Si dà il nome di Tempo Pasquale al periodo formato dalle settimane che decorrono dalla Domenica di Pasqua al Sabato dopo la Pentecoste. Questa è certo la parte più sacra dell’anno, perché ad essa converge l’intero ciclo liturgico. Ce ne renderemo conto facilmente considerando l’importanza della festa di Pasqua, chiamata fin dagl’inizi del Cristianesimo la “Festa delle feste”, la “Solennità delle solennità”, allo stesso modo, ci dice il Papa San Gregorio, per cui la parte più sacra del Tempio di Gerusalemme si chiamava il “Santo dei Santi” e tuttora si dà il nome di “Cantico dei cantici” al sublime epitalamio dell’unione del Figlio di Dio con la santa Chiesa. È infatti nel giorno di Pasqua che la missione del Verbo incarnato, fino ad ora sempre tesa a questa meta, raggiunge la pienezza del suo compimento; è nel giorno di Pasqua che il genere umano viene risollevato dalla sua caduta e rientra in possesso di tutto ciò che aveva perduto per il peccato di Adamo.
Storia, mistica e pratica
del Tempo Pasquale *
dagli scritti di Dom Prosper Guérager O.S.B, Abate di Solesmes (1805-1875)
INDICE
Cenno storico sul Tempo Pasquale
Mistica del Tempo Pasquale
Pratica del Tempo Pasquale
L’apparizione alla Madonna
La grandiosità dell’ottava di Pasqua
CENNO STORICO SUL TEMPO PASQUALE
Definizione del Tempo Pasquale.
Si dà il nome di Tempo Pasquale al periodo formato dalle settimane che decorrono dalla Domenica di Pasqua al Sabato dopo la Pentecoste. Questa è certo la parte più sacra dell’anno, perché ad essa converge l’intero ciclo liturgico. Ce ne renderemo conto facilmente considerando l’importanza della festa di Pasqua, chiamata fin dagl’inizi del Cristianesimo la “Festa delle feste”, la “Solennità delle solennità”, allo stesso modo, ci dice il Papa San Gregorio, per cui la parte più sacra del Tempio di Gerusalemme si chiamava il “Santo dei Santi” e tuttora si dà il nome di “Cantico dei cantici” al sublime epitalamio dell’unione del Figlio di Dio con la santa Chiesa. È infatti nel giorno di Pasqua che la missione del Verbo incarnato, fino ad ora sempre tesa a questa meta, raggiunge la pienezza del suo compimento; è nel giorno di Pasqua che il genere umano viene risollevato dalla sua caduta e rientra in possesso di tutto ciò che aveva perduto per il peccato di Adamo.
Il Cristo vincitore.
Il Natale ci aveva dato un Uomo-Dio; tre giorni fa abbiamo raccolto il suo Sangue di un valore infinito per il nostro riscatto; ma all’alba della Pasqua non abbiamo più sotto i nostri occhi una vittima immolata, vinta dalla morte: è il trionfatore che l’ha annientata perché figlia del peccato, e che proclama la vita, quella vita immortale che ci ha riconquistata. Non è più l’umiltà delle fasce, non sono più gli spasimi dell’agonia e della croce; è la gloria, prima per Lui, poi per noi. Nel giorno di Pasqua Dio restaura nell’Uomo-Dio risuscitato la sua opera iniziale; il passaggio della morte non ha lasciato maggior traccia di quella del peccato, di cui l’Agnello divino si era degnato prendere la somiglianza; e non è solo Lui che torna alla vita immortale, ma tutta intera l’umanità. “Poiché per mezzo di un uomo è venuta la morte, ci dice l’Apostolo, anche per mezzo di un uomo vi è la resurrezione dei morti. E come tutti muoiono in Adamo, così tutti in Cristo saranno vivificati” (1 Cor 15, 21-22).
La preparazione della Pasqua.
L’anniversario di questo evento è dunque il giorno più grande, il giorno di allegrezza, il giorno per eccellenza, quello a cui tutto l’anno converge, quello su cui esso si fonda.
Ma proprio perché questo giorno è santo fra tutti gli altri, perché ci apre la porta della vita celeste nella quale entreremo risuscitati come Cristo, la Chiesa non ha voluto che venisse a splendere su di noi senza che avessimo prima purificato il nostro corpo per mezzo del digiuno e restaurato con la compunzione le nostre anime. È a questo fine che ha istituito la penitenza quaresimale e che, fin dalla Settuagesima, ci avverte che è venuto il momento di aspirare alle gioie purissime della Pasqua e di disporre l’animo nostro ai sentimenti che deve infonderci il suo avvicinarsi.
Ed ecco che ormai abbiamo terminato di prepararci e il Sole della Resurrezione si alza su di noi!
Santità della Domenica.
Ma non era sufficiente festeggiare il giorno solenne che ha visto Cristo, nostra Luce, sfuggire dall’ombra del sepolcro; un altro anniversario reclamava pure il nostro culto riconoscente.
Il Verbo incarnato è risuscitato il primo giorno della settimana, lo stesso giorno in cui, Verbo increato del Padre, aveva cominciato l’opera della creazione, sprigionando la luce dal seno del caos separandola dalle tenebre e dando inizio così al giorno dei giorni. Nella Pasqua dunque il nostro divino risuscitato consacra la domenica una seconda volta e da allora il sabato cessa di essere il giorno sacro della settimana. La nostra risurrezione, compiutasi in Nostro Signore Gesù Cristo una domenica, completa la gloria del giorno iniziale; il precetto divino del sabato soccomberà insieme con tutta la legge mosaica; e gli Apostoli d’ora in avanti ordineranno ai fedeli di santificare il primo giorno della settimana, nel quale la gloria della creazione si unisce a quella della divina rigenerazione.
Data della festa di Pasqua.
La resurrezione dell’Uomo-Dio era avvenuta di domenica; la sua commemorazione, quindi, non poteva aver luogo in un altro giorno della settimana. Era perciò necessario separare la Pasqua dei Cristiani da quella degli Ebrei, la quale, fissata irrevocabilmente al quattordici della luna di marzo, anniversario dell’uscita del popolo dall’Egitto, cadeva ora in uno, ora in un altro dei giorni della settimana. La loro Pasqua non era che una figura: la nostra è la realtà, dinanzi alla quale l’ombra svanisce. Fu necessario dunque, che la Chiesa spezzasse quest’ultimo legame con la Sinagoga e proclamasse la sua emancipazione, fissando la più solenne delle sue feste in un giorno tale da non coincidere mai con quello in cui gli Ebrei celebravano la loro Pasqua, sterile ormai di ogni. speranza. Gli Apostoli decisero che d’ora innanzi essa non sarebbe mai più il quattordici della luna di marzo, neppure quando questo cadesse di domenica, ma che si sarebbe celebrata in tutto l’universo la domenica che segue il giorno in cui l’ormai scaduto calendario della Sinagoga seguita a piazzarla. Nondimeno, in considerazione del gran numero di Ebrei che avevano ricevuto il Battesimo e che formavano da principio il nucleo della Chiesa cristiana, per non urtare la loro suscettibilità, fu pure presa la risoluzione che la legge relativa al giorno della nuova Pasqua sarebbe stata applicata successivamente e con prudenza. Del resto Gerusalemme non doveva tardare a soccombere sotto i colpi dei Romani, secondo la predizione del Salvatore, e la nuova città, ricostruita sulle sue rovine e abitata dalla colonia cristiana, avrebbe avuto anche la sua Chiesa, ma una Chiesa completamente indipendente dall’elemento giudaico, che la giustizia di Dio aveva in modo cosí chiaro ripudiato in quei medesimi luoghi.
