…del card. Christof Schönborn. Seguiamo Cristo? Oppure rincorriamo solo l’immagine che noi abbiamo di Lui? La moderna immagine del Cristo non è una proiezione dei nostri desideri e delle nostre idee?…
Il cammino della Cristologia moderna
Tentativo di una diagnosi
Mons. Christof Schönborn
Archivescovo di Vienna
Lezione inaugurale – Ateneo Pontificio Regina Apostolorum
Roma 13 ottobre 1997
Permettetemi di iniziare con una semplice domanda: cosa sappiamo in realtà di come noi ancora oggi predichiamo il Cristo? Lo conosciamo? Noi certamente possiamo predicare Cristo solo se Lo conosciamo. Seguiamo Cristo? Oppure rincorriamo solo l’immagine che noi abbiamo di Lui? La moderna immagine del Cristo non è una proiezione dei nostri desideri e delle nostre idee? Non si costruisce forse ogni epoca una propria immagine del Cristo secondo i concetti, le idee, le ideologie, che prevalgono in un dato momento?
Paolo è convinto: ”Poiché noi non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù” (2 Cor 4,5). Paolo è convinto, di conoscere Gesù, così bene e in modo così preciso, da poter dire: ”Voi, dinanzi agli occhi dei quali Gesù Cristo crocifisso è stato ritratto al vivo” (Gal 3,1). Eppure non mancano voci che dicono che l’immagine che Paolo ha di Gesù sia quasi una deformazione, come anche quella di Giovanni. “Ellenizzazione”, “mitizzazione”, “sovrapposizione dogmatica” del semplice Galileo, questo è quanto si obietta seccamente.
Oggi, possiamo conoscere Gesù? La sua immagine originale non è diventata a lungo andare incomprensibile dietro le varie spiegazioni ed interpretazioni?
D’altra parte esiste oggi come una certezza su Gesù pronta sempre di più a determinarsi. Certi uomini vengono spontaneamente e giustamente visti come particolarmente corrispondenti a Gesù, come una raffigurazione vivente del Cristo – come ad esempio un Francesco d’Assisi. Ci sono anche uomini che dimostrano che per loro Gesù è una realtà vivente, con la quale hanno una relazione ogni giorno nella preghiera e nella liturgia, che possono affermare: “noi conosciamo Gesù”.
Riguardo a questo conflitto esponiamo le nostre considerazioni. Da un lato troviamo la certezza che oggi e in tutti i secoli Gesù “è lo stesso, ieri, oggi e sempre” (Eb 13,8); dall’altro vi sono gli assillanti interrogativi della critica, se questa certezza resista ancora, se abbia solide basi. Con il problema sulle basi della Cristologia è in gioco la totalità della teologia: l’ecclesiologia, la teologia sacramentaria si salvano o si perdono con il fondamento cristologico. Un più attento esame rivela che anche dietro gli sviluppi ecclesiologici sbagliati vi sono per lo più delle carenze nella Cristologia.
Vorrei articolare questa conferenza in tre passi: in primo luogo desidero trattare le basi della Cristologia e rispettivamente le sue colonne portanti; poi vorrei mostrare come nell’età moderna queste colonne siano crollate una dopo l’altra; ed infine dovremo cercare di motivare perché dopo duecento anni di intensiva critica storica ed ideologica sulla figura e l’immagine di Cristo, egli si mostri sempre più forte.
