Concilio di Elvira.


La Chiesa si oppose anche a tutti gli altri tentativi che si fecero per abolire il celibato dei ministri sacri, come gli sforzi fatti nel Baden-Würtemberg sotto Gregorio XVI oppure dal movimento Jednota della Boemia sono Benedetto XV.


Significativa è di nuovo l’abolizione immediata del celibato presso i Vecchi Cattolici dopo il Concilio Vaticano I. Non meno chiara è l’opposizione della Chiesa contro i tentativi sempre più rinnovati dopo il Concilio Vaticano II di ordinare sacerdoti “viri probati” cioè uomini sposati senza esigere la rinuncia all’uso del matrimonio oppure di permettere il matrimonio dei preti.