La maggior parte degli Apostoli, nelle loro lontane predicazioni e nella fondazione delle Chiese in tante regioni situate anche fuori dei confini dell’Impero Romano, non ebbero da lottare contro consuetudini ebraiche. Delle loro reclute i più erano gentili. La Chiesa di Roma, che diveniva Madre e Maestra di tutte le altre, non conobbe mai altra Pasqua da quella che unisce, nella domenica, il ricordo del primo giorno del mondo e la memoria della gloriosa risurrezione del Figlio di Dio e di noi tutti che ne siamo le membra.
Usi dell’Asia minore.
Una sola provincia della Chiesa, l’Asia Minore, rifiutò per molto tempo di uniformarsi a questo uso comune. San Giovanni, che visse a lungo ad Efeso e vi morì, aveva creduto bene di non esigere dai numerosi Ebrei, che dalla Sinagoga erano passati al Cristianesimo, la rinuncia alla legge giudaica per la celebrazione della Pasqua, ed i fedeli che, convertiti dal paganesimo, vennero ad accrescere il numero di quella cristianità così fiorente, si appassionarono fino all’eccesso per quella tradizione, che si riallacciava all’origine delle Chiese dell’Asia Minore. Ma con l’andare avanti degli anni una tale anomalia era fonte di scandalo; vi si sentiva come un’impronta di giudaismo e l’unità del culto cristiano veniva a soffrire di una divergenza che impediva ai fedeli di essere tutti uniti nella gioia della Pasqua e nella tristezza dei giorni santi che la precedono. Il Papa San Vittore, che governò la Chiesa dall’anno 185, rivolse le sue cure contro tale abuso e pensò che era venuto il momento di far trionfare l’unità anche esteriore del culto cristiano in un punto tanto essenziale da formarne il centro. Già sotto il pontificato di S. Aniceto, circa l’anno 150, la Sede apostolica aveva tentato per mezzo di trattative amichevoli di condurre le Chiese dell’Asia Minore all’uso universale; ma nulla si era potuto ottenere contro un pregiudizio che si fondava su di una tradizione reputata sacra in quelle regioni. S. Vittore credette di potervi riuscire meglio dei suoi predecessori: per aver maggiore influenza sugli abitanti dell’Asia mediante la testimonianza unanime di tutte le Chiese, dette ordine che si tenessero concili nei vari paesi in cui il Vangelo era penetrato, e che vi venisse esaminata la questione della Pasqua. Ovunque l’accordo fu perfetto: e lo storico Eusebio, un secolo e mezzo dopo, scriveva che ancora si conservava il ricordo delle decisioni prese in proposito, oltre che dal concilio di Roma, anche da quelli tenuti nelle Gallie, nell’Acaia, nel Ponto, nella Palestina e nell’Osroene in Mesopotamia. Il concilio di Efeso, presieduto da Policrate, vescovo di quella città, fu il solo a resistere agli intenti dei Pontefice e all’esempio dato da tutta la Chiesa. Vittore, giudicando che questa opposizione non poteva venire sopportata più oltre, emise una sentenza con la quale le Chiese ribelli dell’Asia Minore venivano separate dalla comunione con la Santa Sede. Una condanna tanto severa, formulata solo dopo ripetute istanze da parte di Roma perché si rinunziasse a quei pregiudizi asiatici, suscitò la commiserazione di molti vescovi. S. Ireneo, che reggeva allora la cattedra di Lione, intervenne presso il Papa in favore di quelle Chiese, le quali, secondo lui, non erano colpevoli che di una decisione poco illuminata. E ottenne la revoca di un provvedimento la cui severità sembrava sproporzionata alla colpa. Questa indulgenza produsse il suo effetto: durante il secolo seguente S. Anatolio, vescovo di Laodicea, nel suo libro stilla Pasqua scritto nel 276, attesta che già da qualche tempo le Chiese dell’Asia Minore seguivano l’uso romano.
L’opera del concilio di Nicea.
Per una strana coincidenza, press’a poco nella stessa epoca, vi fu lo scandalo di una nuova scissione circa la celebrazione della Pasqua, questa volta da parte delle Chiese della Siria, della Cilicia e della Mesopotamia. Si videro infatti abbandonare la consuetudine cristiana e apostolica, per riprendere quella, di rito giudaico, del quattordici della luna di marzo.
Questo scisma nella liturgia afflisse la Chiesa; e uno dei primi intenti del Concilio di Nicea fu di promulgare l’obbligo universale di celebrare la Pasqua di domenica. Il decreto fu approvato all’unanimità ed i Padri componenti il Concilio ordinarono che “essendo stata superata ogni controversia, i fratelli orientali solennizzerebbero la Pasqua nello stesso giorno dei Romani, degli Alessandrini e di tutti gli altri fedeli”1. Interessando l’essenza stessa della liturgia cristiana, la questione sembrava cosí grave che S. Atanasio. nel riassumere i motivi che avevano provocato la convocazione del Concilio di Nicea, ci dice che essi furono: 1° condannare l’eresia ariana e 2° ristabilire l’unione nella celebrazione della Pasqua2.
Il Concilio di Nicea decise pure che il vescovo di Alessandria sarebbe incaricato di far fare i calcoli astronomici, necessari a determinarne ogni anno il giorno preciso, e che avrebbe inviato al Papa il risultato di tali studi affidati agli scienziati di quella città: scienziati che godevano della più grande reputazione. Il Romano Pontefice si sarebbe poi incaricato d’indirizzare a tutte le Chiese lettere con l’ordine della simultanea celebrazione della grande festa del Cristianesimo.
In questo modo l’unità della Chiesa si manifestava con l’unità della liturgia; e la Cattedra Apostolica, fondamento della prima, era nel medesimo tempo mezzo per realizzare la seconda.
Del resto, anche prima del Concilio di Nicea, il Romano Pontefice aveva la consuetudine d’indirizzare ogni anno a tutte le Chiese un’enciclica pasquale recante l’intimazione del giorno in cui si sarebbe dovuta celebrare la solennità della Resurrezione. Ce lo dice la lettera sinodale indirizzata al Papa S. Silvestro, nel 314, dai Padri componenti il concilio di Arles. “In primo luogo, essi scrivevano, noi chiediamo che il tempo e il giorno destinato alla celebrazione della Pasqua dei Signore sia il medesimo nel mondo intero e che, secondo l’usanza già esistente, a tutti tu faccia pervenire lettere in proposito” (Concilio delle Gallie).
Nondimeno quest’uso non sopravvisse di molto al Concilio di Nicea. L’imperfezione dei mezzi astronomici condusse a confusione nel modo di calcolare il giorno della Pasqua. È vero che ormai essa fu sempre solennizzata di domenica e che nessuna Chiesa si permise più di celebrarla lo stesso giorno di quella degli Ebrei, ma, essendovi vari pareri sull’epoca precisa dell’equinozio di primavera, accadde che in alcuni anni la data della festa variò a seconda dei luoghi. A poco a poco ci si allontanò dalla regola del Concilio di Nicea, che stabiliva di considerare il 21 marzo come il giorno dell’equinozio. Occorreva riformare il calendario e nessuno era in grado di farlo. I calendari si moltiplicavano in contraddizione gli uni con gli altri, di modo che spesso Roma ed Alessandria non riuscivano a mettersi d’accordo. Pur essendoci buona fede da entrambe le parti, alcune volte la Pasqua venne così celebrata senza quella simultaneità universale che il Concilio di Nicea aveva voluto instaurare.
La riforma del Calendario.