1. I tre pilastri della Cristologia
La Cristologia attinge da tre fonti, e si basa su tre pilastri, che danno la possibilità di conoscere e di dire chi è Gesù Cristo: la sacra Scrittura, la tradizione, l’esperienza.
a) il 99% di ciò che noi sappiamo del Cristo proviene dalla sacra Scrittura, soprattutto dai Vangeli. Ecco perché la domanda sulla credibilità dei Vangeli è di fondamentale importanza. Per secoli al riguardo non vi è stato nessun dubbio. Si era convinti che i Vangeli trasmettessero in modo attendibile le esperienze dei primi testimoni di Gesù, dei suoi discepoli, degli accompagnatori, dei testimoni oculari e degli ascoltatori. La sacra Scrittura è essa stessa tradizione, tradizione attestata per iscritto, che tramanda le esperienze concrete, che degli uomini hanno fatto con Gesù.
b) La tradizione va tuttavia oltre, come “traditio apostolica”, come trasmissione del depositum fidei. Essa trova la sua espressione particolare nei grandi concili dell’antica Chiesa, che hanno spiegato ed assicurato la confessione di Cristo. La tradizione dottrinale non si può separare dalla tradizione di vita. Atanasio difende non solo la divinità di Cristo, egli scrive anche la vita di Sant’Antonio, nella quale risplende l’intera forza del mistero di Cristo. I santi sono “Cristologia vivente”. Alla tradizione appartiene non solo la Cristologia erudita ma anche quella celebrata: la liturgia è la fonte vivente della tradizione del mistero di Cristo. In essa non viene solamente e sempre in modo nuovo letta la storia di Gesù, essa viene anche festeggiata e resa presente.
c) Infine l’esperienza vivente del Signore presente ed attivo appartiene ai fondamenti della Cristologia. La domenica in chiesa Antonio ascolta il vangelo del giovane ricco, e lo ascolta come una parola che Gesù adesso dice a lui: “Tu seguimi!” L’esperienza del singolo, ma anche le esperienze comuni di un popolo appartengono alla storia della fede e di conseguenza alla Cristologia. La teologia della liberazione era un tentativo per rendere proficua l’esperienza personale del popolo per la Cristologia.
Questa certezza è stata messa in dubbio in modo sempre più radicale negli ultimi duecento anni. Su questo adesso si deve dire qualcosa. Credo che possiamo ripercorrere lo sviluppo della Cristologia moderna come il crollo successivo delle tre colonne. Vorrei anche dimostrare, che anche nella polemica sui fondamenti della Cristologia appariva di nuovo e sempre in modo più evidente l’immagine viva del Signore.
La prima rottura è quella della Riforma: mette in dubbio la tradizione, poiché suppone che il puro ed originale insegnamento, “il puro vangelo” sia stato falsato e che “Roma”, il papato e la Chiesa cattolica non lo abbiano più conservato puro. Si tratta allora, secondo il principio di Lutero, di ritornare a ciò che è originale, eludendo la tradizione, andando direttamente alla Bibbia: è valida solo la Scrittura, essa è la sola misura: sola scriptura! Ma allora come si può avere certezza sulla Scrittura, quando le interpretazioni si contraddicono? Per Lutero qui non è più valida la tradizione come strumento ermeneutico per comprendere la Scrittura. Piuttosto egli si appella alla sua esperienza: sola experientia facit theologum, egli dice. Scrittura ed esperienza assicurano l’accesso a Cristo. Il terzo soggetto, la tradizione, è divenuta dubbia.
L’illuminismo abbandona la certezza sulla “sola scriptura”: la critica storica della Bibbia pone il testo sacro sotto accusa, come Lutero aveva fatto con la tradizione e con la Chiesa cattolica. Anche la Scrittura occulta, falsifica, cela l’originale, che è necessario manifestare a livello storico-critico: la Bibbia viene sottoposta ad una critica spietata. Rimane ben poco della certezza che Lutero aveva creduto di trovare nella Scrittura. Con Schleiermacher e Bultmann la teologia si ritira sull’ultimo dei tre pilastri: l’esperienza, il “rapporto” personale. Per Bultmann non è importante la certezza storica di Gesù, quanto il “rapporto” (Betroffenheit) esistenziale.
Con la psicologia, specialmente con Freud (e già con Feuerbach) anche l’esperienza religiosa diventa problematica, viene smascherata come proiezione dei bisogni umani e quindi come illusione. Dietro le proiezioni religiose si trovano in realtà altri bisogni, sublimazioni e proiezioni.