L’Occidente si uniformò all’uso di Roma, che finì per trionfare anche di alcune opposizioni sorte nella Scozia e in Irlanda, le cui Chiese erano state sviate da Cicli inesatti. Finalmente i progressi della scienza permisero al Papa Gregorio XIII d’intraprendere e di portare a termine la riforma del calendario. Si trattava di ristabilire al 21 marzo l’equinozio di primavera, in conformità alla decisione presa dal Concilio di Nicea. Ciò che fece il Sommo Pontefice per mezzo della bolla del 24 febbraio 1581, togliendo dieci giorni all’anno seguente, dal 4 al 15 ottobre, e completando così l’opera di Giulio Cesare, che al tempo suo aveva già rivolto la sua attenzione ai calcoli astronomici. Ma la Pasqua era stata l’idea fondamentale e lo scopo della riforma operata da Gregorio XIII. Il ricordo e le regole dettate dal Concilio di Nicea influivano ancora su tale questione capitale dell’anno liturgico, e il Romano Pontefice ancora una volta fissava il giorno della Pasqua per tutto l’universo; non più però per un solo anno, ma per tutti i secoli. Le nazioni dove imperava l’eresia sentirono, loro malgrado, la potenza divina della Chiesa in questa grande innovazione, che interessava tanto la vita religiosa che quella civile, e protestarono contro la riforma del calendario come già aveva protestato contro la regola della fede. L’Inghilterra e gli Stati luterani della Germania conservarono ancora a lungo l’antico calendario, che la scienza ripudiava, piuttosto di accettare dalle mani di un papa una riforma che il mondo riconosceva indispensabile. Ai giorni nostri, tra le nazioni europee, non v’è che la Russia che, per avversione verso la Roma di S. Pietro, persiste a restare in ritardo dai dieci ai dodici giorni sul resto del mondo civile.
Avvenimenti miracolosi.
Tutti questi dettagli, che noi siamo obbligati di abbreviare notevolmente, mostrano però a sufficienza quale importanza si debba attribuire alla data della solennità di Pasqua, e il Cielo ha spesso manifestato, con dei prodigi, di non rimanerne indifferente.
All’epoca in cui la confusione dei vari cicli e l’imperfezione dei mezzi astronomici portarono a tante indecisioni nello stabilire l’epoca dell’equinozio di primavera, fatti miracolosi servirono più di una volta a fornire quelle indicazioni che la scienza e l’autorità non potevano più dare con certezza.
Pascasino, vescovo di Lilibeo in Sicilia, in una lettera indirizzata nel 444 a S. Leone Magno, attesta che sotto il pontificato di S. Zosimo, mentre Onorio era console per l’undicesima volta e Costanzo per la seconda, il giorno della vera Pasqua fu rivelato ad una popolazione semplice ma religiosa, per mezzo di un intervento del Cielo. Tra montagne inaccessibili e fitte foreste, in un angolo isolato della Sicilia, si trovava un villaggio chiamato Meltina. La sua chiesa era delle più povere, ma lo sguardo e la bontà di Dio vigilavano su di essa, poiché ogni anno, durante la notte pasquale, al momento in cui il sacerdote si dirigeva verso il battistero per benedirne l’acqua, il sacro fonte se ne trovava miracolosamente riempito, senza che esistesse condotto o sorgente per alimentarlo.
Una volta finito di amministrare il Battesimo, l’acqua scompariva da se stessa, lasciando la piscina completamente asciutta. Ma avvenne che nell’anno più sopra indicato, quando il popolo, che era caduto in inganno per calcoli sbagliati, si radunò a celebrare la notte di Pasqua e, finite le profezie, si recò col sacerdote al battistero, il fonte apparve completamente privo d’acqua. I catecumeni attesero invano la presenza dell’elemento per mezzo del quale dovevano essere rigenerati: al levarsi del giorno si ritirarono. Il 22 aprile seguente (decimo dalle calende di maggio) la piscina si trovò riempita fino al labbro, manifestando così che quello era il giorno della vera Pasqua per l’anno in corso.
Cassiodoro, scrivendo in nome del re Atalarico ad un certo Severo, racconta un altro prodigio che si verificava annualmente, per il medesimo fine, la notte di Pasqua in Lucania, presso l’isoletta di Leucotea, in un luogo chiamato Marciliano, ove esisteva una grande piscina scelta per amministrare il Battesimo. Appena il sacerdote cominciava le preghiere solenni della benedizione sotto la volta del cielo, naturale copertura di questo fonte, l’acqua sembrava prender parte alla gioia pasquale aumentando nel suo bacino, di modo che, se prima arrivava fino al quinto gradino, dopo si vedeva salire fino al settimo, quasi volesse andare incontro alle meraviglie della grazia di cui era lo strumento. Dio dimostrava in tal modo che anche le cose insensibili, quando Egli lo permette, possono associarsi alle gioie sacre del più solenne dei giorni dell’anno3.
S. Gregorio di Tours ci parla di un altro fonte, che ai suoi tempi esisteva in una chiesa dell’Andalusia, in un luogo chiamato Osen, i cui fenomeni miracolosi servivano a discernere il vero giorno di Pasqua. Tutti gli anni, il giovedì santo, il vescovo vi si recava con i fedeli. Il fondo e le pareti della piscina, a forma di croce, erano ornati di mosaici. Si costatava che essa era completamente asciutta, e dopo alcune preghiere tutti uscivano dalla chiesa e il vescovo ne chiudeva la porta, apponendovi il suo sigillo. Il sabato santo il pontefice vi ritornava insieme con il popolo e ne riapriva le porte, dopo aver verificato che i sigilli fossero intatti. Entrati scorgevano la piscina piena d’acqua fin sopra il livello del pavimento, senza però che si riversasse all’intorno. Il vescovo pronunciava gli esorcismi su quest’acqua miracolosa e vi versava il sacro Crisma. Venivano poi battezzati i catecumeni; e quando il sacramento era stato amministrato a tutti, l’acqua spariva immediatamente, senza sapere che cosa avvenisse di essa4.
Anche le cristianità orientali furono testimoni di prodigi simili. Giovanni Mosco, nel xii secolo, parla di un fonte battesimale in Licia: l’acqua lo riempiva ogni anno la vigilia di Pasqua, dimorandovi per cinquanta giorni e prosciugandosi improvvisamente dopo la festa di Pentecoste5.
Nel cenno storico sul tempo della Passione noi abbiamo ricordato la legge degli imperatori cristiani che proibivano i processi civili e penali durante tutta la quindicina di Pasqua, ossia dalla domenica delle Palme fino all’ottava dopo la Resurrezione. S. Agostino, in un sermone pronunciato il giorno di detta ottava, esorta i fedeli ad estendere a tutto l’anno una simile sospensione da liti, contese e inimicizie che la legge civile aveva voluto interrompere almeno durante quei quindici giorni.
Il dovere della Comunione.
La Chiesa impone a tutti i suoi figli di ricevere la santa Eucaristia durante il tempo pasquale. Questo dovere si fonda sulla stessa intenzione del divin Salvatore che, se non ha fissato direttamente l’epoca in cui i fedeli si sarebbero accostati a questo grande sacramento, ne ha però lasciato la missione alla sua Chiesa, insieme con l’autorità di determinarla. Nei primi secoli del Cristianesimo la Comunione era frequente e in alcuni luoghi quotidiana. Più tardi i fedeli divennero freddi verso questo mistero divino e noi sappiamo dal canone diciottesimo dei concilio di Agde nel 506 che molti cristiani, anche nelle Gallie, avevano perduto il loro fervore primitivo. Perciò si decise che quei laici che non si fossero accostati alla Comunione a Natale, a Pasqua e a Pentecoste non sarebbero più stati annoverati tra i cattolici. Questa disposizione del concilio di Agde passò come legge quasi generale in tutta la Chiesa d’Occidente. La troviamo, fra l’altro, nelle prescrizioni dettate da Egberto, arcivescovo di York, e nel terzo concilio di Tours. Nello stesso periodo, in parecchi luoghi si vede la Comunione prescritta tutte le domeniche di Quaresima e negli ultimi tre giorni della settimana santa, senza che per questo ne fosse pregiudicato l’obbligo per la festa di Pasqua. Fu solo al principio del xiii secolo, nel IV concilio Lateranense del 1215, che la Chiesa, testimone della freddezza sempre più diffusa nella società, decretò, pur con dolore, che la Comunione per i cristiani era strettamente obbligatoria solo una volta l’anno e che doveva aver luogo a Pasqua. E per far sentire ai fedeli che questa condiscendenza rappresentava l’ultimo limite accordato alla loro negligenza, il santo concilio dichiarò che a colui, il quale osasse infrangere questa legge, potrebbe venire interdetto l’ingresso in chiesa durante la vita e sarebbe poi privato della sepoltura ecclesiastica dopo la morte, come se egli stesso avesse rinunciato a far parte della comunità cattolica6.
Queste disposizioni, prese da un concilio ecumenico, mostrano sufficientemente l’importanza del dovere che sono destinate a sanzionare. Nello stesso tempo ci fanno dolorosamente costatare il miserando stato di una nazione cattolica, ove milioni di cristiani sfidano ogni anno le minacce della santa madre Chiesa, rifiutandosi di sottomettersi ad un obbligo il cui adempimento porterebbe la vita nelle anime e costituirebbe la prova essenziale della loro fede.
Detraendo dal numero di coloro che non sono sordi alla voce della Chiesa e che vengono ad assidersi al banchetto pasquale coloro i quali hanno vissuto come se la penitenza quaresimale non esistesse, ci sarebbe da abbandonarsi all’angoscia ed al timore sulla sorte di questo popolo, se qualche indizio consolante non venisse di tanto in tanto a risollevare le speranze e promettere per l’avvenire generazioni più cristiane della nostra.
Riti Liturgici.
Il periodo di cinquanta giorni che separa la festa di Pasqua da quella di Pentecoste è stato sempre oggetto del maggior rispetto da parte della Chiesa. La prima settimana di esso, consacrata in modo speciale ai misteri della Resurrezione, doveva essere celebrata con adeguato splendore, ma anche le altre seguenti furono degnamente onorate. Oltre la divina allegrezza che pervade tutta questa parte dell’anno, di cui l’Alleluia è l’espressione, la tradizione cristiana assegna due usi, esclusivi al tempo pasquale, che servono a differenziarlo dal resto dell’anno. Il primo consiste nella proibizione di digiunare durante questi quaranta giorni, estendendo così l’antico precetto, che già lo vietava in tutte le domeniche. E ciò perché questo periodo di gioia deve essere considerato come una sola ed unica domenica. Tale uso fu accolto anche dagli Ordini religiosi più severi, sia dell’Oriente sia dell’Occidente.
L’altro rito particolare, conservatosi scrupolosamente nelle Chiese orientali, consiste nel non genuflettere durante la celebrazione degli uffici, dalla Pasqua fino alla Pentecoste. Le consuetudini occidentali hanno poi modificato quest’uso che aveva regnato pure da noi per alcuni secoli. La Chiesa latina ha riammesso da un pezzo le genuflessioni nella Messa durante il tempo pasquale e le sole vestigia che essa ha conservato delle antiche prescrizioni sono diventate quasi impercettibili ai fedeli che non hanno familiarità con le rubriche del servizio divino.
Tutto il tempo pasquale è dunque come un solo giorno di festa; è ciò che attesta anche Tertuiliano già nel III secolo, rimproverando certi cristiani che per la loro sensualità si dolevano di aver dovuto rinunziare, dopo il Battesimo, a tante gaie solennità del mondo pagano. Così loro diceva: “Se amate le feste, ne trovate certamente da noi; e feste di molti giorni, non di uno solo come nel paganesimo, dove, una volta avvenuta la celebrazione, non si ripete più per tutto l’anno. Per voi adesso tante settimane, altrettante feste! Addizionate pure tutte le solennità dei gentili: non arriverete mai ai nostri cinquanta giorni della Pentecoste” (De Idololatria, c. XIV).
S. Ambrogio, sul medesimo soggetto, scrivendo ai suoi fedeli, fa questa osservazione: “Se gli Ebrei, non contenti del loro sabato settimanale, ne celebrano un altro che dura tutto un anno, quanto più dovremo fare noi per onorare la Resurrezione del Signore! IR per questo che ci hanno insegnato a celebrare i cinquanta giorni della Pentecoste quale parte integrante della Pasqua. Sono sette settimane complete e la Pentecoste ne comincia l’ottava. Come in ogni domenica, che è il giorno della Resurrezione dei Signore, anche durante questo periodo la Chiesa vieta il digiuno, perché simili ad una sola ed unica domenica sono considerati tutti questi giorni” (Comm. in Lucam, I. VIII, c. XXV).
Il vertice dell’Anno Liturgico.
Tra tutti i periodi dell’Anno Liturgico, il Tempo Pasquale è sicuramente il più fecondo per i grandi misteri che commemora: il punto culminante di tutta la Mistica liturgica dell’Anno. Chiunque ha la fortuna di penetrare, con la pienezza dello spirito e del cuore, nell’amore e nell’intendimento del mistero pasquale, può dirsi giunto al centro stesso della vita soprannaturale; ed è per questo motivo che la Santa Madre Chiesa, venendo in aiuto alla nostra debolezza, ogni anno ci invita nuovamente a commemorarlo.
Ciò che l’ha preceduto non ne era che la preparazione: l’attesa dell’Avvento, la gioia del Tempo Natalizio, i grandi ed austeri pensieri della Settuagesima, la compunzione e la penitenza della Quaresima, la visione lacerante della Passione; tutta questa serie di sentimenti e di fatti meravigliosi convergevano alla meta a cui siamo giunti. E per farci capire meglio che la solennità di Pasqua rappresenta ciò che sulla terra vi è di più importante per l’uomo, Dio ha voluto che questi due grandi misteri, tesi ad un unico fine, la Pasqua e la Pentecoste, venissero offerti alla Chiesa nascente dopo un passato che contava già quindici secoli: periodo enorme, che non è però sembrato troppo lungo alla Divina Sapienza per preparare, con apposite figure, le grandi realtà di cui noi oggi siamo in possesso.
In questi giorni si uniscono le due grandi manifestazioni di Dio verso gli uomini: la Pasqua d’Israele e la Pasqua Cristiana; la Pentecoste del Sinai e la Pentecoste della Chiesa; i simboli, concessi ad uno solo tra i popoli, e la verità svelata e propagata a tutte le nazioni. Dobbiamo ora dimostrare dettagliatamente come le antiche figure si siano avverate nella realtà della nuova Pasqua e della Pentecoste: il crepuscolo della legge mosaica lascia il posto allo splendore del giorno evangelico. Ma noi ci sentiamo compresi da profondo rispetto, riflettendo che le solennità che noi celebriamo contano già più di tremila anni di esistenza, e che esse si ripeteranno ogni anno, finché non si udirà la voce dell’angelo gridare: “non vi sarà più tempo” (Apoc. 10, 6). Allora vedremo aprirsi le porte dell’eternità!