Su che cosa si deve fondare la Cristologia? Quando non ci si può più fidare della tradizione, poiché in essa si vede solo il ritocco con colori dogmatici, che occultano la semplice ed originale immagine di Gesù; quando anche la Scrittura cade nel sospetto, poiché essa stessa sarebbe già tradizione, che falsifica il Gesù originale; quando infine l’esperienza personale viene abbandonata al sospetto che essa crei un salvatore e redentore a partire dalle proiezioni dei propri desideri, che base rimane? Su che cosa si può costruire la Cristologia?.
Prima di cercare una risposta, noi dobbiamo ancor più profondamente osservare la crisi moderna. Credo che si possano distinguere tre crisi nel pensiero moderno: la crisi della scienza della natura, la crisi storica e quella esistenziale.
2. Le tre crisi dell’età moderna
a) la crisi della scienza della natura
“L’eterno silenzio di questi spazi infiniti mi spaventa”, dice Blaise Pascal. L’inizio dell’età moderna è caratterizzato dalla scoperta di questi “spazi infiniti”; gli scopritori lasciano l’Europa e trovano “il nuovo mondo” dell’America, la remota Africa e l’Asia. La molteplicità delle religioni, le differenze delle culture, il problema dell’unità e della molteplicità del genere umano si pongono in modo nuovo e drammatico. Viene poi la scoperta dell’eliocentrismo del cosmo, l’estensione dell’universo; la terra diventa uno dei tanti pianeti, essa perde la sua posizione centrale. Da questo momento sarà ancora possibile parlare di questo mondo come il centro, dell’uomo come il coronamento della creazione? Ha ancora senso allora credere che Dio sia diventato uomo “propter nos homines”? L’antropocentrismo, sostenuto ancora dal Concilio Vaticano II, che dice “credenti e non credenti sono quasi concordi nel ritenere che tutto quanto esiste sulla terra deve essere riferito all’uomo come a suo centro e a suo vertice” (Gaudium et Spes 12) è accettabile alla luce della visione del mondo della scienza della natura?
“Centinaia di miliardi di galassie della grandezza della nostra via lattea, e ancora la convinzione che il destino del cosmo dipenda dal corso degli eventi su questo pianeta, la nostra terra”, dice indignato un giornalista scientifico contemporaneo (Homar von Ditfurth). Oggi non mancano voci che rimproverano alla Chiesa questo “equivoco antropocentrico”. Alcuni vorrebbero ricollocare l’essere umano nella natura, considerarlo come un piccolo elemento, quasi di disturbo al quale non spetta alcuna posizione particolare. Specialmente nel quadro di una nuova “spiritualità della creazione” tali espressioni sono frequenti. Nell’enorme corrente dell’evoluzione, l’uomo è solamente un momento, uno stadio intermedio, che presto passerà? Da questo punto di vista la Cristologia non perde il suo fondamento? Dio deve diventare uomo su questa terra? La terra – come luogo di incarnazione dell’evento della salvezza – con ciò non viene privilegiata eccessivamente? Questa domanda a prima vista è molto pressante. Quanto è piccolo l’essere umano, quanto è minuscola la terra in confronto agli spazi infiniti del cosmo! Ma già Blaise Pascal trovò la risposta al suo personale spavento di fronte a questa immensità nel suo insegnamento dei tre ordini. In Pensieri 829 (Alberto Peruzzo Editore, 1986, 248) si parla dei “tre ordini che si distinguono a seconda della loro essenza”:
“Tutti i corpi, il firmamento, le stelle, la terra e i loro regni non valgono il più piccolo intelletto, poiché questo conosce tutto ciò e se stesso, e i corpi nulla.
Tutti i corpi insieme e tutti gli intelletti insieme e tutti i loro prodotti, non valgono il più piccolo movimento di carità. Ciò appartiene ad un ordine infinitamente più elevato.