La Pasqua eterna.
L’eternità felice è la vera Pasqua: ed è per questo che la Pasqua di quaggiù è la Festa delle feste, la Solennità delle solennità. Il genere umano era in preda alla morte, si sentiva oppresso sotto la sentenza che lo aveva lasciato nella polvere del sepolcro: le porte della vita gli erano chiuse. Ed ora ecco che il Figlio di Dio esce dalla tomba ed entra in possesso della vita eterna; e non sarà lui solo a non morir più; il suo Apostolo ci insegna che Egli “è il primogenito tra i morti” (Col. 1, 18). La Santa Chiesa vuole dunque che noi ci consideriamo risorti con lui, come fossimo già in possesso della vita che non ha fine. I Santi Padri dicono che questi cinquanta giorni del tempo pasquale sono l’immagine della beatitudine eterna. Essi sono completamente consacrati alla gioia, esclusa ogni tristezza; e la Chiesa non sa più rivolgere la parola al suo Sposo senza intramezzarla con l’Alleluia, questo grido del cielo che risuona nelle vie e nelle piazze della Gerusalemme Celeste, secondo quanto ci dice la Liturgia7. Eravamo stati privati di quel canto di ammirazione di allegrezza durante nove settimane: dovevamo immolarci insieme con Cristo, nostra vittima; ma adesso che siamo usciti con Lui dalla tomba e che non vogliamo più morire di quella morte che uccide l’anima e fa spirare sulla Croce il nostro Redentore, l’Alleluia è di nuovo a noi!
La Pasqua e la natura.
La sapiente provvidenza di Dio, che ha disposto in una perfetta armonia l’opera visibile di questo mondo e l’opera soprannaturale della grazia, ha voluto far coincidere la Resurrezione del nostro divin Salvatore con l’epoca in cui anche la natura sembra uscire dalla sua tomba. I campi rinverdiscono, gli alberi della foresta hanno rimesso le foglie, il canto degli uccelli rallegra l’aere, e il sole, emblema di Gesù trionfante, versa fiotti di luce sulla terra rigenerata. A Natale invece, liberandosi a stento dalle ombre che sembravano minacciare di spegnerlo per sempre, l’astro benefico si mostrava in armonia con la nascita dell’Emmanuele, avvenuta nel profondo della notte, sotto umili spoglie; oggi possiamo dire insieme con il salmista: “L un campione che si slancia a correre la sua via… e nulla si asconde al suo calore” (Ps. 18, 6-7). Ascoltatela sua voce nel Cantico (2, 10-13) ove invita l’anima fedele ad unirsi a questa vita nuova che comunica a tutto ciò che respira: “Levati, amata mia colomba” esso dice “e vientene; perché, vedi, l’inverno è passato, la pioggia è passata, se n’è ita. I fiori si mostrano per la campagna; si ode per la nostra contrada il tubar della tortora. Il fico getta i suoi frutterelli, le viti in fiore mandano il loro profumo”.
Nobiltà della Domenica.
Nel capitolo precedente abbiamo spiegato perché il Figlio di Dio avesse scelto la domenica, a preferenza di tutti gli altri giorni, per trionfar della morte e proclamar la vita.
Non poteva dimostrare con maggiore energia, come tutto il creato si rinnova nella Pasqua, che, ridando l’immortalità all’uomo, attraverso la sua persona, nel medesimo giorno in cui aveva creato la luce dal nulla. Non soltanto l’anniversario della sua Resurrezione diventa d’ora in avanti il più importante dei giorni, ma, in ogni settimana, la domenica ricorderà la Pasqua, sarà la giornata sacra.
Israele, secondo il comandamento di Dio, festeggiava il Sabato per onorare il giorno del riposo del Signore dopo l’opera della creazione: la Santa Chiesa, sposa del Cristo, si associa all’opera stessa dello Sposo. Lascia trascorrere il Sabato, il giorno che Egli passò nel riposo del sepolcro, ma, illuminata dagli splendori della Resurrezione, consacra d’ora in poi il primo giorno della settimana alla contemplazione dell’opera divina, che vide di volta in volta uscire dall’ombra e la luce materiale, prima manifestazione della vita sul caos, e colui che, essendo lo Splendore eterno del Padre, si è degnato di dirci: “lo sono la luce del mondo” (Giov. 8, 12).
Che la settimana, dunque, termini pure col suo Sabato: a noi cristiani occorre l’ottavo giorno, quello che supera la misura del tempo; a noi occorre il giorno dell’eternità, il giorno in cui la luce non sarà più intermittente, né data con circospezione, ma si spanderà senza fine e senza limiti. Così parlano i Santi Dottori della fede, rivelandoci gli splendori della domenica ed il motivo dell’abrogazione del sabato.
Senza dubbio era bello per l’uomo prendere quale giorno di religioso riposo settimanale quello stesso in cui il creatore del mondo visibile si era riposato; ma in esso non si trovava che il ricordo della creazione materiale.
Il Verbo riappare nel mondo, che egli aveva creato nel principio: questa volta nasconde la luce della sua natura divina sotto i veli della carne umana. là venuto a compiere la realizzazione delle antiche figure. Prima di abrogare il Sabato vuole realizzarlo nella sua persona, come tutto il resto della legge, passandolo nell’assoluto riposo, dopo il travaglio della Passione, sotto la volta funebre del sepolcro. Ma ai primi albori dell’ottavo giorno il divin prigioniero si slancia verso la vita e inaugura il regno della gloria. “Lasciamo dunque” ci dice Ruperto “lasciamo all’ebreo, schiavo dell’amore per i beni di questo mondo, di abbandonarsi alla gioia ormai sorpassata del suo sabato, che non rappresenta più altro che il ricordo di una creazione materiale. Assorto in questioni terrestri, esso non ha saputo riconoscere il Signore che ha creato il mondo; non ha voluto vedere in lui il Re dei Giudei, perché Egli diceva loro: “Beati i poveri”. Il Sabato dei cristiani, il nostro Sabato, è l’ottavo giorno, che, allo stesso tempo, è il primo; e la gioia che noi vi attingiamo non viene dal fatto che il mondo è stato creato, ma piuttosto da quello che esso è stato salvato”8.
Il mistero del settenario seguito da un ottavo giorno, che è quello sacro, ha un’applicazione nuova e ancor più larga nella stessa disposizione del Tempo Pasquale. Questo periodo si compone di sette settimane, che formano una settimana di settimane, di cui il giorno seguente viene di nuovo ad essere una domenica, quella di Pentecoste. Dio stesso stabilì, senza che noi ne comprendiamo il mistero, il numero di questi giorni, quando istituì, nel deserto del Sinai, la prima Pentecoste, cinquanta giorni dopo la prima Pasqua. Quest’ordine fu raccolto dagli Apostoli per essere applicato al periodo pasquale dei cristiani. Ce lo insegna Sant’Ilario di Poitiers, la cui dottrina ci viene trasmessa da Sant’Isidoro, da Amalario, da Raban “Maur”, e generalmente da tutti gli antichi interpreti dei misteri liturgici. “Se noi moltiplichiamo per sette il settenario – egli ci dice – riconosceremo che questo santo periodo di tempo è veramente il sabato dei sabati; ma ciò che lo completa e lo eleva fino alla pienezza evangelica, è l’ottavo giorno che lo segue, quel giorno che è contemporaneamente il primo e l’ottavo. Gli apostoli hanno fatto delle sette settimane una istituzione così sacra, che durante tutto questo tempo non si deve genuflettere in segno di adorazione né turbare, coi digiuno, le delizie spirituali di questa festa così prolungata. La medesima disposizione si estende ad ogni domenica, poiché questo giorno, che segue il sabato, è divenuto, mediante l’applicazione dei progressi evangelici, il perfezionamento del sabato stesso e il giorno che noi passiamo festosamente e nell’allegrezza”9.