Da tutti i corpi insieme, non si riuscirebbe a far scaturire il minimo pensiero: ciò è impossibile e di un altro ordine. Da tutti i corpi e gli intelletti non si potrebbe trarre un movimento di vera carità; ciò è impossibile e di un altro ordine, soprannaturale”.
Chi vede solamente la grandezza materiale del cosmo e non l’ordine dello spirito e della carità, difficilmente capirà il mistero dell’incarnazione. Senza l’ordine della carità non si può comprendere perché Dio abbia scelto la piccola e semplice natura umana per salvarci.
b) La crisi storica
Gotthold Ephraim Lessing, il caposcuola dell’illuminismo ha evidenziato il punto nodale di questa crisi: ”casuali verità storiche non potranno mai diventare la prova di necessarie verità razionali” (Über den Beweis des Geistes und der Kraft, 1777).
Gli avvenimenti storici sono “casuali verità storiche”, avvenuti così come sono sopraggiunti; sarebbero potuti anche succedere diversamente. Come dovrebbero rappresentare i casuali avvenimenti storici le necessarie verità razionali? Come dovrebbero singoli punti nel corso della storia avere un significato assoluto e necessario? Può la storia di un popolo, per di più così piccolo ed insignificante, essere la storia definitiva di Dio con l’essere umano?
Così si pone la domanda dell’illuminismo: gli avvenimenti storici sono sempre relativi, essi hanno un significato limitato, mai assoluto. Questa domanda si ferma anche davanti all’immagine di Gesù: anche lui deve lasciar cadere la fondamentale relativizzazione di tutti gli avvenimenti storici. Nell’ambiente di Lessing (con Reimarus) ha così inizio in modo del tutto esplicito la drammatica storia della relativizzazione storica di Gesù. La critica della Bibbia protestante inizia a spogliare Gesù “dello sfarzo dei costumi” del dogma, e a portarlo giù dalla cima del dogma della dottrina della Chiesa, per farlo diventare nuovamente un semplice galileo, quello che egli in effetti era, secondo loro. Il Gesù “originale deve essere liberato delle bende funerarie del dogma della Chiesa e riportato come uomo semplice in mezzo agli uomini del suo tempo. Il programma di Bultmann della smitizzazione fu una conseguenza tardiva di questo programma illuminista.
Il risultato di questo cammino è deludente: si voleva spogliare Gesù dei suoi costumi dogmatici, togliergli “la sovrapposizione operata dalla Chiesa” e liberarlo dalle “catene” del dogma. Da questo processo non emerse “l’originale” Gesù di Nazareth, bensì le immagini di Gesù, che rispecchiavano il gusto e lo spirito di quel tempo: si poteva trovare di tutto nella letteratura sulla vita di Gesù a cavallo tra il XIX e XX secolo: un Gesù che era una sorta di appartenente ad un’associazione massonica, un modello di virtù, il semplice e pover’uomo, l’apocalittico profeta minaccioso, il rivoluzionario, etc.
“La ricerca sulla vita di Gesù” procedeva in modo peculiare: le tante “immagini di Gesù” venivano una dietro l’altra, ma non lo potevano trattenere. Gesù si dimostrava più “forte”. La sua immagine, la sua parola, la sua figura non permettevano di essere ridotte ad idee o rappresentazioni preconcette. La ricerca storica intensiva della figura, delle azioni e delle parole di Gesù aveva un effetto sorprendente: quanto più si guardasse alla figura di Gesù in modo “più vero”, preciso e storico, tanto più chiaro appariva il suo essere inconfondibile e singolare, tanto più chiaro diventava, che il “Gesù storico” non era “non dogmatico” non “predogmatico”, bensì che tutti i dogmi cristologici posteriori erano solo il tentativo di mettere in parole e formule, ciò che si mostra nella figura stessa di Gesù.
La ricerca storica su Gesù si trova sempre più chiaramente di fronte al problema del significato dell’esigenza più singolare di Gesù: come è possibile che un uomo di una determinata epoca storica possa parlare di se stesso, direttamente ed indirettamente, ed agire in modo tale che Dio stesso è pienamente in gioco in tale uomo.