Così, dunque, maggiormente sviluppato nella forma, noi ritroviamo nel Tempo Pasquale lo stesso mistero che in ogni domenica ci viene ricordato. Tutto per noi ormai ha la sua data di origine nel primo giorno della settimana, perché la resurrezione del Cristo l’ha illuminato per sempre della sua gloria, di cui la creazione della stessa luce materiale non era che un’ombra. Abbiamo visto poco fa che questa istituzione era già accennata nell’antica Legge, anche se il popolo d’Israele ancora non ne possedeva il segreto.
La Pentecoste degli Ebrei cadeva nel cinquantesimo giorno dopo la Pasqua, in quello, ossia, che seguiva immediatamente le sette settimane. Un’altra figura del nostro Tempo Pasquale la troviamo pure in una delle prescrizioni che Dio aveva dato a Mosè nell’anno giubilare. In ogni cinquantesimo anno le case ed i campi che erano stati alienati durante gli altri quarantanove precedenti, dovevano ritornare ai loro possessori, e gli Israeliti che la miseria aveva costretto a vendersi, avrebbero riacquistata la loro libertà. Quell’anno, chiamato espressamente anno sabbatico, seguiva le sette settimane di anni che l’avevano preceduto e portava così l’immagine dei nostro ottavo giorno, nel quale il Figlio di Maria, risuscitato, ci ha riscattato dalla schiavitù della tomba, facendoci, tornare eredi della nostra immortalità.
Usi liturgici.
Gli usi liturgici che caratterizzano il Tempo Pasquale nell’attuale disciplina dei riti sono principalmente i due seguenti: la ripetizione continua dell’Alleluia, di cui abbiamo già parlato poco fa, e l’impiego dei colori bianco e rosso, secondo le esigenze delle due solennità, di cui una apre questo periodo e l’altra lo chiude.
Si esige il colore bianco per il mistero della Resurrezione, che è quello della luce eterna, luce senza ombra e senza macchia, e che produce in coloro che lo contemplano un sentimento di inenarrabile purezza e di beatitudine sempre crescente.
La Pentecoste, che fin da questa vita ci dona lo Spirito Santo con il suo fuoco che brucia, col suo amore che consuma, richiedeva un colore speciale che potesse esserne l’espressione e la Chiesa ha scelto il rosso per esprimere il mistero del divino Paraclito, manifestandosi in lingue di fuoco, scese su tutti coloro che si erano radunati nel Cenacolo. Più sopra abbiamo già detto che nella liturgia latina non restano che poche tracce dell’antico uso di non genuflettere durante il Tempo Pasquale.
Le feste dei Santi, sospese in tutto il corso della settimana precedente la Pasqua, lo saranno ancora durante i primi otto giorni del Tempo Pasquale, ma, dopo, esse ricompariranno nel ciclo, gioconde e numerose, attorno al Sole Divino. Lo scorteranno nella sua gloriosa Ascensione; ma, tanto grandioso è il mistero della Pentecoste, che ne verranno nuovamente sospese a cominciare dalla vigilia di questa solennità fino al termine di tutto il Tempo Pasquale.
I riti della Chiesa primitiva in rapporto ai neofiti che erano stati rigenerati nella notte di Pasqua, offrono ancora numerosissimi episodi dei più commovente interesse. Non è qui il momento di parlarne, poiché non si riferiscono che alle due ottave, quelle della Pasqua e della Pentecoste; ma ne daremo ampie spiegazioni man mano che se ne presenterà l’occasione nello svolgersi della Liturgia.
La gioia spirituale.
Il riflesso di questo periodo sacro si riassume nella gioia spirituale che esso deve produrre nelle anime risuscitate assieme a Cristo, gioia che è una pregustazione della felicità eterna e che il Cristiano deve, d’ora in avanti, conservare in sé, cercando sempre più con ardore quella Vita che è nel nostro divin Salvatore e fuggendo, con costante energia, la morte, figlia del peccato.
Nelle settimane precedenti abbiamo dovuto dolerci di noi stessi, piangere le nostre colpe, abbandonarci all’espiazione, seguire Gesù fino al Calvario; ma adesso la Chiesa c’impone, invece, di rallegrarci. Essa stessa ha bandito ogni tristezza; non geme, ormai, che come la colomba; canta, quale sposa che ha ritrovato il suo sposo!
E per rendere più universale questo sentimento di gioia, essa si è adattata alla debolezza dei suoi figli. Dopo aver loro ricordato la necessità dell’espiazione, ha concentrato tutto il vigore della penitenza cristiana nei quaranta giorni appena trascorsi; ed ora, rendendo la libertà al nostro corpo, e nel medesimo tempo ai sentimenti dell’anima nostra, ci ha trasportato in una regione dove non esiste che allegrezza, luce e vita, dove tutto è gioia, serenità, dolcezza e speranza di immortalità.
È così che è riuscita a suscitare, anche nelle anime meno elevate, un sentimento analogo a quello di cui godono le più perfette: di modo che, nell’inno che si eleva dalla terra per dar lode al nostro adorabile trionfatore, non vi sono dissonanze, e tutti, ferventi e tiepidi, uniscono le loro voci nell’entusiasmo universale.
Il più profondo e dotto liturgista del secolo xii, Ruperto, Abate di Deutz, così spiega questo indovinato stratagemma della Santa Chiesa: “Vi sono – egli dice – degli uomini sensuali che non sanno aprire gli occhi per contemplare i beni spirituali che quando si presenta loro l’occasione di qualche incidente materiale che gliene dà l’impulso. La Chiesa, per commuoverli, ha dovuto cercare un mezzo proporzionato alla loro debolezza. A questo fine ha istituito il digiuno quaresimale che rappresenta la decima dell’anno offerta a Dio, di modo che questa santa carriera non debba terminarsi che con la solennità della Pasqua, e che dopo vi siano cinquanta giorni consecutivi, durante i quali non se ne trovi neppure uno di digiuno.
“Accade così che gli uomini mortificano il loro corpo, sostenuti però dalla speranza che la festa di Pasqua verrà a liberarli da quel giogo di penitenza; essi, nei loro desideri, pregustano l’arrivo della solennità; ogni giorno della Quaresima è per loro ciò che è una sosta per il viaggiatore; essi le contano con cura, pensando che il numero diminuisce progressivamente; ed è così che questa festa, da tutti desiderata, a tutti diviene cara, come lo è la luce per coloro che camminano nelle tenebre, la sorgente zampillante per quelli che hanno sete e la tenda preparata dal Signore medesimo per il viandante affaticato”10.
Felice quel tempo in cui, in tutto l’esercito cristiano, come dice San Bernardo, nessuno si asteneva dal compiere il proprio dovere; quando giusti e peccatori camminavano di pari passo nella pratica delle cristiane osservanze. Ai giorni nostri la Pasqua non produce più la medesima sensazione di gioia nella nostra società. Senza dubbia la causa risiede nella mollezza e nella falsità delle coscienze che conducono molte persone a considerare l’obbligo della Quaresima come se per loro non esistesse.
Ne consegue che tanti fedeli vedono giungere la Pasqua come una grande festa, è vero, ma non sono che superficialmente impressionati da quel sentimento di viva gioia sul quale la Chiesa impronta in questi giorni tutto il suo atteggiamento. E si sentono ancor meno disposti a mantenere, durante il periodo dei cinquanta giorni, quell’allegrezza a cui hanno partecipato in misura così esigua nel giorno tanto desiderato dai veri cristiani.
Non hanno digiunato, non hanno osservato l’astinenza durante la Quaresima; la condiscendenza della Chiesa verso la loro debolezza non è stata neppure sufficiente; per loro si sono dovute dare altre dispense; e, fortuna ancora, quando non se ne sono esonerati da sé medesimi; essi non sentono neppure il rimorso di non aver adempiuto a questi ultimi resti del dovere cristiano!
Quale sensazione può produrre in loro il ritorno dell’Alleluia? Quelle anime non sono state purificate dalla penitenza: sarebbero esse abbastanza agili per seguire Cristo Risuscitato, la cui vita è ormai più del cielo che della terra?
Ma non andiamo contro le intenzioni della Chiesa rattristandoci con questi pensieri scoraggianti: preghiamo piuttosto il Divin Risuscitato, affinché, nella sua infinita potenza e bontà, illumini queste anime con gli splendori della sua vittoria sul mondo e sulla carne, e che le sollevi fino a Lui. Niente deve distoglierci in questi giorni dalla nostra felicità. Lo stesso Re di gloria ci dice: “Possono forse i compagni dello sposo stare afflitti, finché lo sposo è con essi?” (Mt 9, 15).
Gesù resterà ancora con noi per quaranta giorni; non soffrirà più; non morirà più; che dunque i nostri sentimenti siano consoni al suo stato di gloria e di felicità, che deve ormai durare per sempre. Ci lascerà, è vero, per salire alla destra del Padre; ma di là ci manderà il divin Consolatore, che resterà con noi, affinché non restiamo orfani (Gv 14). Che tali parole siano dunque nostra bevanda e nutrimento per questi giorni: “I figli dello stesso sposo non devono rattristarsi mentre lo sposo è con essi”. Esse sono la chiave di tutta la liturgia di quest’epoca; non perdiamole di vista neppure per un istante e sentiremo che, se la compunzione e la penitenza della Quaresima ci sono state salutari, la gioia Pasquale non lo sarà certo di meno. Gesù in croce e Gesù risuscitato è sempre il medesimo Gesù; ma in questo momento Egli ci vuole attorno a Lui, insieme con la sua Santissima Madre, con i suoi Discepoli, con la Maddalena, tutti abbagliati e rapiti per la sua gloria, dimenticando, in queste ore troppo veloci, le angosce della Passione.
Il desiderio della Pasqua eterna.
Ma quest’epoca piena di delizia giungerà al suo termine e non ci resterà che il ricordo della gloria e della familiarità del nostro Redentore. Cosa faremo noi allora nel mondo quando Colui, che ne era la vita e la luce, non sarà più visibile? Cristiano, tu aspirerai ad una nuova Pasqua!
Ogni anno tornerà a darti quella felicità che tu hai saputo comprendere; e di Pasqua in Pasqua tu arriverai alla Pasqua eterna che durerà tanto quanto Dio stesso, il cui splendore arriva fino a te quale preludio alle gioie che essa ti riserva. Ma non è ancora tutto: ascolta la Santa Chiesa che ha previsto il disinganno nel quale potresti essere tentato di cadere; ascolta ciò che domanda per te al Signore: “Concedi ai tuoi servi di esprimere con la vita il Sacramento ricevuto mediante la fede”11. li mistero di Pasqua non deve cessare di essere visibile sulla terra; Gesù, risuscitato, sale al Cielo, ma lascia in noi l’impronta della sua Resurrezione e noi dovremo conservarla finché Egli ritorni.
Vita nuova in Cristo.
E come, effettivamente, questa impronta divina potrebbe non rimanere in noi, sapendo che partecipiamo a tutti i misteri di Cristo? Dacché Egli si è incarnato non ha fatto un passo senza di noi. Quando è nato a Betlemme, noi nascevamo con lui; quando è stato crocifisso a Gerusalemme, l’antico uomo che era in noi, secondo la dottrina di San Paolo, è stato con Lui inchiodato alla Croce; quando è stato posto nel sepolcro, anche noi siamo stati sepolti assieme con Lui. Ne consegue che quando Egli risuscita da morte, anche noi dobbiamo vivere di una nuova vita (Rm 6, 6-8).
Ora “Cristo risorto da morte – seguita l’Apostolo – più non muore e la morte non ha più dominio su di lui. Poiché morendo Egli morì al peccato una sola volta per tutte; vivendo Egli vive a Dio” (Rm 6, 9-10).
Noi formiamo le sue membra: la nostra sorte, quindi, deve essere uguale alla sua. Morire nuovamente per via del peccato significherebbe rinunziare a Lui, separarci da Lui, rendere per noi inutile quella morte e quella Resurrezione a cui noi abbiamo partecipato.
Vegliamo dunque per mantenere in noi quella vita che non viene da noi, ma che, nondimeno, ci appartiene completamente, poiché colui che l’ha conquistata morendo, ce l’ha data insieme con tutto ciò che possiede. Peccatori, che avete ritrovato la vita della grazia in occasione della solennità pasquale, non vi esponete più alla morte, ma compite opere degne di una vita di Resurrezione e di redenzione. Giusti, che il mistero pasquale ha rianimato, intraprendete una vita più generosa sia nei vostri sentimenti che nelle vostre opere. È così che tutti vi incamminerete nella vita rinnovata che l’Apostolo ci raccomanda.
Noi non svilupperemo qui le meraviglie. dei mistero della Resurrezione di Gesù Cristo: risalteranno esse stesse dal nostro modesto commento e metteranno anche in maggior evidenza il dovere imposto ai fedeli di imitare il loro Divin Salvatore, mentre ci aiuteranno a capire meglio la magnificenza e l’estensione dell’opera essenziale dell’Uomo-Dio.
Troviamo qui nel Tempo Pasquale il punto culminante della Redenzione con le tre grandi manifestazioni dell’amore e del potere divino: Resurrezione, Ascensione e discesa dello Spirito Santo. Nell’ordine dei tempi, tutto ha servito a preparare questa conclusione, in seguito alla promessa fatta ai nostri progenitori, dopo la loro colpa, dal Signore irritato, ma misericordioso; e nell’ordine della Liturgia, dopo le settimane di attesa dell’Avvento, eccoci giunti al termine; e Dio appare come una potenza e una sapienza che sorpassano infinitamente tutto ciò che noi potevamo prevedere. Gli stessi Spiriti celesti ne rimangono confusi di ammirazione e di stupore, e la Chiesa ce lo esprime in uno dei cantici del Tempo Pasquale:
“Gli Angeli – è detto – sono commossi dal terrore vedendo la rivoluzione che si opera nello stato della natura umana. La carne ha peccato ed è la carne che purifica; un Dio viene a regnare e in Lui la carne è unita alla Divinità”12.
Il tempo pasquale appartiene pure alla “vita illuminativa”.