Naturalmente questo fatto mette in dubbio un principio fondamentale dell’illuminismo che fino ad oggi, spesso inosservato, influisce nell’esegesi storica e critica: il principio della piena “immanenza” di tutti gli avvenimenti storici. Quando nella natura e nella storia vi sono solo avvenimenti strettamente immanenti, la fede nell’essere Gesù Cristo Dio e uomo è fin dal principio insostenibile. Di conseguenza anche la pretesa di Gesù di essere una cosa sola con il Padre e di agire per suo conto, risulta inaccettabile.
Credo che oggi anche nella teologia cattolica sia diffuso un certo “neoarianismo”, che considera Gesù come uomo “confermato” da Dio, ma non come il vero figlio di Dio. Solo raramente viene negata esplicitamente l’incarnazione, come è accaduto con gli autori anglicani del libro The Myth of God Incarnate (edito da John Hick e. a., London 1977), mi sembra comunque che sia molto diffusa una implicita negazione della divinità di Gesù, della sua preesistenza e di conseguenza della vera incarnazione del figlio di Dio. A tale condizione anche l’incarnazione è ridotta e falsificata. In seguito tornerò su questo punto.
Per il momento gettiamo uno sguardo sulla terza e più radicale delle crisi, “quella “esistenziale”.
Quando si riesce a vedere la figura di Gesù inalterata e nella sua personale pretesa, affiora la domanda ancora più seria, un’obiezione più radicale di quelle del relativismo storico e delle scienze della natura: la domanda se la figura di Gesù stesso sia “vera”, e se non venga confutata dal dramma della vita.
c) La crisi esistenziale
La questione porta lontano nel problema della Cristologia, toccando il suo nucleo. Il problema deve essere per prima cosa collocato in un contesto storico e di lì in poi rappresentato.
Nell’anno 1263 ha luogo a Barcellona una disputa pubblica tra un ebreo convertito al cristianesimo, Pablo Christiano e un importante studioso ebreo, Nachmanides. Viene posta la domanda, se Gesù sia il messia. Nachmanides porta contro Pablo Christiano e contro i cristiani un argomento sconvolgente: ”Gesù non può essere stato il messia, perché il suo arrivo non ha portato la pace universale”. In realtà l’argomento è molto pesante poiché i profeti di Israele avevano predetto un regno di pace quando il messia fosse arrivato. Andre’ Schwarz-Bart ha rappresentato nel suo romanzo Der Letzte der Gerechten (“L’ultimo dei giusti”) una scena analoga. Secondo una leggenda ebraica nell’anno 1240 ha avuto luogo a Parigi di fronte al re Ludovico il Santo una disputa tra importanti teologi della Sorbona e i più noti talmudisti del regno. Di nuovo si pone la domanda se Gesù di Nazareth sia il messia e il figlio di Dio. Alla domanda sulla divinità di Gesù dopo un lungo silenzio parla lo studioso ebreo – da una parola sbagliata può dipendere la vita o la morte – il timido rabbino Salomon Levy: ”tossendo per la paura e con un filo di voce” dice: ”Se è vero che il messia di cui parlavano i nostri antichi profeti è già venuto come vi spiegate l’odierno stato del mondo…? Nobili signori, i profeti hanno detto che con l’arrivo del messia pianti e lamenti sarebbero scomparsi dalla faccia della terra, …non è vero? E che tutti i popoli avrebbero rotto le loro spade, o sì!, e con esse avrebbero forgiato vomeri, … non è vero? Quando infine chiede al re: ”Ah! Cosa si direbbe, Sire, se Lei dimenticasse come si fa la guerra?” per questa risposta, nel nome di Gesù Cristo egli viene bruciato. I cristiani, apparentemente tranquilli per lo stato odierno del mondo restano fedeli al fatto che in Cristo sia apparso il regno di Dio. Questo è il punto di partenza. In Cristo il regno di Dio è definitivamente arrivato, allora “c’è da temere che questo Cristo… diventi totalitario”. La conseguenza è un atteggiamento del nuovo popolo di Dio ancora più arrogante del vecchio. La lunga storia dell’antisemitismo clericale e cristiano parla una lingua molto chiara.
L’argomento è sconvolgente, radicale, e chi come cristiano non è scosso né colpito di fronte a questa domanda, prende le cose molto alla leggera. In questa domanda si manifesta la discrepanza: come i cristiani possono affermare che questo Gesù di Nazareth sia colui che deve venire, quando si vede chiaramente, al primo sguardo, che con lui non è venuta pace, non c’è stato nessun cambiamento in meglio del mondo, né le lacrime sono state asciugate? Quindi non depone tutto contro il fatto che Egli sia il messia, il punto di svolta nel quale tutto diventa nuovo?
La domanda opprime già i cristiani della seconda e della terza generazione. Ogni cosa sembra dire che tutto rimane uguale, “come dal principio della creazione” (2 Pt 3,4). Dov’è il nuovo, ciò che cambia il mondo? Come si può riconoscere che Gesù è il Cristo e il Signore? Di fronte alla domanda del rabbino non c’è una risposta facile bensì un silenzio attonito. Questa terza crisi è chiaramente la più profonda, poiché essa porta direttamente alla domanda: chi è veramente Gesù? Non si tratta più della domanda “è falso il dogma o la Scrittura?” oppure se già la Scrittura (in quanto dogmatizzazione) falsifica la persona storica di Gesù. La domanda è molto più radicale: è “vera” la figura stessa di Gesù? Egli stesso qui diventa un grosso problema. Ma Gesù stesso pone la domanda ai suoi discepoli: “E voi, chi dite che io sia?” (Mc 8,29).
Ci sono uomini che ancora oggi rispondono a questa domanda uomini con la confessione di Pietro: ”Tu sei il messia, il figlio del Dio vivente”. Nonostante tutte le contestazioni e le crisi, gli uomini anche oggi riconoscono Gesù come il messia e credono che Egli sia il figlio di Dio fatto uomo. In nessun caso il contrasto tra il “no” esistenziale e il “sì” credente a Gesù diventa più chiaro come nella figura di Saulo di Tarso. Come giunse questo ardente nemico di Gesù e dei suoi seguaci, improvvisamente a riconoscere in Gesù il messia? Come arrivò Paolo al punto di svolta che ebbe come conseguenza il non vedere più in Gesù di Nazareth il sacrilego blasfemo, bensì il figlio di Dio? Come avvenne che tutto ciò che Saulo aveva ritenuto una contraddizione, improvvisamente a Paolo apparisse come la rivelazione del mistero di Dio nascosto fin dai tempi più remoti (cfr Rm 16,25 ss.)? Ciò che accadde allora con la conversione di Paolo, accade anche oggi in modo sempre nuovo, Gesù Cristo cambia gli uomini lasciandosi trovare, illuminandoli e rendendosi comprensibile.
Fino ad oggi gli uomini dicono sempre e di nuovo come Pietro disse allora a Gesù: ”Signore, da chi andremo? Tu hai parole di eterna vita”(Gv 6,68). Come si giunge a questa visione di Gesù? Essa è veramente il fondamento di ogni Cristologia ed il suo presupposto.
Paolo cita nella lettera ai Filippesi un inno che probabilmente potrebbe essere apparso solo dieci anni dopo la morte di Gesù. Dice così:
(Gesù Cristo) il quale pur essendo di natura divina
non considerò un tesoro geloso
la sua uguaglianza con Dio;
ma spogliò se stesso,
assumendo la condizione di servo
e divenendo simile agli uomini;
apparso in forma umana,
umiliò se stesso
facendosi obbediente fino alla morte
e alla morte di croce.
Per questo Dio l’ha esaltato
e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome.