Esso ne è la parte più elevata, poiché non ci manifesta solamente le umiliazioni e le sofferenze dell’Uomo-Dio come nei precedenti periodi, ma ce le mostra in tutta la sua gloria, ce lo fa scorgere, esprimendo nella sua umanità, il più alto grado della trasformazione della creatura in Dio. La discesa dello Spirito Santo viene poi ad aggiungere il suo splendore a questa luce e rivela alle anime i rapporti che devono unirle alla Terza Persona della Santissima Trinità. Così si sviluppa la via ed il progresso dell’anima fedele, che, essendo diventata l’oggetto dell’adozione dei Padre celeste, è iniziata a questa splendida vocazione dagli insegnamenti e dagli esempi del Verbo incarnato, e perfezionata dalla visita e inabitazione dello Spirito Santo. Da qui risulta l’insieme delle pie pratiche che la conducono all’imitazione del suo Divin modello, e la preparano a quell’unione a cui è invitata da Colui che “a quanti lo accolsero, a quelli che credono nel suo nome, diede il diritto di diventare figli di Dio; i quali, non da sangue, né da voler di carne, né da voler di uomo, ma da Dio sono nati” (Gv 1, 12-13)
…Gesù risorto, prima che nessun essere mortale abbia potuto contemplarlo nella sua gloria, ha attraversato lo spazio e in un attimo si è riunito alla sua Santissima Madre.
Egli è il figlio di Dio, il Trionfatore della morte, ma è pure figliuolo di Maria. Ella gli è stata vicina, assistendolo fino al termine della sua agonia; ha unito il sacrificio del suo cuore materno a quello che egli stesso offriva sulla Croce; è dunque giusto che siano per lei le prime gioie della Resurrezione. Il Santo Vangelo non annovera tra le apparizioni quella del Salvatore a sua Madre, mentre lo fa dettagliatamente per tutte le altre; è facile capirne la ragione.
Quest’ultime avevano per scopo di divulgare il fatto della Resurrezione, mentre quella era solo reclamata dal cuore di un figlio, e di un figlio come Gesù. La natura e la grazia esigevano questo primo incontro, che nella sua misteriosità commovente, forma la delizia delle anime cristiane. Non vi era bisogno che fosse registrata nei libri sacri; la tradizione dei Santi Padri, a cominciare da S. Ambrogio, era sufficiente a trasmettercela, anche se i nostri cuori non ne avessero avuto prima il presentimento. E quando noi ci domandiamo per quale ragione il Signore, che doveva uscir dalla tomba di Domenica, volle farlo nelle prime ore del giorno, ancor prima che il sole sorgesse ad illuminare l’universo, noi ci associamo senza difficoltà al parere di quegli autori che hanno attribuito questa premura del Figlio di Dio al desiderio che aveva il suo cuore di mettere fine alla dolorosa attesa della più tenera e della più afflitta delle Madri.
Quale parola umana oserebbe provarsi a descrivere le effusioni del Figlio e della Mamma, in quell’ora tanto desiderata? Gli occhi di Maria, consumati dal pianto e dall’insonnia, si aprono improvvisamente nella dolce e viva luce che le annunzia l’avvicinarsi del suo diletto; la voce di Gesù risuona alle sue orecchie, non più con quell’accento doloroso che poco prima scendeva dall’alto della croce e, quale spada, trapassava il suo cuore materno, ma piena di gioia e di tenerezza, come si conviene a un figlio che viene a raccontare i suoi trionfi a colei che gli ha dato la luce.
L’aspetto di quel corpo sanguinante e inanimato, che tre giorni fa ella prendeva tra le sue braccia, ora è radioso e pieno di vita, come se emanasse il riflesso di quella divinità alla quale è unito; le carezze di un simile figlio, le sue parole di tenerezza, gli abbracci suoi, che sono quelli di un Dio: ecco la scena rappresentataci in modo sublime dalla parola del Ruperto, che ci dipinge l’effusione di gioia di cui il cuore di Maria si trova ricolmo, come un torrente di felicità che la esalta e le toglie lo strazio dei dolori atroci che ella ha dovuto sopportare13.
Nondimeno questa profusione di delizie che il Figlio di Dio aveva preparato a sua Madre, non fu così subitanea, come le parole di questo autore del xii secolo potrebbero farci credere. Nostro Signore ha voluto descrivere, egli stesso, quella scena in una rivelazione fatta a Santa Teresa. Si degnò di confidarle che la sua divina Mamma era così profondamente abbattuta, da non resister ancora molto senza soccombere al suo martirio e che, quando si mostrò a lei, appena uscito dal sepolcro, ebbe bisogno di qualche istante per ritornare in se stessa, prima di ritrovarsi in istato di godere una tale gioia; e il Signore aggiunge che le restò non poco vicino, perché questa sua prolungata presenza le era necessaria14.
Noi cristiani, che amiamo la Madre nostra, che l’abbiamo vista sacrificare sul Calvario il suo Figliolo, dividiamo con cuore filiale la felicità di cui Gesù si compiace di colmarla in questo momento, e impariamo, nel medesimo tempo, a compatire i dolori del suo cuore materno. È questa la prima manifestazione di Gesù risorto: ricompensa della fede che fu sempre viva nel cuore di Maria, anche durante l’oscurità dell’eclissi che aveva durato tre giorni.
Ma è giunto il tempo in cui il Cristo si mostrerà ad altri, e che la gloria della Resurrezione comincerà a brillare sul mondo. Si è fatto vedere prima di tutto da colei che fra le creature gli era la più cara e che sola era degna di una tale felicità; adesso, nella sua bontà, ricompensa con la sua visione consolante, le anime devote che sono rimaste fedeli all’amor suo, in un lutto forse troppo umano, ma ispirato a una riconoscenza che, né la morte, né il sepolcro, avevano scoraggiato.
La grandiosità dell’ottava di Pasqua.
La Chiesa di altri tempi dedicava tutti i giorni di questa settimana all’astensione del lavoro come se si fosse trattato di un’unica festa; ed i lavori manuali ne restavano interrotti durante il corso. L’editto di Teodosio, nel 389, che sospendeva l’azione dei tribunali durante questo periodo, veniva ad aiutare tale prescrizione liturgica che noi troviamo menzionata nelle prediche di sant’Agostino e nelle omelie di San Giovanni Crisostomo. Quest’ultimo, parlando ai neofiti, così si esprimeva: “Durante questi sette giorni voi godete dell’insegnamento della dottrina divina; l’assemblea dei cristiani si riunisce per voi, noi vi ammettiamo alla sacra mensa; in questo modo vi armiamo e vi esercitiamo alle lotte contro il demonio. Poiché adesso, che si prepara ad attaccarvi con maggior furore, più è grande la vostra dignità e più vivo sarà il suo attacco. Mettete dunque a profitto i nostri insegnamenti durante questo intervallo e sappiate imparare a lottare valorosamente. Riconoscete pure in questi sette giorni il cerimoniale delle nozze spirituali che avete avuto l’onore di contrarre. La solennità delle nozze dura sette giorni; noi abbiamo voluto, durante questo stesso periodo, trattenervi nella stanza nuziale”15.
Tale era allora lo zelo dei fedeli, la loro attrazione per le solennità della Liturgia, l’interesse che portavano per le nuove reclute della Chiesa, che essi aderivano con premura ed erano assidui a tutto ciò che da loro si esigeva durante questa settimana.
La gioia della Risurrezione riempiva tutti i cuori e occupava ogni momento. I Concili emanarono dei Canoni che erigevano in legge questa consuetudine. Quello di Macon, nel 585, così formulava il suo decreto: “Noi dobbiamo tutti celebrare e festeggiare con zelo la Pasqua, nella quale il Sommo Sacerdote e Pontefice è stato immolato per i nostri peccati, e dobbiamo onorarlo mediante l’esattezza nell’osservare le prescrizioni che essa impone. Nessuno, dunque, si permetterà alcuna opera servile durante questi sei giorni (che seguono la domenica); ma tutti si riuniranno per cantare gl’inni della Pasqua, assistendo assiduamente al Santo Sacrificio quotidiano e radunandosi per lodare il nostro Creatore e Rigeneratore, la sera, il mattino e a mezzogiorno”16.
I Concili di Magonza (813)