Si pensi: il fariseo Saulo parla del galileo Gesù di Nazareth che subì la morte più vergognosa dell’antichità, la crocifissione, come di uno che è simile a Dio, che ha assunto la condizione di servo, che è stato crocefisso e al quale Dio ha dato, per la sua obbedienza, “il nome che è al di sopra di ogni altro nome”, ovvero l’impronunziabile, santo nome di Dio, davanti al quale tutti si devono inchinare, “in cielo, in terra e sotto terra”. La portata di questo testo diventa ancora più chiara, notando che qui viene citato Isaia (45,23 ss.): “davanti a me si piegherà ogni ginocchio, per me giurerà ogni lingua. Si dirà: solo nel Signore si trovano vittoria e potenza.” Con una stupefacente naturalezza “dopo la morte di Gesù i primi cristiani hanno trasposto in Gesù senza difficoltà, ciò che l’Antico Testamento dice di Dio” (O.Cullmann, Christologie des N.T., 242): cosa succedeva nei cuori di ebrei credenti, come Paolo, che conferivano al carpentiere galileo crocifisso l’impronunziabile e santo nome di Dio? Qui è contenuto in nuce l’intero sviluppo cristologico. Martin Hengel dice perciò a ragione: “In un lasso di tempo inferiore a due decadi c’è più Cristologia di quanta ce ne sia nei seguenti sette secoli fino al compimento del dogma della Chiesa antica” (Der Sohn Gottes, Tubingen 1977).
Vedo solo due possibilità per spiegare questa evoluzione:
1. La prima generazione dei cristiani ha in brevissimo tempo e pochi anni dopo la morte di Gesù divinizzato l’uomo della Galilea, facendo di lui un essere divino. Ma allora si pone la domanda: da dove hanno preso queste idee? Sempre e di nuovo sorge il discorso di una “ellenizzazione” del cristianesimo, di influssi pagani che hanno trasformato la figura di Gesù in quella di un “theios aner”, di un uomo divino secondo un’immagine pagana, dagli influssi gnostici, che hanno trasformato Gesù in un salvatore celeste.
Tutte queste tesi falliscono non solo per le contraddizioni di contenuto (l’immagine di Cristo del Nuovo Testamento è profondamente diversa dalle figure divine in ambiente ellenistico, pagano, gnostico, qui considerate) ma anche per semplici riflessioni cronologiche: per influssi di questo genere il tempo è troppo breve. Troviamo le più alte affermazioni cristologiche sulla preesistenza, la divinità e l’uguaglianza a Dio di Gesù non alla fine di un lungo sviluppo del Nuovo Testamento – press’a poco nel tardo prologo di Giovanni – bensì nell’inno della lettera ai Filippesi, con la stessa chiarezza e decisione, alcuni anni dopo la Pasqua.
2. Così rimane solo una seconda possibilità, che è la soluzione più comprensibile sia dal punto di vista storico che puramente fattuale: l’effetto di Gesù sui suoi discepoli, su grandi regioni della Galilea e della Giudea è la ragione per cui egli così presto aveva ricevuto questo grande titolo. Un testo come l’inno della epistola ai Filippesi è pensabile solamente se Gesù stesso nella sua attività e nella sua parola ne avesse offerto la ragione. La Chiesa primitiva non ha cambiato “il Gesù della storia” nel “Cristo della fede” bensì ha espresso chi era veramente Gesù di Nazareth. Tutta questa “conoscenza di Gesù Cristo che supera tutto” fu concessa a Saulo di Tarso, essa ha cambiato completamente il suo modo di vedere Gesù. Ciò che è accaduto a Saulo sulla via di Damasco più tardi è stato compreso da lui come un evento comparabile alla grandezza del primo giorno della creazione: per mezzo dell’incontro con Gesù (“Io ho veduto Gesù, Signore nostro” Cfr. 1Cor 9,1) egli stesso è diventato un uomo nuovo e ha cambiato completamente il suo sguardo su Gesù di Nazareth; “E Dio che disse: Rifulga la luce dalle tenebre, rifulse nei nostri cuori, per far risplendere la conoscenza della gloria divina che rifulge sul volto di Cristo” (2Cor 4,6).
Questo risplendere non ha distolto lo sguardo di Paolo dal “vero” Gesù storico; esso da una parte ha abbagliato i suoi occhi terreni ma dall’altra gli ha permesso di comprendere la vera identità di Gesù. In una sola volta ha ricevuto il dono della “epignosis”, la conoscenza vera e profonda di Gesù.
Si possono menzionare numerosi testi in cui Paolo applica il nome di Dio direttamente a Cristo. Per tutti ne cito qui uno: nella seconda lettera ai Corinzi (12,9) Paolo dice di aver pregato il Signore tre volte, di averlo implorato (parakalesa), di liberarlo dalla sua sofferenza, dal “pungiglione nella carne”. La risposta del Signore (che qui può essere solo Cristo): “ti basta la mia grazia”. Se si compara questo punto con Dt 3,26 (traduzione dei LXX), si vede che qui Paolo unifica Cristo e il Signore.
Naturalmente si deve aggiungere qualcosa per scongiurare malintesi: Gesù porta questi tratti divini come il crocifisso: e qui c’è il risentimento con cui si scontrano i pagani, come gli ebrei e gli stessi cristiani. Ciò che noi abbiamo detto trattando della “crisi esistenziale” è stato formulato in chiaramente dal filosofo pagano Celso: “Come dobbiamo ritenere un Dio proprio lui, che nulla di ciò che prometteva attuava, e che quando lo avevamo smascherato, e avevamo dimostrato la sua colpevolezza e deciso di ucciderlo, si è nascosto ed è fuggito, ed è stato catturato nel modo più vergognoso…? Sebbene egli fosse Dio, non è potuto scappare o liberarsi dalle catene, ancor meno egli, che era considerato il salvatore, il figlio e l’inviato del Dio altissimo poteva essere abbandonato e tradito dai suoi compagni”. Celso con cautela pone questa accusa nella bocca di un ebreo (Origene, Contra Celsum, 2,9). In questo ebrei e pagani erano uniti e per questo Paolo sottolineò così decisamente: “Ma noi predichiamo Cristo crocifisso” (1 Cor 1,23). Un figlio di Dio crocifisso, Signore, messia, “soter” (salvatore) è uno scandalo senza pari. Non c’è alcuna spiegazione credibile per la nascita di questo insegnamento scandaloso, se non perché Gesù stesso è la ragione di questo insegnamento. Né gli ebrei né i pagani potevano inventare la figura di un messia crocifisso, del figlio di Dio morto sulla croce. C’è soltanto una spiegazione sensata per questo: che Gesù stesso è coerente con la sua attività e con la sua parola, con la sua vita e sofferenza, con la sua morte e la sua risurrezione. Egli stesso è la ragione della Cristologia. Egli è la luce che rende intelligibile la sua figura. Il dogma cristologico non si sovrappone a lui non lo nasconde. No, la luce proviene da lui stesso: “alla tua luce noi vediamo la luce” (Salmo 36,10). Questa luce ha accecato Paolo e lo ha gettato a terra. Rendendolo cieco “ha illuminato gli occhi del suo cuore” (cfr. Ef 1,18) cosicché egli potesse riconoscere Cristo.
La Cristologia perciò diventerà sempre più il tentativo di vedere la figura di Cristo nella sua propria luce e di esaminare e mostrare la sua coerenza, e così cercare di capire perché era necessario, che “il Cristo soffrisse queste cose per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,26). Nella Cristologia si tratta di questa necessità che non può essere dedotta da nessuna ragione umana, e che è allo stesso tempo la più profonda risposta a tutte le domande, fallimenti e certezze dell’uomo: Gesù è la sorprendente, inaspettata, scandalosa risposta di Dio ed è risposta che dona felicità, più di quanto si possa sperare, agli inquieti cuori umani.